A proposito di “natura umana”, di animali e di mattanze…
Mese: Maggio 2007
EHI, PROF!
Molto interessante questo Ehi, prof! (Teacher Man nell’edizione americana) di Frank McCourt, già autore di libri acclamati sulla migrazione irlandese negli Stati Uniti (Le ceneri di Angela e Che paese, l’America), tutti editi da Adelphi. Qui McCourt ci racconta i suoi trent’anni di insegnante nelle scuole superiori di New York, tra gli anni ’50 e gli anni ’80.
Interessante soprattutto perché ci rivela come i nodi dell’integrazione e della comunicazione, la distanza tra adolescenti e mondo adulto, la scuola e i suoi eterni problemi – tutte cose oggi stradibattute e drammatizzate – siano in realtà abbastanza trasversali alle generazioni e alle società, per lo meno in questo segmento di occidente e di modernità.
Lo spaesamento dei ragazzi, a maggior ragione se figli di immigrati, è una delle cifre del libro, e il prof-narratore – che è migrante e disorientato a sua volta – si trova a dover gestire quotidianamente una tale mole di problemi di relazione, prima ancora che di “acculturamento”, da far tremare i polsi. Verrebbe da dire: gli adolescenti sono degli alieni e i professori sono degli eroi!
Lucidamente McCourt scrive verso la fine del suo racconto: “La grande emergenza americana sta tutta nello scontro fra adolescenza e mezza età. I miei ormoni invocano una tranquilla radura nel bosco, i loro pulsano, sfacciati ed esigenti […] loro sono giovani e il mestiere dei giovani è cacciare via i vecchi dal pianeta”.
A tutte le minchiate che quotidianamente sento dire a proposito di scuole, adolescenti e dintorni, basterebbe forse come risposta questa frase di McCourt.
IN PUNTA DI PIEDI SUL PIANETA
Auschwitz inizia quando si guarda un mattatoio e si pensa ‘sono solo animali’.
(T.Adorno)
Ci sono molti motivi per diventare vegetariani (lascio perdere per ora la suddivisione in diversi “partiti”, anche se non è certo una questione secondaria). Uno solo ben fondato è più che sufficiente, ma per chi avesse dubbi o perplessità faccia pure la somma di quelli che ora proverò ad elencare e poi torni tranquillamente alle sue abitudini alimentari, se ci riesce:
-ragioni dietetico/alimentari: in Occidente si mangia troppa carne, lo dicono tutti ad eccezione dei macellai e dei MacDonalds. Ma il “mito della carne” e delle proteine, evidentemente costruito ad arte per far soldi, è duro da smontare;
-ragioni di salute: non è che i grassi animali facciano poi molto bene. E’ accertato che la carne e i derivati animali sono cancerogeni e all’origine di gran parte dei problemi cardiovascolari. Paradosso: per risolvere i problemi delle malattie derivate dalla dieta carnivora che cosa si fa? Naturalmente si vivisezionano, si torturano e si fanno test su altri animali!
-ragioni ecologiche: la carne è un alimento di secondo grado, cioè anziché nutrirci direttamente dei vegetali che hanno tutto quello che ci serve, noi ci nutriamo di animali che si sono nutriti a loro volta di vegetali, e ciò comporta uno spreco immenso di risorse in termini di acqua, inquinamento, desertificazione, disboscamento, ecc.ecc. Un esempio: per mettere un chilo di peso occorre ingozzarsi con 10 chili di pesce i quali hanno fatto fuori 100 chili di molluschi e vermi che a loro volta si sono mangiati 1000 chili di plancton; oppure: per ottenere 1 kg di proteine dai bovini si ha bisogno della stessa superficie coltivata con la quale se ne potrebbero ottenere 5 dai cereali e 10 dai legumi. Dal che segue che:
-con una dieta vegetariana potrebbe abbondantemente e definitivamente essere risolto il cosiddetto problema della fame nel mondo, che è in realtà un problema di squilibrio carnivoro: c’è chi mangia troppa carne e si pappa gran parte delle risorse;
-ragioni etiche: i viventi sono esseri senzienti, gli animali hanno diritti in quanto tali, come le piante, i boschi, i fiumi, il pianeta nella sua interezza. Nutrirci di vegetali ci è necessario per vivere, nutrirci di animali no. Oltretutto senza mangiare animali (come già detto sopra) si sacrificherebbero meno vegetali. La catena alimentare è solo in parte una fatale necessità. Noi umani abbiamo gli strumenti per governarla;
-ragioni sociopolitiche: i sociologi e gli antropologi si occupano da tempo del rapporto che ci sarebbe tra il consumo di carne, la guerra e la violenza. Ora, è difficile in questo campo costruire teorie rigorose o sparare verità matematiche (del tipo: se mangi x etti di carne al giorno produci y gradi di aggressività), eppure… Ricordarsi sempre che fu Caino ad uccidere Abele!
Ma c’è al fondo di questi che ho elencato (e forse si potrebbe continuare) un motivo “filosofico” che li sostiene tutti: noi umani abbiamo avuto in dono e in sorte la ragione, possiamo e anzi dobbiamo prendere decisioni razionalmente ponderate. Alimentarci è un fenomeno naturale, con forti basi biologiche, ma non è un destino. Le abitudini, le fedi, le credenze, i comportamenti indotti devono sempre essere controllati, verificati ed eventualmente corretti: ciò che ci fa umani è proprio l’esercizio della ragione che è contemporaneamente esercizio della libertà di autodeterminarci.
Nel vegetarianesimo è implicita la crescita di questa coscienza, perché le sue ragioni muovono dalla seguente premessa: tutto ciò di cui mi nutro ha conseguenze su di me e sul mondo che mi circonda, non posso non prenderne atto e comportarmi di conseguenza. Oltretutto, noi superalimentati d’occidente siamo pure nella condizione ideale per poter operare questa scelta: non c’è sostanza, alimento, vitamina, proteina, sale minerale che non si trovi ovunque in mille forme e in mille salse sugli scintillanti scaffali dei nostri supermercati, botteghe e mercati.
Per concludere due postille, la prima dolorosa e personale.
Da bambino mi sono trovato a commettere un delitto orribile. Ho torturato e ucciso con le mie mani un gatto che avevo trovato. E’ una cosa che, quando mi viene in mente, non mi dà pace. So che i bambini possono essere crudeli, e che mi ha fatto agire un qualche maledetto impulso irrazionale infantile, di cui ci sarà senz’altro una qualche dannata spiegazione psicologica. Ma non riesco lo stesso a giustificarlo. Ho “peccato”, e senza alcuna possibilità di remissione. Tutto quello che ho poi potuto fare per scontare la mia colpa è di avere sempre un micio per casa.
Sei mesi fa ho deciso di adottare una dieta vegetariana. Forse inconsciamente – oltre a tutte le ragioni elencate sopra – c’entra ancora quel terribile gesto.
La seconda postilla. A proposito dei partiti vegetariani, non c’è dubbio che la perfezione è rappresentata dalla dieta “vegana”, quella che lascia stare una volta per tutte gli animali. Le sofferenze loro inflitte per produrre uova e latte sono inenarrabili e talvolta peggiori di quelle dei macelli. Noi siamo esseri imperfetti, ma anche perfettibili. Si può provare a transitare, magari un passo alla volta, verso la perfezione.
(p.s. Dedico questo post a Lorenzo, che mi ha spronato al momento giusto e nel modo giusto).
http://www.ourdailybread.at/jart/projects/utb/website.jart?rel=en&content-id=1130864824947
HEGELASTRI, ovvero della filosofia per pochi, per tutti e per nessuno
Sto rileggendo la Fenomenologia dello spirito di Hegel. Chi conosce questo filosofo potrebbe dirmi “ma chi te lo fa fare?” – in effetti quando la lessi per la prima volta esattamente vent’anni fa, poco dopo averla terminata venne terminato anche un cospicuo numero di neuroni e di sinapsi del mio cervello: seguirono mesi di malessere e confusione in testa. Dopo esami clinici di ogni genere, il neurologo che alla fine consultai, che doveva essere un positivista di ferro, diagnosticò: depressione monopolare, “in soldoni il suo cervello si è un po’ scaricato e, come una pila, ora va ricaricato”. “In che modo?” chiesi io ingenuamente: ma è ovvio, con gli psicofarmaci! Tavor e Anafrenil per sei mesi. Naturalmente non fu colpa di Hegel né della Fenomenologia, per lo meno non solo (anche se mi sono attardato fino alle 2-3 di notte per mesi sulla vecchia edizione della Nuova Italia, sottolineata quasi in ogni riga con frecce simboli e marcature varie, con accanto Genesi e struttura della Fenomenologia di Jean Hyppolite, altro mattone di quasi mille pagine). Ma non era di questo che volevo parlare.
Io sono un po’ fissato con gli anniversari. Non è solo una questione esteriore o formale. Il ricorrere delle date mi dà ogni volta l’occasione di tornare alla “cosa stessa” (come spesso dice Hegel), di approfondire, concentrarmi fino all’esaustione, fissare l’essenziale nella memoria, e poi magari dimenticarlo. A volte di scoprire per la prima volta. L’occasione nel caso di Hegel era proprio ghiotta, non potevo lasciarmela scappare: 20 anni dopo (motivo soggettivo, oltre che casuale citazione letteraria), 200 anni dopo (motivo oggettivo: l’opera venne infatti pubblicata a Jena nella primavera del 1807).
Ma torniamo al motivo originario, alla “cosa stessa”. Un grande commentatore di Hegel, Theodor Haering, scrive che “è un segreto di pulcinella che nessun interprete di Hegel sia in grado di spiegare, parola per parola, una sola pagina dei suoi scritti”. Propongo perciò un esperimento a quelli che non hanno mai letto una riga del filosofo tedesco: provate a leggere una frase come questa, contenuta nella celebre Vorrede, la Prefazione alla Fenomenologia, e ditemi l’effetto che fa:
“In quanto soggetto, la sostanza è la negatività pura e semplice, e proprio per questo è lo sdoppiamento del semplice, è la duplicazione opponente che a sua volta costituisce la negazione di questa diversità indifferente e della sua opposizione: solo questa uguaglianza restaurantesi, solo questa riflessione entro se stesso nell’essere altro – non un’unità originaria in quanto tale, né immediata in quanto tale – è il vero. Il vero è il divenire di se stesso, è il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine, e che è reale solo mediante l’attuazione e la propria fine“.
Ora, questo è uno dei passi più celebri (e tra l’altro meno oscuri) della Fenomenologia. Personalmente ogni volta che mi capita di rileggerlo è come ascoltare musica sinfonica al più alto livello espressivo. Poche pagine prima il musicista-Hegel aveva però sentenziato: “La forma intelligibile della scienza è aperta a tutti, e per tutti identica è la via che vi conduce”. In questo apparente paradosso sta uno dei segreti del modo hegeliano di intendere l’approccio alla filosofia: affermazione perentoria della sua assoluta democraticità (Hegel polemizza spesso con i filosofi elitari o misticheggianti, quelli del sapere come “illuminazione” o come “colpo di pistola”), e d’altra parte grave difficoltà di lettura – che nel suo caso rasenta l’incomprensibilità – per chi si avvicina per la prima volta ai testi filosofici. Da una parte si sostiene che “la verità è suscettibile di essere posseduta da ogni ragione autocosciente”, dall’altra si tratta di “prendere su di sé la fatica del concetto” e di affrontare gli spinosissimi cardi della metafisica. Proprio perché la filosofia è cosa serissima – per Hegel essa è indubitabilmente il vertice spirituale, il compito più alto che l’essere umano si sia dato per autoconoscersi – non può permettersi di essere “edificante” o “rassicurante”, una sorta di facile terapia dell’anima, come le “filosofie da cucina” (l’espressione è sua) ai suoi tempi (ed anche oggi) tanto alla moda.
Del resto imparare a vivere è straordinariamente complicato – cosa che non impedisce a nessuno di farlo con grande spontaneità, anche se non sempre con altrettanta grazia. E si può vivere benone anche senza aver letto Die Phanemenologie des Geistes. Certo, anche senza la Nona di Beethoven o la Primavera di Botticelli o la Recherche di Proust…
LA MORTE RACCONTATA AI BAMBINI
Wolf Erlbruch, uno dei più grandi illustratori europei, dopo il capolavoro La grande domanda, torna a sorprenderci con un libro per bambini (ma i confini sono piuttosto labili) sul tema della morte, dal titolo enigmatico e per questo ancor più intrigante: L’anatra, la morte e il tulipano. Ho affrontato questo tema più volte negli incontri di “filosofia con i bambini”, per loro sollecitazione, ed è davvero una fortuna che su un argomento così difficile da affrontare (per tutti, non solo per i bambini) sia stato pubblicato, in mezzo a tanto grigiore, un tale gioiello.
L’albo è sobrio, così come le illustrazioni, pulite ed essenziali, ma i significati che riesce ad esprimere sono di altissimo livello concettuale.Queste le impressioni che ne ho ricavato ad una prima lettura:
a) alla domanda sul perché si deve morire, l’unica risposta logica possibile è legata alla dinamica stessa della vita: “All’incidente ci pensa la vita, come anche al raffreddore, e a tutte le altre cose che possono capitare a voi anatre”, risponde la morte alle perplessità dell’anatra. Siccome si vive si muore, la morte è parte stessa della vita. Di una inaudita semplicità, e proprio per questo inaccettabile per gli umani;
b) vivere con il costante pensiero della morte. La morte qui rappresentata all’inizio terrorizza l’anatra, ma poi questa, dopo averne scoperto alcuni suoi lati dolci e gentili, decide di passarci del tempo, di dormire addirittura con lei. Un grande esercizio filosofico è quello di pensare ogni giorno alla morte, di con-vivere paradossalmente con il suo pensiero;
c) si passa quindi alle domande su cosa succede dopo la morte: che cosa succede a chi muore e al mondo? “La verita è che non lo sa nessuno” – risponde una morte molto prudente di fronte alle ipotesi dell’anatra sull’al di là. Altra considerazione di grande livello filosofico: “Ecco come sarà quando morirò. Lo stagno: tutto solo. Senza di me”. E la morte – da fine idealista qual è – commenta che sì, dopo la morte il mondo si dissolve, quel mondo che è la mia rappresentazione, come sostenevano il vescovo Berkeley e Schopenhauer, se ne va con me;
d) ma non è ancora finita. Ad un certo punto qualcosa accade. Arriva la neve. L’anatra non respira più e giace immobile. Si compie l’ultimo straordinario capitolo del ragionamento di Erlbruch: interviene la pietas, e ad essere pietosa è proprio la morte che prende tra le braccia l’animale e lo adagia nel grande fiume, con un tulipano sul petto.
Di fronte a quest’ultima scena è impossibile trattenere la commozione. E un libro che suscita tali sentimenti in sole trenta pagine, anche a prescindere dalle argomentazioni filosofiche che ho citato, è inequivocabilmente un grande libro.
L’ORIGINE DELLA FAMIGLIA
Siccome sono masochista, ho voluto leggere il documento intitolato Più famiglia: ciò che è bene per la famiglia è bene per il Paese, con cui il mondo cattolico ha lanciato l’iniziativa del “family day”. Alcune delle espressioni utilizzate – come ad esempio “ordinata generazione naturale”, “declino demografico dell’Occidente”, “diversi e inaccettabili modelli di famiglia” (alternativi al matrimonio tradizionale) – mi lasciano a dir poco perplesso. Ma è su “premesse antropologiche” che ho fatto il classico salto sulla sedia. Ed essendo abituato a farmi domande (più che/prima di darmi risposte) chiedo a questi signori: cosa intendete per famiglia? o per natura? per legge naturale? e per basi antropologiche?
Partiamo dal concetto di famiglia e dalla sua struttura antropologica. Innanzitutto non ho capito perché ne parlano al singolare: forse che di modelli familiari non ne esistono una miriade e che la famiglia non è relativa, come ogni cosa umana, allo spazio e al tempo? I cattolici tentano di sacralizzare la famiglia naturale, ma nel far questo prendono surrettiziamente uno dei tanti modelli storici esistiti (la famiglia monogamica eteropatriarcale occidentale) e la eternizzano, elevandola a norma assoluta. Anche solo a guardare la storia europea io vedo svariati tipi di famiglia, di cui la monogamica è solo l’ultima (peraltro, se dio vuole, in abbondante sfacelo). Se poi lo sguardo s’allarga alla storia della specie c’è da sbizzarrirsi: matriarcato, patriarcato, famiglia allargata, comunanza delle donne, matrimonio tra donne, poliandria, poligamia, società matri o patrilineari, poligamia e poliandria incrociate, comunanza dei figli, ecc. ecc. Le cosiddette “premesse antropologiche” sono dunque quanto di più relativistico, con buona pace di Ratzinger, possa essere esibito. Resta un fatto: la famiglia in tutte le culture e società, gira e rigira svolge sempre un compito strutturale socioeconomico: essa è “una unità economica di produzione e consumo, luogo privilegiato dell’esercizio della sessualità tra partner autorizzati, luogo della riproduzione biologica, dell’allevamento e della socializzazione dei figli” (vedi la voce Famiglia dell’Enciclopedia Einaudi). Punto. Dopo di che gli umani si sono sbizzarriti – e lo faranno ancora a lungo senza bisogno del permesso dei preti – a trovare le forme più strane (magari obbrobriose) al fine di soddisfare quell’esigenza strutturale. La famiglia che tanto piace ai cattolici ad esempio – quella monogamica tradizionale, con un ritocco fintamente paritario negli ultimi tempi – è storicamente frutto della logica patriarcale e prevede funzionalmente l’adulterio e la prostituzione – oltre allo stupro – come valvole di sfogo (si vedano le ancor valide analisi di Engels nell’Origine della famiglia).
Ora io, naturalmente, provengo da una di queste classiche famiglie monogamiche tardoindustriali fatta di papà-mamma-figli (due) e non mi sogno minimamente di sputarci sopra. Anzi, annovero quelli familiari tra i legami affettivi e psicologici più forti che ho. Ciò non toglie che nella considerazione dell’istituto familiare gli affetti finiscono per c’entrare poco: hanno ragione Marx ed Engels quando sottolineano come la famiglia sia storicamente determinata e che si danno tanti modelli di famiglia quanti modelli produttivi. D’altra parte non è un caso che si parli di “riproduzione” e la famiglia è proprio la macchina per riprodurre i legami sociali. Nulla di sacro o di naturale o di misterioso. Se si cambia sistema di produrre si cambia sistema familiare. Magari si abolisce del tutto (il che non vuol dire che i figli non vengano educati da nessuno e che tutto vada allo sfascio: la soluzione comunitaria che suggeriva Platone, lasciando perdere gli aspetti totalizzanti e militaristici, mi sembra sempre molto interessante – visti poi gli attuali disastri dell’educazione familiare, per non parlare poi di quella sessuale, grazie anche a duemila anni di innaturalissimo proibizionismo cattolico…).
Quanto poi alla facenda della “naturalità”, dell’ordine naturale, della legge naturale e via biologizzando e animalizzando, torno a ripetere (e lo farò fino alla nausea) come non c’è concetto più artificiale di quello di “natura”, costruito e non dato dalla a alla zeta. Non a caso, infatti, la maggior parte dei teologi cattolici usa “natura” solo quando gli fa comodo, in modo ambiguo e ideologico, perché altrimenti sarebbero costretti ad ammettere anche l’assoluta naturalezza dell’omosessualità (almeno risolverebbero uno dei problemi interni alla casta sacerdotale). Certo che siamo anche degli “animali” (mangiamo, caghiamo e ci riproduciamo). Ma nulla di tutto ciò (già nel mondo animale) è dato una volta per tutte. Tutte le nostre pulsioni biologiche ed anche quelle antropologiche di lunga durata (qualcuno le ha definite “invariante biologico”) ,vengono inesorabilmente “culturalizzate”, “spiritualizzate” e per ciò stesso rese disponibili alla critica razionale, alla modifica e alla trasformazione. E siccome la “natura” mi ha fatto dono anche della “ragione”, a meno di non voler limitare lo sguardo al mio ombelico e alla mia pancia, mi guardo attorno e decido che cosa tenere e che cosa cambiare. E, del tutto liberamente, chi amare, eventualmente sposare per un po’, con chi (sempre eventualmente) riprodurmi e con chi tirar su i figli – e tutte queste possono essere n persone diverse di n sessi diversi. La natura umana diviene, è libera e perfettibile; la chiesa cattolica – ha ragione il comico populista del 1° maggio – evidentemente no.
ALATE TESTE D’ANGELO
“C’era freddo, lì da dove veniva l’Angelo. Le lacrime gelavano invece di scorrere, il
sudore si raddensava nei pori; così l’Angelo non sudava e non piangeva. Scrutava invece tutto quel che c’era intorno con il suo sguardo limpido e chiaro; coglieva con un’occhiata la struttura nascosta di ogni filo d’erba, di ogni formica, di ogni lucertola. E rimaneva solo, perché tanta chiarezza metteva in fuga tutte le viltà, sgomentava tutte le menzogne. Quelle menzogne e quelle viltà che sono il pane quotidiano di chiunque avrebbe potuto liberarlo dalla sua solitudine.
Un giorno l’angelo chiuse gli occhi davanti a un’eclisse, girò la testa quando apparve sul suo cammino un ittiosauro, non degnò d’attenzione le tempeste perfette che si addensavano all’orizzonte. Guardò invece dentro di sé e ci vide un gran vuoto. E pianse; e le lacrime ebbero un bel daffare per sbloccare i dotti induriti, ma infine ne vinsero le resistenze e gli scorsero a fiotti sulle gote. E ci fu tutt’a un tratto un gran caldo, frutto forse d’imbarazzo o di tensione; e l’Angelo si scoperse madido di sudore”.
(E. Bencivenga)
“Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo comunicare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!”.
(L. Wittgenstein)
“Abbi la bontà di riflettere su questo problema: cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male, e che aspetto avrebbe la terra, se ne sparissero le ombre? Sono gli oggetti e le persone che producono le ombre. Ecco l’ombra della mia spada. Ma ci sono anche ombre di alberi e di esseri viventi. Non vorrai per caso scorticare tutto il globo terrestre, estirpandone tutti gli alberi e tutto ciò che è vivo, per la tua fantasia di godere la luce nuda? Sei stupido.”
(M. Bulgakov)
“Purtroppo prima di morire, nessuno può capire che, come nel mondo dei morti un’anima senza corpo è motivo di vera felicità, tra i vivi la più grande felicità è un corpo senz’anima”.
(O. Pamuk)
CHE NE E’ DI MARX? – parte prima
Finalmente un bel libro “propedeutico” su Marx. Si sentiva proprio il bisogno di questa antologia pubblicata da Feltrinelli e curata da Enrico Donaggio e Peter Kammerer. Sia per coloro che nulla sanno di uno dei più importanti pensatori occidentali (il più determinante per oltre un secolo della nostra storia); sia per coloro che vogliono fermarsi a riflettere chiedendosi, appunto, “che ne è di Marx?”; sia anche per gli anticomunisti, ché qualche lettura delle fonti dei loro incubi non gli farebbe male.
E’ impossibile parlare di Marx come si parla di qualsiasi altro filosofo (ammesso poi che Marx sia riducibile, appunto, nei suoi termini filosofici): l’XI Tesi su Feuerbach – “I filosofi hanno soltanto interpretato il mondo in modi diversi; quel che conta è cambiarlo” – rende ardua qualsiasi operazione riduzionistica, moderatrice, o se si vuole imbalsamatrice. I curatori, infatti, partono proprio dalla questione cruciale del comunismo come “promessa non mantenuta”: parlare di Marx significa sempre parlare della nostra condizione presente e della sua (eventuale) trasformabilità, della sua analisi rigorosa (scientifica) e della “residua capacità di immaginarla diversa e migliore”. “Una scienza delle cose feroce nella sua lucidità e una fondata speranza di emancipazione sociale: questi gli elementi inseparabili di quell’amalgama spurio che è l’opera di Marx”. Teoria e prassi! Realtà e utopia! Essere e dover essere! Presente e futuro! Il culo di pietra della necessità e l’ansia illimitata di libertà!
Questa antologia è un ottimo viatico a Marx, proprio perché non imbalsama, non accademizza, non si parla addosso: la scelta dei testi e il modo di presentarli è vivace, intrigante, ben congegnato. Sei capitoli, ripartiti non in modo disciplinare o cronologico, ma per filoni tematici, ben introdotti e commentati: la figura di Marx; l’analisi sociale e ideale; la merce, il denaro, il capitale; il lavoro, lo sfruttamento, la produzione; la storia dei rapporti sociali; l’alternativa comunista. Ogni capitolo è introdotto da una breve descrizione sintetica e da una bibliografia minima; ogni brano, a sua volta, è preceduto da poche righe di commento, lasciando poi al lettore la libertà di muoversi nel testo, senza l’appesantimento e la barbosità delle note (tranne per l’essenziale).
P.S. Proprio il 5 maggio di 189 anni fa (tre anni prima che l’imperatore in esilio che aveva tradito un’altra grande promessa spirasse nella sua isola), Karl Marx nasceva a Treviri, in Germania.
P.P.S. Enrico Donaggio, uno dei curatori dell’antologia, era un mio compagno di studi all’università. Già all’epoca era una bella testa, e infatti oggi insegna Filosofia della storia all’Università di Torino e, grazieaddio, fa cose meritorie come questa…
TRACCE
La sostanza, naturalmente, sta nella funzione primaria – anche se residuale – di questi luoghi: essi, per decenni, sono stati frequentati da centinaia, migliaia di lavoratori che hanno prodotto, faticato, sputato sangue – a volte sono morti o si sono visti divorare dalle macchine parti dei loro corpi; esseri umani che hanno alienato la loro forza vitale al servizio di altri esseri umani, i quali a loro volta hanno visto crescere conti in banca e volume di affari; operai talvolta zitti e proni, talatra incazzati neri e pronti alla lotta più estrema. Sembra di sentire ancora le voci, la fatica, il sudore che gronda; il ronzio o l’ululato delle macchine; le meschinità dei capetti o dei crumiri; l’entrata in fabbrica o l’uscita (come in Welcome to the machine dei Pink Floyd), il fischio della sirena; si possono immaginare piccoli e grandi drammi, sogni e sacrifici, speranze spesso deluse – ma soprattutto fatica fatica fatica – forza lavoro tramutata in merci e plus-valore. La classe operaia e il sol dell’avvenire! Le lotte! I diritti! La salute in fabbrica! L’eterna battaglia per la diminuzione delle ore di lavoro, l’aumento dei salari, la difesa del potere di acquisto, i sindacati, i consigli di fabbrica, gli scioperi, le occupazioni, le sconfitte, poi i padroni che cambiano, che si volatilizzano, le spa, le società e i capitali stranieri, stato e paraculi, la proprietà anonima e in dissolvenza, capitani d’industria senza rotta e senza navi – downsizing, downsizing! – dismissioni, cassa integrazione, mobilità, delocalizzazione, chiusura. Fine della storia. Un’epopea finita quasi sempre male. Come se difendere un lavoro alienato e di merda fosse una battaglia progressista – ma diritti e dignità del lavoro lo sono sempre, sempre! Residui, margini: ci sarebbe da scrivere un voluminoso trattato storico-filosofico solo su questi due termini…
Poi ci sono le tracce secondarie. Quando l’eco di quelle voci, suoni e rumori non si è ancora spenta, e anzi sembra sempre in procinto di spezzare quel silenzio innaturale – ecco, altri visitatori fanno la loro comparsa: umani alla disperata ricerca di refrigerio oppiaceo; altri con pelli di colori diversi in cerca di un rifugio per la notte; o altri più cuccioli che lasciano tracce sui muri; o altri ancora che riempiono i capannoni di suoni assordanti fino al soffitto e vi si immergono come dentro una tempesta energetica; passaggi casuali, alla spicciolata, anonimi, invisibili, che non vorrebbero lasciarne, di tracce; e infine quelli che semplicemente vengono ad osservare, repertare, testimoniare, analizzare e catalogare tutte queste tracce. Tutti alla ricerca di qualcosa. Della soddisfazione di un bisogno o di un desiderio – primario o secondario, materiale o spirituale, poco importa.
Gli umani sono animali simbolici: lasciano tracce ed enigmi per quelli che verranno dopo, affinché questi, a loro volta, ne lascino altre ai successori. In una teoria di significati da decifrare. Forse questa è l’unica nostra missione su questa zolla che abbiamo chiamano pianeta, terra per di più. E quando ci estingueremo – perché è ovvio che succederà, checché ne dicano preti, pope e mullah – non avremo nessuna certezza che dopo di noi altri esseri dotati di intelligenza verranno ad annusare le nostre tracce e che, soprattutto, saranno in grado di capirci qualcosa. Quello che accadrà sarà che la polvere del tempo si stenderà su tutte le cose, i vegetali torneranno a coprire tutto, i deserti avanzeranno o le acque si alzeranno, la terra smotterà e gli abissi divoreranno quel poco che sarà rimasto – e così le tracce si estingueranno via via come i loro vanitosi autori. “Noi non ci saremo”, come a suo tempo cantavano Guccini e i Nomadi. E tutto quell’intrico di segni e simboli, tracce materiali e spirituali, tutto quanto verrà inghiottito dal nulla. Come se mai fosse esistito.
“Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel mondo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna: parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso.”
(G.Leopardi, Cantico del gallo silvestre)
La foto è di ro_buk
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cfr. set “Abbandonati”