EVERYMAN – Note sulla morte

Mi tocca tornare sul tema della morte. Me ne dà lo spunto l’ultimo romanzo di Philip Roth, intitolato Everyman.
In verità da tempo ritengo che sia buona abitudine pensare ogni giorno alla “morte”, meditare sulla nostra mortalità e fragilità, sul fatto inequivocabile che pur sentendoci una sorta di semidèi più o meno ben piazzati su piedistalli di diverse fogge e lunghezze, siamo destinati prima o poi a caderne rovinosamente. Ma già qui sta la prima contraddizione, il primo paradosso: è veramente pensabile la morte? D’altra parte, per contrasto, mi verrebbe subito da dire: non è forse solo pensabile? E poi di quale morte stiamo parlando: la mia (futura) morte o la morte in generale? La morte come rappresentazione, anticipazione, o l’esperienza che se ne fa quotidianamente? La morte come vittoria della specie sull’individuo o l’odore della morte che si respira negli ospedali, nelle camere mortuarie, nei cimiteri?
Sul terreno della morte si scontrano proprio queste due modalità: l’idea di morte, la sua astrattezza (qualcosa che riguarda i viventi in generale, gli altri, everyman appunto), e, dall’altra parte, la percezione della mia morte (già dire propria o di se stessi sarebbe troppo astratto). Ma quest’ultima, se vista meglio, ci appare logicamente (ma non psicologicamente) impossibile, se è vero che, come sosteneva Epicuro nella sua celebre Lettera sulla felicità, avere paura della morte è del tutto insensato: quando io esisto lei non c’è, quando lei arriva io già non esisto più. Come due entità che si sfiorano senza mai toccarsi. Dunque sul piano sensibile ci sarebbe una vera e propria impercettibilità della morte: non ci può essere esperienza di essa, dato il suo coincidere con la cessazione di ogni sensibilità.
E pur tuttavia il pensiero, l’idea, la paura della morte ci affliggono. Paura della propria morte (mediata dalla paura molto più palpabile della malattia, della decadenza, del dolore), paura della morte dei propri cari, paura della morte in generale – lungo un vettore che va come sempre dal centro alla periferia, dalla pregnanza del mio personale sentire all’astrattezza concettuale.

Roth affronta tale groviglio di contraddizioni che avvolge il tema della morte con grande coerenza e lucidità. Vale in questo caso la tesi che un romanzo riesce a volte ad essere più filosofico, profondo ed essenziale, a centrare il bersaglio, più e meglio di molti trattati e saggi su un certo argomento.
Ma vediamone gli elementi più interessanti. Ovviamente la prima cosa che colpisce è il titolo: quell’every dà subito la misura, che dovrebbe essere scontata ma che non sempre lo è, che la morte è la condizione fondamentale che tutti indistintamente ci lega. Si è umani, dunque si è mortali. Logico, tutti lo sanno, non c’è nemmeno bisogno di dirlo. Ma se veramente tutti ne fossero coscienti, lo sapessero cioè fin dentro il midollo delle loro ossa, ne dovrebbero derivare alcune drastiche conseguenze sul modo di intendere la vita, sul vivere e sul con-vivere, specialmente quindi nella relazione con gli altri viventi, umani e non umani.
Altra cosa di cui quasi non ci si accorge leggendolo è che quell’every indicato dal titolo viene mantenuto sempre lungo tutto il romanzo: noi non sapremo mai il nome del protagonista, che del resto è morto fin dall’inizio, dato che la vicenda comincia proprio con il suo funerale.
C’è poi un’immagine che mi ha particolarmente colpito. La storia di quest’uomo qualsiasi è la storia della sua inesorabile decadenza fisica – intervento dopo intervento, bypass dopo bypass, con tutto il contorno di stent, chirurgia cardiovascolare, cliniche, esami e quant’altro (molte di queste faccende mi sono note per esperienza diretta, visto che mio padre ha una storia medica molto simile, così come quella di molti altri anziani delle nostre opulente società che, grazieaddio, ha raggiunto indici di speranza di vita notevoli, senonché: “a questo punto le loro biografie personali erano diventate identiche alle loro cartelle cliniche”).
L’immagine cui alludevo, e che contrasta radicalmente con questo lento decadere ospedalizzato, è quella del protagonista che nuota nella baia. La potente vitalità che si sprigiona da gesti come questi, fino a sentire i propri organi guizzare, i muscoli, i tendini, le ossa, le giunture, un corpo che si espande libero nel cosmo, che vibra e fluisce nel mezzo dei flutti, il cuore e i polmoni che pompano sangue e ossigeno come perfette macchine idrauliche (ma potrebbe essere la corsa su un prato o in un bosco, il salto da un albero, l’arrampicarsi su una roccia, ecc.), ebbene il contrasto tra momenti come questi e quell’inesorabile decadere punge nelle nostre anime come uno stiletto arroventato.
Ma è fin dentro quelle vette vitali, quegli scoppi di vita gioiosa, di irrefrenabile voglia di vivere che il pensiero di lei si annida: “Attraversavano a nuoto una baia fino a una catena di dune dove potevano sdraiarsi senza essere visti da nessuno e scopare in pieno sole…”, eppure “la profusione di stelle gli diceva senza ambiguità che era destinato a morire”.
Torna il nodo cruciale: la morte è un concetto, un’idea, un’astrazione – riguarda tutti, la specie, e dunque in quanto tale è allontanabile, riguarda sempre un altro; ma la morte è anche e sempre la mia stessa morte, la mia condizione di finitezza, fragilità, la condizione e il confine della mia esistenza e da questo punto di vista nulla mi è più vicino.
Tutta la vita di ogni essere umano si riduce infine a questo, al “corrosivo sconforto di un uomo che una volta era al centro delle cose e adesso era al centro del nulla. Era ormai lui stesso il nulla, nient’altro che uno zero immobile in rabbiosa attesa della grazia di uno sradicamento definitivo e assoluto”.
Si può sempre pensare che la “vitalità di quel ragazzo dal corpo liscio come un piccolo siluro che un tempo, arrivato a cento metri dalla costa nell’oceano tempestoso, si lasciava portare a riva dai cavalloni dell’Atlantico” sia l’immagine stessa della vita che sempre ci accompagna. Ma la nuda verità è un’altra.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

12 pensieri riguardo “EVERYMAN – Note sulla morte”

  1. Ti tocca? Ohohoo!!! – eh sì, è vero, ti è capitato di passar nei pressi e portarla qualche volta alla ribalta negli ultimi mesi e giorni – la morte, si capisce – e naturalmente nel leggere il tuo post non trovo nulla da obiettare – e perché mai? e per quale motivo? – che se fossi così brava mi sarebbe piaciuto averlo scritto io.
    Ma non so come e perché, negli ultimi tempi c’è un genietto impertinente che mi stuzzica a ribaltar le cose; è così infatti che è successo, che a furia di rigirarmi tra le sue frasi senza saper cos’altro scegliere tra questo e quello, all’improvviso il mio occhio si è soffermato sull’ultima di sette parole – “Ma la nuda verità è un’altra.” – per chiedermi, e chiederti o chiederci al fine, ed osservare che, qualora esistesse davvero una ‘nuda verità’, potremmo allora anche ipotizzare una verità in frac o in cappotto o in tanga, o in maschera da pulcinella o d’arlecchino; ma anche, e perché no, una nuda verità in bicicletta; o una verità che salta alla corda, o che vi cammina sopra in equilibrio come su un filo teso; o che mangia un budino o la pastasciutta… e chi più ne ha più ne metta.
    Ci vuoi/volete provare ad allungar la lista? suvvia, avanti, non temete: non c’è nulla da perdere, ma solo da sorridere o da riderci sopra – se volete.
    Se invece vogliamo piangerle addosso… bé, anche questa è una possibilità come un’altra. Ognuno scelga, o venga scelto, da ciò che più gli aggrada o conviene o diverte, piace, vuole, crede.
    Epperò, insomma, la verità nuda e cruda, siete proprio sicuri che è quella la verità che volete vedere? e – beninteso me lo chiedo anch’io – siete sicuri di essere capaci di sopportarla e, se necessario, di spogliarla? E per che farne poi? per rivestirla ancora e di nuovo come si rivestono le bambole di pezza?
    E non sarà che questa nuda verità ci mostrerà poi il volto della Gorgone? Oppure che non la riconosceremo perché non è quella solita – abitudinaria, fiacca, rassicurante – che ci sta bene di vedere ogni giorno? E che nel caso non sia proprio sempre quella, non gli diremmo allora in faccia “No, non è vero, tu sei falsa!”?
    Forse ognuno di noi si affeziona alla propria verità con la quale ha confezionato in lungo tempo l’abito da indossare ogni giorno, senza contare quello della festa.
    Certo che anche l’abito migliore che a me calza a pennello, difficilmente andrà altrettanto a pennello a qualcun altro. Però, se volete, possiamo anche fare delle prove – provare a scambiarcelo?
    Intanto, e per ora, invece di confermare col solito modo di dire che “ogni giorno ha la sua pena”, posso osare con “ogni giorno ha la sua gaiezza”: infatti mi son già divertita – insaziabile gaudente che sono – e non mi serve molto, da umile abitante di questa gaia terra. E quando si sta bene, come non innamorarsi di un sasso o di una foglia? anche se nessuna foglia è uguale a un’altra e non tutti i sassi piacciono allo stesso modo?
    Almeno fintanto che la verità non assuma le sembianze della malattia, o della guerra, quella che dilania i corpi, o della crudeltà brutale e superflua che si impone a dispetto di ogni possibile felicità e bellezza…
    Milena.

  2. Meglio dei filosofi i poeti:

    Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
    questa morte che ci accompagna
    dal mattino alla sera, insonne,
    sorda, come un vecchio rimorso
    o un vizio assurdo. I tuoi occhi
    saranno una vana parola,
    un grido taciuto, un silenzio.
    Così li vedi ogni mattina
    quando su te sola ti pieghi
    nello specchio. O cara speranza,
    quel giorno sapremo anche noi
    che sei la vita e sei il nulla

    Per tutti la morte ha uno sguardo.
    Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
    Sarà come smettere un vizio,
    come vedere nello specchio
    riemergere un viso morto,
    come ascoltare un labbro chiuso.
    Scenderemo nel gorgo muti.

    E Giacomo:
    “All’apparir del vero
    tu, misera, cadesti: e con la mano
    la fredda morte ed una tomba ignuda
    mostravi di lontano”

  3. Ma Giacomo era anche il poeta della bellezza, della vita, della speranza, della giovinezza:

    Garzoncello scherzoso,
    cotesta età fiorita
    è come un giorno d’allegrezza pieno,
    giorno chiaro, sereno,
    che precorre alla festa di tua vita.
    Godi, fanciullo mio; stato soave,
    stagion lieta è cotesta.

  4. Corso di scrittura Feltrinelli – Gruppo A (13 giugno 2006 – Milena Rozzoni)

    Prova a immaginare che siano passati 20 anni e inizia a raccontare quello che pensi la tua vita sia diventata. Non come la sogni, ma come nel 2026, verosimilmente, potrà essere (il che non esclude la coincidenza con la vita che sogni).

    Verosimilmente nel 2O26 sarò morta. Il racconto potrebbe essere così concluso. Niente altro da aggiungere. La frase non è delle più felici perché, in realtà, non volevo dire affatto che “verosimilmente sarò morta”, ma che lo sarò “sicuramente”.
    Comincio ad esserlo già da un po’, non so quando è cominciato.
    Ho avuto subito questa netta sensazione appena ho cominciato ad immaginarmi fra vent’anni. E l’ho sentita come cosa certa e senza dubbio alcuno.
    Ero in piedi appoggiata al lavello e ho cominciato a battere il palmo della mano sulla maiolica liscia. E’ sempre andata così. Ogni volta che mi dicono che qualcuno che conosco deve morire, appena me lo dicono, me lo immagino e piango.
    E ogni volta chi mi è vicino mi guarda sbalordito. Non capisce perché lo faccio, perché piango. In fondo si sa, è solo una malattia mortale, la vita. Ma intanto che si è vivi non si è morti, e bisogna ridere. Ridere fino all’ultimo. E solo allora, quando tutto è concluso, al funerale, aprire i cancelli al pianto.
    Io, invece, piango appena so che qualcuno deve morire, quando è stato emesso su di lui il verdetto definitivo. Poi non piangerò più, nemmeno al suo funerale. Le mie lacrime sono già state versate, il commiato già avvenuto. A che scopo guardare ancora indietro?
    Così è successo anche questa mattina, quando è apparsa la mia stessa morte lì davanti al lavandino. Su quel lavandino dove ho fatto anche l’amore, per esempio. E le due cose si sono sovrapposte nello stesso spazio, fuori dal tempo. Ma questa volta è stata un po’ più dura del solito, c’erano due grosse mani che mi stringevano il collo e l’aria non riusciva più a passare. E anche adesso, a dire il vero, le cose non sono ritornate come prima.
    Sembra che la mia stessa morte mi faccia più impressione di quella degli altri. Forse sono a me stessa un po’ più che conosciuta, e dopo tutti questi anni ho cominciato ad affezionarmi. Ma lo so che dovrò lasciarmi andare. Bisogna che cominci ad impararlo. Per non farmi cogliere impreparata.
    Sì, lo ammetto, non me lo aspettavo. Ma se devo essere onesta fino in fondo, se proprio devo, devo anche ammettere che già lo sapevo. Come un telegramma di cui sai già il contenuto, senza averlo ancora letto. Lo tieni sul ripiano per qualche giorno, lo infili in un cassetto e lo dimentichi là per trent’anni. Successe, quando aspettavo la nascita del mio primo figlio. Come ora aspetto la mia morte.
    Ero solo una bambina allora, diciassette anni, e avevo sentito che insieme alla vita portavo nel mio ventre la reciproca sua morte. La vita non nasce sola, è sempre in buona compagnia. Poi cerca di non farsi vedere. Si nasconde dietro di te quando ti guardi allo specchio. Ti accarezza la nuca quando sei triste. Ti preme le falangi sulle reni. Schiaccia il pedale dell’acceleratore.
    E tu sempre a corrergli dietro forsennatamente. Corri e corri, per raggiungerla. E non si capisce come lei riesca a sfuggirti per così lungo tempo.
    Naturalmente non so come riuscirò ad afferrarla. Quando esattamente riuscirò ad abbracciarla.
    Un fatto molto curioso e che non so spiegarmi è che, benché io rispetto alla questione mi ritrovi nella più completa incertezza, qualcun altro invece è assolutamente sicuro di ogni cosa, senza la minima ombra di alcun dubbio.
    Mio padre, da autentico pater familias, già da alcuni anni ha prenotato i loculi che ospiteranno tutti i componenti della famiglia, da morti, in fila uno sull’altro, come in un condominio. Vicini, vicini. Tutto ciò è molto curioso, visto che non abbiamo vissuto gradevolmente assieme neppure da vivi.
    Chissà, forse mio padre spera che potremo farlo almeno da morti.
    Io gli ho proposto: Senti, risparmia la mia quota per il loculo. Oppure dammela ora, finché son viva. La userò per farmi un pied-à-terre, dove potrò incontrare quel bel ragazzo che ho conosciuto e che mi piace tanto, e farci l’amore. Per imparare a lasciarmi andare. Fare le prove, prima dell’interpretazione definitiva.
    Che poi, quando morirò non so neppure se mi andrà di avere un nome ancora, inciso su una pietra. A chi può interessare? Essere un pugno di ceneri o niente del tutto, che differenza fa?

    °°°°°°°°

    Mi era stato chiesto di immaginarmi fra venti anni, e il risultato è stato piuttosto funereo. Perciò chiedo uno sconto. Che ne dite di concedermi la prova a metà prezzo? Propongo di accorciare i tempi a dieci anni. Vi va bene? Io non ho scelta.
    (Flora)

  5. ERRATA CORRIGE: il presente annulla precedente (ho fatto un pasticcio!).
    Esattamente l’anno scorso, il 13 giugno 2006, mi era stato proposto di scrivere un breve racconto di fantasia su questo tema:
    “Prova a immaginare che siano passati 20 anni e inizia a raccontare quello che pensi la tua vita sia diventata. Non come la sogni, ma come nel 2026, verosimilmente, potrà essere (il che non esclude la coincidenza con la vita che sogni)”. E questo è ciò che allora avevo scritto:

    “Verosimilmente nel 2O26 sarò morta. Il racconto potrebbe essere così concluso. Niente altro da aggiungere. La frase non è delle più felici perché, in realtà, non volevo dire affatto che “verosimilmente sarò morta”, ma che lo sarò “sicuramente”.
    Comincio ad esserlo già da un po’- non so quando è cominciato – ma ne ho avuto subito la netta sensazione appena ho cominciato ad immaginarmi fra vent’anni. E l’ho sentita come cosa certa e senza alcun dubbio.
    Ero in piedi appoggiata al lavello e ho cominciato a battere il palmo della mano sulla maiolica liscia. E’ sempre andata così: ogni volta che mi dicono che qualcuno che conosco deve morire, appena me lo dicono, me lo immagino e piango. E ogni volta chi mi è vicino mi guarda sbalordito: non capisce perché lo faccio – perché piango? In fondo si sa, è solo una malattia mortale, la vita. Ma intanto che si è vivi, non si è morti, e bisogna ridere – ridere fino all’ultimo. E solo allora, quando tutto è concluso, al funerale, aprire le saracinesche al pianto. Così fanno tutti i veri risparmiatori: non sprecano anzitempo le loro quote, che siano danaro o lacrime o quant’altro.
    Io no: io piango appena so che qualcuno deve morire, quando è stato emesso su di lui il verdetto definitivo. Poi non piangerò più nemmeno al suo funerale. Le mie lacrime sono già state versate, il commiato già avvenuto. A che scopo guardare ancora indietro?
    Così è successo anche questa mattina, quando è apparsa la mia stessa morte lì davanti al lavandino. Su quel lavandino dove ho fatto anche l’amore – non molto spesso, ma qualche volta è successo. E le due cose si sono sovrapposte nello stesso spazio e come fuori dal tempo. Ma questa volta è stata un po’ più dura del solito, c’erano due grosse mani che mi stringevano il collo e l’aria non riusciva più a passare. E anche adesso, a dire il vero, le cose non sono ancora tornate come prima.
    Sembra che la mia stessa morte mi faccia più impressione di quella degli altri. Forse sono a me stessa un po’ più che conosciuta, e dopo tutti questi anni insieme ho cominciato ad affezionarmi. Ma lo so che dovrò lasciarmi andare: bisogna che cominci ad impararlo. Per non farmi cogliere impreparata.
    Sì, lo ammetto, non me l’aspettavo. Ma se devo essere onesta fino in fondo, se proprio devo, devo anche ammettere che già lo sapevo. Come un telegramma di cui sai già il contenuto senza averlo ancora letto. Lo tieni sul ripiano per qualche giorno, lo infili in un cassetto e lo dimentichi là per trent’anni. Era accaduto lo stesso quando aspettavo la nascita del mio primo figlio. Come ora aspetto la mia morte.
    Ero solo una bambina allora, diciassette anni, e avevo sentito che insieme alla vita portavo nel mio ventre la reciproca sua morte. La vita non nasce sola, è sempre in buona compagnia. Poi cerca di non farsi vedere. Si nasconde dietro di te quando ti guardi allo specchio. Ti accarezza la nuca quando sei triste. Ti preme le falangi sulle reni. Schiaccia il pedale dell’acceleratore. E tu sempre a corrergli dietro forsennatamente. Corri e corri per raggiungerla. E non si capisce come lei riesca a sfuggirti per così lungo tempo. E’ un mistero. Naturalmente non so come e quando riuscirò ad afferrarla, quando esattamente riuscirò ad abbracciarla…
    Un fatto molto curioso e che non so spiegarmi è che, benché io rispetto alla questione mi ritrovi nella più completa incertezza, qualcun altro invece è assolutamente sicuro di ogni cosa, senza la più piccola ombra di dubbio. Da autentico pater familias, mio padre, ad esempio, già da alcuni anni ha prenotato i loculi che ospiteranno tutti i componenti della nostra sacra famiglia, da morti, in fila uno sull’altro, come in un condominio – vicini, vicini.
    E tutto ciò è molto curioso, visto che non abbiamo vissuto gradevolmente assieme neppure da vivi. Chissà, forse mio padre spera che potremo farlo almeno da morti?
    Io gli ho proposto: Senti, risparmia la mia quota per il loculo. Oppure dammela ora, finché son viva. La userò per farmi un pied-à-terre, dove potrò incontrare quel bel ragazzo che ho conosciuto e che mi piace tanto, e farci l’amore. Per imparare a lasciarmi andare… fare le prove, insomma, prima dell’interpretazione definitiva.
    Che poi, quando morirò, non so neppure se mi andrà di avere ancora un nome, inciso su una pietra. E a chi può interessare? Essere un pugno di ceneri o niente del tutto, che differenza fa?

    Orbene: mi era stato chiesto di immaginarmi fra venti anni, e vedo che il risultato è stato piuttosto funereo. Perciò chiedo uno sconto: che ne dite di concedermi la prova a metà prezzo? Propongo di accorciare i tempi… a dieci anni. Vi va bene? Prendere o lasciare: io non ho scelta…”.

    Provate anche voi a fare questo esercizio, poi mi saprete dire.

  6. @ FLORA: caspiterina, Flora, che mi combini? ti mando i miei raccontini e tu li spiattelli in giro così, senza neanche chiedermelo! Volevi spacciarli per tuoi, immagino… sempre lì a rubarmi i compiti e a copiarmi fin dai banchi di scuola! Ma lo sai che il diavolo fa le pentole e si dimentica dei coperchi, o che la sua farina finisce in crusca, come si dice… E lo sai bene che non la puoi far franca, e che lo sappiamo tutti che non hai la stoffa, o che è un po’ scarsa. Vabbé, fra amiche ci si perdona… questo e altro. Però quando ti incontro almeno una tirata d’orecchie non te la toglie nessuno… o una lavata di capo: a te la scelta! Eh no…
    Milena.

  7. E va bene, Mile,… scusa… è stato un impulso irrefrenabile…
    … ma fra le due scelgo la lavata di capo:… poi però mi metti i bigodini?
    Flo.

  8. … e dopo aver compitato il mio bell’esercizio di scrittura barocca l’altro ieri, col quale ho volato qua e là senza dire molto – che la nuda verità ognuno la veste sempre – appoggio i piedi a terra e cerco di capire quello che sento e l’impatto che ha su di me il problema morte? No, non credo vi dirò proprio tutto quanto, non illudetevi, che certe faccende non si lasciano affererare in questo modo. Che ognuno, volendo, avrebbe da dire la sua sull’argomento.
    Un mio amico scrittore diceva che ciò che la gente cerca ‘anche’ nei libri, è di capire qualcosa sui due misteri fondamentali della vita: la morte, appunto, e l’amore – o desiderio, che dir si voglia -: e che se la prima è certa, e magari ci sta già aspettando appena dietro l’angolo quando distratti giriamo la testa, il secondo non lo è altrettanto, e vaghiamo intorno per farlo star quieto, qualche volta soddisfandone capricci e bisogni, altre ignorandolo con falsa indifferenza, più o meno; e che entrambi gli estremi ci costringono a muoverci in fretta per acciuffare l’uno e schivare l’altra con affanno.
    E se per amore e morte si continuano a far prove e riprove per tutta la vita, solo per la morte esiste una soluzione ultimativa che conclude tutto quanto, anche l’amore: è lei a dire l’ultima parola – dopo essere andati a braccetto, o di pari passo, lui e lei, dando il ritmo, scandendo le ore, il tempo della vita.
    Ma com’è che facciamo esperienza della morte quando siamo ancora praticamente vivi? credo che succeda quando trapassiamo da uno stato, da un modo di essere all’altro; quando crescendo ci spogliamo di vecchi abiti, ne indossiamo di nuovi e ricominciamo daccapo; quando perdiamo la vecchia pelle a brandelli e rimaniamo più nudi e spogli di prima; che crescere e invecchiare significa anche perdere ogni giorno qualcosa, abbandonare dietro di sé illusioni, vane credenze, ogni sorta di artifici, inganni, chimere, per viaggiare più leggeri. Quando va bene e non si perde anche la salute… che qualche volta basta un raffreddore per stravolgere il mondo, anche quando si è giovani.
    Ma io credo, e lo spero anche possibile, che anche il tempo, diciamo ‘maturo’ e più oltre, abbia una sua bellezza, diversa dalla bellezza dell’età fiorita, non per questo meno chiara e serena. Assomiglia forse a una limpida giornata d’inverno, sguardo lontano fin sulle alpi, teneri azzurri, grigi e rosa, aria fredda e pulita.
    Non esistono solo la primavera e l’estate – ah, l’estate col suo torrido incessante brulicare -: ci sono gli autunni molli di colori in festa, ricchi di frutti maturi, allegramente godono della stagione piena che sta per finire, si avviano verso il riposo e la meditazione.
    Ogni stagione ha la sua bellezza. Quale limite c’impone di fissarci su una forma predefinita che poteva essere perfetta nel passato, così come nel presente è fuori luogo? La nostra vita scorre trasmutando, dice il poeta… e non sarebbe male imparare a trasmutare dolcemente, senza resistere al cambiamento.
    Ma anche ciò che comunemente chiamiamo amore ha più a vedere con la perdita che con il guadagno, o il godimento; che il piacere forse non è che un corollario o un’esca, che ci attrae per indurci a partire; e che per decidersi a partire bisogna accettare il fatto di poter morire e perdere tutto – oppure si rimane sulla soglia, ai margini a guardare, e non si muove un passo.
    E i poeti non dicono, infatti, ‘abbandonarsi fra le sue braccia’? che si tratti delle braccia della morte, così come in quelle dell’amato/a? E di quante piccole morti facciamo esperienza in vita? E abbandonarsi alla vita, non significa forse non resisterle?
    Anche quando resistiamo al dolore, infatti, esso ci fa sentire più profondamente i suoi morsi: mentre il non resistergli, il lasciarlo essere, scorrere, andare… lo addolcisce, gli fa mollare la presa.
    Ma per non resistere al dolore, bisogna abbandonare piano piano anche se stessi, il luogo dove impera la volontà testarda e capricciosa che desidera ogni cosa a tutti i costi e a modo suo.
    E chi si crederà mai d’essere questa illusoria volontà che dura solo una stagione, un soffio, un battito d’ali? quando già vediamo che sta perdendo le piume?
    Sciocchina che non è altro, maschera dell’apparenza, mi fa perfino tenerezza… ma lasciamo pure che sia, anche lei, finché dura. Non vorremo davvero mortificarla o assassinarla prima del tempo…!
    Mi.

  9. C’è in questi vostri post,pur bellissimi,la mancanza di una cosa che a me pare sostanziale. La Speranza. Nei vari tentativi di spiegare la vita e la morte con ragionamenti assai fini e profondi non ho visto la Speranza. L’amore,il cielo,i fiori,l’oceano e quant’altro di bellissimo avete espresso è come un cantico che cade nel nulla,compreso il dolore. Vero è che con le conoscenze che andiamo a scoprire la nostra vita ci pare troppo corta e al di la del fatto pur contestabile del dolore che ci affligge questa realtà che viviamo su questo sasso lanciato nell’universo con destinazione ignota,potrebbe essere così come da voi espresso
    un vero paradiso. La Speranza Io penso che se tutto questo che vivo,che voi vivete andasse perso con la morte sarebbe una cosa terribile,non senzaltro
    meritevole di essere vissuto. Meglio sarebbe non avere mai fatto questa esperienza. Io penso che viceversa noi siamo un continuo divenire un continuo apprendere sotto diverse spoglie,in diversissime situazioni. La morte non è altro che un passaggio,una porta su nuovi orizzonti.
    La “cazzata” terrificante(passatemi il termine) è nel modo in cui ce l’hanno
    proposta,anno dopo anno,generazione dopo generazione,con il terrore dei demoni che ci aspettano,e quantaltro di orrifico ci si poteva proporre.
    Dato che però abbiamo imparato il motivo di una presentazione così negativa
    dobbiamo educarci al suo divenire come ad un passaggio,di la non c’è il nulla,
    non c’è un mangiacristiani,c’è un nuovo orizzonte e a me piace pensare che sia bello,fantasticamente bello. La Speranza,ultimo dono del vaso di Pandora,e,
    i demoni non lo sanno ma quell’uccellino sarà la loro rovina.

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