ESTI’ GAR EINAI (ovvero della crepa nell’essere di Parmenide)

L’ontologia è quella “parte della metafisica che studia l’essere come nozione universale”. Il termine è stato costruito nel XVII secolo da un certo Clauberg, a partire dal greco òntos, genitivo di on = “l’essere”. Ma la “scienza” o il “discorso sull’essere”, sorge molto prima, e con potenza inaudita, evocata dai versi del poema di Parmenide, filosofo greco (della Magna Grecia) vissuto nel V secolo a.C.
Non è qui nemmeno il caso di soffermarsi sulla storia della questione parmenidea (dal parricidio di Platone al pensiero di Emanuele Severino). Quello su cui vorrei riflettere è da una parte la forza dell’argomentazione di Parmenide, dall’altra il problema del cominciamento di un discorso filosofico fondato che quella pone in campo (e non risolve).
Parmenide prospetta due strade: quella della verità – “l’immobile cuore della verità perfettamente rotonda” – e quella della doxa, delle “opinioni dei mortali” (non diversamente farà Platone).

“Occorre dire e pensare che l’essere è;
esiste infatti l’essere;
ma il nulla non esiste”.

Questa è la verità dal cuore non tremante, salda, irremovibile, inconcussa, come è saldo, irremovibile, inconcusso l’essere, “immobile nei limiti di immense catene”. Esso è ingenerato, eterno, interminato – col che vengono negati in quanto verità (non in quanto apparenze) il movimento, il divenire, la molteplicità. L’essere è. Nient’altro si può dire o aggiungere o sottrarre nel campo della verità necessaria. Tutto quello che è fuori dal suo cerchio è apparenza, illusione, errore.

Non argomento oltre, e mi limito a rinviare al poema di Parmenide, che oltre ad essere di facile lettura è di una bellezza straordinaria.
C’è però in quel testo un’espressione che mi ha sempre incuriosito ed anzi direi affascinato: il gar (infatti, cioè) interposto tra l’estì e l’einai: “Estì gar einai, Esiste infatti l’essere“. Perché non limitarsi a dire “Esiste l’essere”? Oppure “L’essere è”, o “Tutto quello che esiste è l’essere”? Naturalmente la vera ragione sarà quella della forma linguistica, delle modalità grammaticali di struttura; in questo caso si tratta sicuramente di un rinforzativo (io non sono un grecista, e quindi mi limito a fare supposizioni). Eppure a me piace pensare che il “gar” inserito lì sia un’inserzione del “dunque” del ragionamento (del pensiero, dell’Io detto in maniera moderna e anacronistica) entro la tetragona necessità dell’essere. E’ come se dietro quel “gar” ci fosse un lungo pregresso ragionamento, l’intromissione appunto del soggetto pensante. Io, dopotutto, affermo che questa è l’unica verità possibile, che l’essere è (lasciamo perdere per ora l’altro lato, forse persino più importante, del non essere che non è).
La questione che sorge, dunque, è la seguente: mentre l’identità di essere e pensiero per i filosofi greci (e soprattutto per Parmenide) è pacifica (“E’ infatti la stessa cosa pensare ed essere” dice Parmenide), diventa invece un problema per l’epoca moderna, e dunque per noi (occidentali, moderni o post-moderni che siamo). Cartesio lo fissa in una maniera altrettanto potente e inequivocabile: Cogito ergo sum – esplicitando l’intenzione inconscia ed inespressa contenuta in quel gar: dunque, non posso far altro che affermare che, poiché penso allora, in quanto penso, sono, so di esistere. Il “sapere” viene qui prima dell'”essere” stesso.
In sostanza si pongono ora, insieme, due nodi strettamente correlati che minano il territorio ontologico: il problema del “cominciamento” e quello del fondamento logico e razionale di tutto l’edificio. Parmenide affermava: “Indifferente è per me da quale parte incomincio; infatti ritornerò lì di nuovo”. Per Cartesio questo diventa impossibile. Nell’essere (e nella sua presunta identità col pensiero) si è aperta una crepa, una fenditura (destinata un giorno a divenire una voragine), da cui scaturisce la problematizzazione radicale della questione ontologica: non è l’ente (l’on, l’essere, il qualcosa che è) a fondare, bensì è il cogito, l’io penso, a diventare l’atto fondativo dell’essere.
Il punto di vista ontologico può sempre controobiettare: sì, ma il cogito è, esiste – primariamente, dunque, è essere. Non può insomma darsi qualcosa che pensa se prima non affermiamo il suo essere, appunto, “qualcosa”, la sua esistenza. C’è qualcosa, e questo qualcosa è essere pensante.
Ma il cogito risponde a questa obiezione a sua volta, dicendo che il “qualcosa” che lui stesso è non può nemmeno essere nominato (nonché “esistere”) senza la sua mediazione, il suo cogitare: prima ancora che qualcosa “sia” deve poter essere nominato e pensato. Cioè – e questo sarà il punto di vista estremo di alcuni filosofi come il vescovo Berkeley o Arthur Schopenhauer – il mondo è la “mia” rappresentazione o “esse est percipi“, l’essere, cioè, è il suo stesso essere percepito, e sarebbe vuoto di contenuto e privo di verità senza questa mediazione del soggetto. Insomma, replica il cogito, nulla esisterebbe se qualcuno prima non lo pensasse, nominasse, evocasse.
Ecco quindi, specie in epoca moderna, l’inserzione del tempo umano fin dentro il cuore del fondamento, dell’ontologia, di ciò che è immutabile e non può non esserlo. Non “l’essere è”, ma “affermo, dico, penso che l’essere è”, questo l’inizio di ogni possibile discorso o ragionamento filosofico sensato. Ogni sistema ontologico ha dunque bisogno di essere fondato (non può più cominciare immediatamente, con un’affermazione perentoria come quella di Parmenide), e – secondo questa prospettiva – può trovare il proprio fondamento solo nel cogito, dunque – mi verrebbe da dire – sulla capocchia di uno spillo, se è vero che la nostra inserzione temporale nell’essere (la “crepa” che noi vi abbiamo aperto), ha un inizio e una fine – lo spazio della specie (o di una parte della specie, l’Occidente, che però ha esportato le sue categorie storico-temporali ormai su tutto il pianeta), una storia che è destinata a “passare” o a “oltrepassare”, e che dunque non può che fondare qualcosa di transeunte. L’essere trova così il suo fondamento nel tempo, in un’entità soggettiva e fluttuante.

Per concludere (provvisoriamente) posso solo dire che a mio avviso nessuna delle due soluzioni al problema del fondamento (o del cominciamento) risulta soddisfacente: l’essere non può autofondarsi perché occorre che ci sia un ragionamento (e dunque un cogito) che lo fondi; ma nemmeno il cogito (che è per definizione finito, se non altro perché altrimenti non avrebbe più motivo di cogitare e di cercare alcun fondamento) è in grado di sostenere o di fondare alcunché se non contraddicendosi di continuo – un finito non può fondare un assoluto, il tempo non può fondare l’eternità.
Bisogna forse uscire dall’aut-aut della solita vecchia alternativa tra “realismo” (o come lo si voglia chiamare) e “idealismo” o “nominalismo” (o come si preferisce). Che è poi il disco rotto della giustapposizione soggetto/oggetto, io/non-io, ecc. L’unica soluzione che vedo possibile è nel concetto di “relazione” (che comunque non è un fondamento, e dunque non contiene alcun elemento necessitante, ma solo un inizio provvisorio – un’ipotesi, secondo l’accezione greca originaria di hypòthesis, cioè base, premessa, disegno, idea fondamentale, pre-testo): l’essere e il pensiero, il qualcosa che è e il cogito si presuppongono a vicenda e sono in costante relazione, in stretta connessione, pur non riducendosi mai l’uno all’altro. Io penso un essere che è il mio stesso pensare; e l’essere è l’essere che fonda il mio pensarlo – in una sorta di coimplicazione originaria. Il tutto diventa quindi il movimento di questa relazione – se si vuole, il suo errare, che però ha un inizio e una fine: i limiti storico-temporali della specie, prima dei quali e oltre i quali non c’è né essere né pensiero, né luce né tenebre, ma solo una confusa inconcepibile nebulosa. Una nebulosa che per quanto possa “essere qualcosa” non è pensabile, nominabile, concepibile né prima né dopo il tempo della specie. Si può sempre pensare che l’essere (l’eterno, l’assoluto, la verità, ciò che non può essere revocato in dubbio) sia la sintesi di questa nebulosa e del tempo che vorrebbe negarla – ma daccapo il concetto di sintesi è, appunto, un concetto, un cogitato che necessita preliminarmente di un cogito che lo pensi.
Con questo non voglio dire che la nostra finitezza non lascia o non debba lasciare spazio a concetti come “eternità” o “infinito” – dato che il limite e il tempo sembrano costitutivamente fatti per essere varcati e oltrepassati. Ma allora, forse, più che il territorio dell’ontologia, vanno esplorati quelli dell’arte, dell’immaginazione o della fede.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

105 pensieri riguardo “ESTI’ GAR EINAI (ovvero della crepa nell’essere di Parmenide)”

  1. “Estì gar einai”…
    Perché non limitarsi a dire “Esiste l’essere”? Oppure “L’essere è”, o “Tutto quello che esiste è l’essere”? ….

    … probabilmente per evitare una tautologia e per affermare che da qui si deve partire (gar): che l’essere si mostra, viene alla luce per offrirsi come FONDAMENTO del Logos che, dunque (gar), può pensarlo … visto che il nulla può essere solo evocato (“mi chiamo Nessuno” recitò Ulisse) ma non divenire oggetto reale del pensiero …

    L’unica soluzione che vedo possibile è nel concetto di “relazione” (che comunque non è un fondamento, e dunque non contiene alcun elemento necessitante, ma solo un inizio provvisorio …

    … si può ipotizzare che ogni essente, ogni ente di natura (e non solo) sia il frutto di una relazione e che, quindi, la RELAZIONE sia il fondamento necessario dell’essere ovvero il cominciamento non contradditorio del pensiero filosofico… esempio: La sinapsi che, nel cervello, consente la comunicazione tra le cellule del tessuto nervoso ( i neuroni ) e, quindi, rende possibile partorire il logos …

  2. Ciao, è la prima volta che scrivo, penso di essere più piccolo di tuti voi, ho 17 anni, ma amo la filosofia…Parmenide a parer mio ha dato vita ad una filosofia fondamentale per lo sviluppo poi di quella socratica ma sopratttto platonica. Spero di imparare qualcosa da te e già mi affascina questa teoria equilibrata e dunque non estremista della relazione. Complimenti per il blog e a presto

  3. Grazie Valerio, benvenuto!
    A occhio e croce direi proprio di sì, penso tu sia il più “piccolo” di tutti noi… ed è sintomatico che tu ponga l’avversativa tra i 17 anni e l’amore per la filosofia. E se quel “ma” è vero (di questi tempi forse si, ma le cose cambiano), allora è vero anche che non sei “piccolo” ma “grande”.
    A presto!

  4. Ares ^__^

    C’e Valerio che attende di abbeverarsi..

    .. siete diventati improvvisamente timidi?…. dai forza, cosi’ viene anche a lui un po’ di malditesta nel leggervi ^__\

  5. E’ solo un’ipotesi … tutto è Relazione … ogni ente compare come con-seguenza di una relazione… la materia (dal latino mater) partorisce forme inter-connesse… in Leibniz, ognuna delle monadi attive e indivisibili che rispecchiano tutta la realtà sono, ciascuna a suo modo, in “armonioso concatenamento” … l’atomo sussiste ( e, quindi, ogni ente è) perchè i suoi elementi di base si relazionano strettamente … anche il nulla è in INTIMA relazione logica con l’essere … se così non fosse avremmo a che fare con l’indicibile … visto che il logos è solo un sistema ( ciò che è costituito da più elementi interdipendenti) di simboli governati da regole sintattiche …

  6. Ares ^__^

    Io non metterei la relazione al primo posto come se fosse la progenitrice dell’ente o essente o l’essenza dell’ente… comunque ci stiamo allontanando dalla domanda magica..

    L’essere e’ ?

  7. Ares ^.^

    o l’essere infatti e’ ?….. o l’essere di fatto e’…. e le teorie Henologiche… dove le mettiamo??

    .. la relazione e’ una caratteristica dell’essere o e’ la caratteristica dell’essere?

    … cosa non e’?..

  8. Ares ^__^

    poi : stiamo parlando dell’essere in termini assoluti e lo confiniamo in un iperuranio, incurruttibile perfetto ed eternometafisico o spirituale, o lo riteniamo corruttibile ed errante? e in relazione costante con gli oggetti(enti ?) terreni?.

    @Hermes non avevo letto :

    “l’atomo sussiste ( e, quindi, ogni ente è) perchè i suoi elementi di base si relazionano strettamente … anche il nulla è in INTIMA relazione logica [..]”

    ..non mi risulta che nell’atomo vi sia il nulla… il nulla, come lo chiami tu, ancora non lo conosciamo…. e’ energia?(l’energia e’?).. se il nulla fosse la relazione?… quel che tu chiami nulla non e’ nulla…e’ nulla perche’ non sappiamo definire cosa sia..

  9. La relazione, però, è la precondizione di ogni pensabilità di qualsivoglia oggetto di pensiero. Non è un fondamento assoluto, perché il pensiero non lo è.
    In verità sono più portato a pensare che a darsi originariamente è il molteplice (che possiamo chiamare anche in altro modo), e che però a noi piace pensare che ci sia un ente o un super-ente che tutto comprenda, una sintesi assoluta, una totalità. Se è “fuori” è inevitabilmente Dio; se è “dentro” ci si può sbizzarrire a chiamarla in molti modi: l’Essere (Parmenide), l’Uno (Plotino), la Sostanza (Spinoza). Già: la sostanza di Spinoza, è su questa che ora mi vorrei concentrare…

  10. Ares ^__^

    Se per arrivare alla Sostanza di Spinoza partissimo da Cartesio ?..

    ..per Cartesio le sostanze sono due: la res cogitans (pensiero) e la res extensa (la realtà).

  11. La relazione, però, è la precondizione di ogni pensabilità di qualsivoglia oggetto di pensiero …

    … io direi che la relazione potrebbe essere la pre-condizione di ogni POSSIBILITA’ … io escluderei ogni fondamento assoluto … originariamente, nella tradizione idealistica, esisteva solo il Logos (mente di Dio) … da cui derivava che il fondamento del pensiero era l’INCIPIT divino che lo pro-gettava tramite la materia/Mater …. il pensiero si dà a se stesso (autocoscienza) nel momento (metastorico) in cui la struttura del cervello “in fieri” raggiunge quella soglia (complessità) che consente la specifica funzionalità …

    In verità sono più portato a pensare che a darsi originariamente è il molteplice …

    … tante sono le teorie relative all’ORIGINE, tra cui quella sulla singolarità primigenia (cosmologia)….. problematizzando si potrebbe formulare la seguente domanda: per darsi l’OSSERVATO deve relazionarsi con un OSSERVATORE ? … in caso affermativo allora potremmo con-cludere che la Relazione è il fondamento del DARSI ORIGINARIO …

  12. Ares ^__^

    Ok.. allora passiamo ad Hobbes.. che sosteneva che la sostanza unica è la materia..

    ..anzi il ragazzo……Hobbes….. sostiene addirittura che: tutto è materia compreso lo stesso pensiero..

    ..infatti egli sostiene il concetto di “movimento”.. indentificandolo come la scintilla che attiva il pensiero:
    dal corpo quindi partono dei movimenti che vanno a colpire i nostri organi di senso che compressi reagiscono con un contromovimento che mette in azione l’immaginazione che crea immagini che si vanno a sovrapporre ai corpi da cui è venuto il moto iniziale.

    ..un po quello che ha sostenuto Hermes quando parlave dell’ipofisi e dei neuroni ; solo che Hermes parla di “relazione” .. Hobbes di “movimento”.

    ..poi Hobbes inizia una riflessione importante:
    ogni corpo è quindi coperto da un’immagine che non ci fa cogliere la vera realtà della cosa. Ma non basta: noi traduciamo ogni immagine in un nome, che è convenzionale ed arbitrario. Quindi dalla vera realtà della cosa in sé ci separano due schermi: quello dell’immagine e quello del nome.

  13. Ares ^__^

    Se vogliamo subito passare a Spinoza:

    .. la sostanza per Spinoza e’ la sostanza dalla quale derivano tutte le cose secondo “un ordine necessario”, e quindi se si vuole capire l’inizio di tutto, non lo possiamo capire da un punto di vista individuale, soggettivo, empirico.
    Se noi stiamo alla base di quella piramide che è l’universo non potremo mai capire cos’è il vertice.
    L’uomo pero’ ha lo strumento della ragione per capire ma questo è un strumento di mediazione, cioè la ragione funziona per passaggi successivi.
    Se noi usassimo la ragione per arrivare a quella cima della piramide che si perde all’infinito, dovendo attenerci a un gradino dopo l’altro, non arriveremmo mai alla meta poiché, la sostanza , è infinita…

    Allo Spinoza che ti pensa?… a una scorciatoia:
    se la ragione è insufficiente però l’uomo ha un altro strumento che gli consente di cogliere la conoscenza in modo immediato, di arrivare con un balzo alla cima della piramide. Questo strumento è l’ intuizione.
    Con questa possiamo arrivare al culmine del processo conoscitivo, possiamo arrivare alla sostanza. Saltare con un balzo intuitivo tutti i gradini della piramide e arrivare in cima.

    L’intuizione pero’ ha la necessità, per funzionare a dovere, di liberarsi di tutti i vincoli e retaggi del pensiero o dell’intelletto:

    .. dobbiamo liberarci di tutto ciò che conosciamo attraverso i sensi;

    ..poi togliere dall’intelletto tutto ciò che conosciamo casualmente o empiricamente;

    ..occorre togliere di mezzo anche la conoscenza scientifica perché questa risale dagli effetti alle cause in modo che si possano cogliere i nessi causali tra le cose e la necessità che lega le cose tra loro..
    .. ma questo discorso scientifico non ci farà mai uscire dalla molteplicità ..

    ..mentre noi dobbiamo arrivare alla “sostanza”.. all’unicità.

  14. Avendo in attivo solo un anno e spiccioli di filosoia, posso fare riferimento ai filosofi che ho studiato…..Rispetto alla domanda :Nasce prima l’uovo o la gallina??? Farei riferimento alla teoria dell’atto e della potenza di Aristotele, l’atto precede sempre la potenza. Nn so…Ditemi voi

  15. @Ares @Hermes @Valerio
    Non so, volete aggiungere qualcos’altro come tema per la discussione?
    Possibilità, autocoscienza, dialettica dato/conosciuto, Hobbes e i concetti di materia e di movimento, la sostanza e l’intuizione intellettuale in Spinoza, atto e potenza…
    quanto tempo ci vogliamo dare? basterà un anno per esaurire gli argomenti?
    (anche se in effetti è da svariati secoli che se ne discute e non mi sembra che si sia esaurito alcunché, a meno che si voglia pensare come Carnap e soci che si tratta solo di favolette linguistiche…)

  16. Credo proprio chequesto sia il bello della Filosofia no??? Le soluzioni sono molteplici e tutte davvero interessanti, “basta” trovare quella che più si adatta a noi! Certo è che non si tratta di favolette linguistiche e ne tantomeno di una perdita di tempo…come dicono in molti al giorno d’oggi

  17. Assolutamente sì, Valerio!
    Ho sempre pensato che parlare di “astruserie” metafisiche, di ontologia e simili non solo non sia una perdita di tempo, ma sia l’atto umano più “concreto” che si possa fare. A seconda di come si concepisce l’essere (a seconda dell’ontologia che sostiene una determinata cultura o epoca) si determina la propria esistenza (e viceversa?). Su questo Emanuele Severino ha pienamente ragione.

  18. … a meno che si voglia pensare come Carnap e soci che si tratta solo di favolette linguistiche…

    … direi che basta rimanere con i piedi per terra e procedere passo, passo …

    … ovviamente non è possibile filtrare ogni argomento attraverso il pensiero di tutti i filosofi circolati od in circolazione … sarebbe meglio non aggiungere ma togliere carne dal fuoco e circoscrivere il discutibile …
    … avevo iniziato con l’ipotesi che la RELAZIONE pre-cedesse il darsi dell’essere … e, quindi, che ne fosse il suo fondamento … proporrei di cercare esempi in tal senso … originariamente l’occhio di ogni ipotetico osservatore era assente (teoria cosmologica)… esisteva solo il buio abissale, poi venne la luce che creò le condizioni ottimali per la comparsa dell’organo deputato all’osservazione … a quel punto l’essere di ogni ente divenne percepibile perchè l’occhio entrò in relazione con l’ente .. qualcuno sostiene che gli enti fisici esistono indipendentemente dal fatto che possono essere osservati … a voi ora la palla …

  19. @Hermes: sugli enti fisici posso anche non avere dubbi che esistano indipendentemente dai sensi che li percepiscono o dalle menti che li ordinano in concetti – la faccenda, però, si complica quando cerchiamo spiegazioni meta-fisiche: che tipo di percezione/concezione ho di concetti quali “tutto”, “essere”, “eterno”, “uno” o del principio di non contraddizione o di quello di ragion sufficiente…
    ci sono due spiegazioni possibili (giusto per estremizzare):
    -o il finito non riesce a contenersi e travalica se stesso e, nel farlo, si impiglia in un “mare di stoltezze” – segna Kant
    -oppure esiste una ragione interna all’essere che, guarda caso, si incarna ad un certo punto in un ente qualsiasi che, però, è in grado di pensare se stesso e anche l’altro da sé, e di cercare, tanto che c’è, una possibile sintesi dei due lati – segna Hegel
    -tertium datur?

  20. Ares ^__^

    Non volevo mettere troppa carne al fuoco… volevo solo ripriporre il “già detto”.

    Sennnò, come diceva il mio professore di Fisica, rischiamo di riscoprire l’acqua calda..

    .. ufff.. sono l’incompreso di questo blog.. ^__\ sigh!..

  21. Ares ^__^

    Hermes… non si puo’ arrivare subito alla relazione… uffff.. dai per scontato che qui siamo tutti filosofi specialistici(un filosofo puo’ essere specialistico ?.. boh ormai l’ho detta).

    Io partirei dal suggerimento di md:

    “[..] che tipo di percezione/concezione ho di concetti quali “tutto”, “essere”, “eterno”, “uno” o del principio di non contraddizione o di quello di ragion sufficiente…

    Ci sono due spiegazioni possibili (giusto per estremizzare):

    -o il finito non riesce a contenersi e travalica se stesso e, nel farlo, si impiglia in un “mare di stoltezze” – segna Kant

    -oppure esiste una ragione interna all’essere che, guarda caso, si incarna ad un certo punto in un ente qualsiasi che, però, è in grado di pensare se stesso e anche l’altro da sé, e di cercare, tanto che c’è, una possibile sintesi dei due lati – segna Hegel

    -tertium datur? “

  22. Ares ^_^

    .. ma quando avessimo anche individuato la sostanza, anche intuitivamente, che ce ne facciamo?; .. una volta capito chi siamo, cosa siamo, dove stiamo andando.. se stiamo andando..che ce ne facciamo?.. cosa ci manca, cosa vogliamo, perche’ ricerchiamo?.. non ci piacciamo?.. tutto qui?

  23. sì credo sia così

    “oppure esiste una ragione interna all’essere che, guarda caso, si incarna ad un certo punto in un ente qualsiasi che, però, è in grado di pensare se stesso e anche l’altro da sé, e di cercare, tanto che c’è, una possibile sintesi dei due lati – segna Hegel”

    le possibili relazioni tra la prati sono infinite e esitino solo quelle che per motivi contingenti (selezione naturale adattabilità capacità riproduttiva) hanno avuto la meglio, ovvero sono divenute reali. le altre sono nel campione dei possibili ma non si sono realizzate. Sono comunque pensabili, come le mosse di una ipotetica partita scacchi che ha avuto un inizio e un reale sviluppo diverso.

  24. Ares hai ragione (non fare la finta vittima!) … la “scimmia nuda”(autore: Morris Desmond), stupita ed, al contempo, atterrita per la devastante precarietà della sua esistenza ha sempre cercato di dare un “senso” al mondo e quindi si è inventata la filosofia e con la filosofis si è messa a grattare il fondo del barile alla ricerca di un rimedio per il suo stato d’angoscia (Heidegger, Severino, Galimberti, ecc.)…

    … così è nato l’ASSOLUTO e l’Idea dello Spirito che plasma il mondo e fa la Storia … (Hegel)
    …. il delirio di onnipotenza, malattia infantile dell’uomo, conseguenza della sua reazione al Nulla incombente, ha spinto la mente a pensare Dio e Dio, riconoscente, ha certificato (tramite la bibbia) di aver fatto lui (omuncolo) a sua immagine e somiglianza ….
    … peccato solo che, per quanto da tutti invocato, Dio, padre amorevole, si nasconda sempre (fisicamente) alla vista dei suoi figli … il suo silenzio, tra l’altro, fu assordante durante le due ultime guerre mondiali …. una pacchia per il cattolicissimo imperatore Cecco Beppe e poi per l’imbianchino A. Hitler !!!…
    …. dunque non ci resterebbe che il finito, il contingente, il percepito che ci segnala flebilmente le relazioni strutturali che intercorrono tra tutte le cose …

    -tertium datur?

    … per la fisica contemporanea il “senso” è riconducibile all’ENERGIA che anima (verbo animare) l’Universo e che si incarna in masse, forme determinate inorganiche ed organiche (il molteplice) …
    … l’energia, dunque, sarebbe il fondamento dell’essere degli enti ….

    e la mente (delirante) ? il logos/pensiero ? l’ipotesi più probabile è che sia solo un inconveniente, una risulta dei processi evolutivi spontanei …
    e il bene e il giusto ? come assoluto è praticamente indefinibile, certamente ha molto a che fare con l’Utile (relativo) …
    … a voi la palla … credo però che nessuno potrà segnare … la rete è solo un miraggio … e poi dov’è il portiere ? ha un permesso a tempo indeterminato ?

  25. Ares ^__^

    E se fossimo dei pidocchi ?..

    ..io da piccolino pensavo che fossimo una specie di esseri assimilabili ai pidocchi, questa riflessione e’ scattata a 5 anni, quando nella mia classe si sono diffusi i pidocchi da un bambino all’altro.

    Io ogni tanto mi grattavo la testa, ma non vivevo quella senzazione come un fastidio, forse perch’e li avevo apena presi, dopo solo un mese di scuola: e’ stat mia madre ad accorgersene e ha riferito il fatto all’insegnante.. che ha proceduto all’esame di tutta la classe. Ne eravamo pieni, alcuni piu’ di altri.

    Mia madre continuava a lavarmi con sciampi specifici e con l’aceto, ma questi pidocchi non sparivano del tutto, perche’ due fratellini miei compagni di classe, non erano sottoposti allo stesso trattamento dai loro genitori e ogni volta l’epidemia si diffondeva nuovamente nella classe.

    Sono giunto a una conclusione illuminante, forse non siamo ancora stati scoperti, o forse l’essere su cui ci troviamo, non puo’ permettersi di comprarsi lo sciampo.. ^__^

  26. Ares per quanto matto possa essere il yuo intervento è davvero spettacolare!!!! UN genio!!!! Mi piace un sacco questa tua teoria dei pidocchi…ragazzi da voi sto imparando molto

  27. Ares ^__^

    ahahahahhahah.. grazie Valerio..ma era un pensiero di un infante.

    .. ragazzi vi prego dite qualcosa di inteligente.. altrimenti Valerio..comincia a prendere riferimenti sbagliati.. ^__^

  28. … Valerio proponi tu un tema …. altrimenti Ares si monta la testa (piena di pidocchi) … prendi spunto dalle cose che stai affrontando a scuola in questi giorni …

  29. Ares ^__^

    Hermes.. i temi si possono proporre solo “Nell’altra stanza” qui bisogna essere attinenti al post … non fare l’indisciplinato!

  30. … qui bisogna essere attinenti al post …
    … infatti nel post è scritto: L’ontologia è quella “parte della metafisica che studia l’essere come nozione universale” e, quindi …

    l’essere di ogni ente
    o tema della mente (rima baciata)

    … la Gelmini (Mariastella Gelmini (Leno, 1° luglio 1973 segno del Cancro (nostalgie per il passato) è una politica italiana, ministro dell’Istruzione) ha proposto il 5 in condotta per gl’indisciplinati … mi viene il sospetto che sia stato tu a suggerirle la riforma …

    … Valerio proponi un tema nell’altra stanza altrimenti veniamo bocciati …

  31. Mi dispiace ma per Parmenide il divenire e la molteplicità non esistono nel modo più assoluto : sono il nulla stesso. Per questo è errato dire “col che vengono negati in quanto verità (non in quanto apparenze) il movimento, il divenire, la molteplicità”. Se infatti ciò fosse vero, ne verrebbe che “è vero” che il divenire e la molteplicità esistono in quanto apparenze.
    Parmenide, una volta per tutte, dice che solo l’essere è, e che l’illusione (il nulla stesso) non è. Il divenire, egli dice, è illusione, ossia è nulla.

  32. In realtà, Profeta, il testo di Parmenide è molto più complesso di quanto non sembri a prima vista e, soprattutto, abbiamo pochi elementi per identificare con precisione categorie che per noi hanno 2500 anni di storia e di stratificazioni concettuali: di certo concetti quali “movimento”, “apparenza”, “illusione” non significano per noi quel che significavano per i filosofi greci (e anzi per la lingua e l’anima greca) dell’epoca. Si tratta di un mondo “altro” che può solo essere letto, interpretato e tradotto: “in sé” non è detto che sia “per noi”.

  33. Beh, vedi, il punto è che dire che esiste qualcosa come “testo di Parmenide” è già un’interpretazione. Allora, SE esiste “il testo di Parmenide”, è inevitabile (cioè non è un’interpretazione) dire che esso dice x piuttosto che y.
    Mi spiego meglio. Non è che puoi dire, ad esempio, che la filosofia occidentale afferma l’eternità di ogni cosa. Perché non puoi? perché, se così fosse, sarebbe pur sempre all’interno della presupposizione che esista quella cosa non-eterna che è il linguaggio che si afferma l’eternità di ogni cosa, il che è contraddittorio. Quindi nemmeno io stesso, che adesso dico che tutte le cose sono eterne, posso uscire con ciò dalla contraddizione.
    Non si esce dalla contraddizione, perché sarebbe uscire dalla stessa verità. Allora quando il sottoscritto afferma che l’essere è uno ed eterno, si contraddice solo nel senso che crede di affermare (l’affermare è l’apparire) qualcosa.

  34. secondo me non c’è né crepa né problema ontologico in Parmenide; esso nasce dopo. Quel gar lo intendo come la relazione perfetta tra l’essere e l’unica sua possibile definizione (laddove tutte le altre sono necessariamente errate, non essenti, doxa):è.
    L’unica cosa che posso dire dell’essere è che è. Siamo in un momento aureo in cui il pensiero è alimentato da un gigantesco potere intuitivo, attraverso cui si vede come da uno spiraglio la perfezione assoluta; una religione razionale se mi si passa la definizione. Quel gar è un rafforzativo, come un simbolo matematico di una evidente certezza razionale(dettata anche dall’unità di visione pensiero e parola che caraterizzava in qualche modo l’epoca e che neutralizzava il problema gnoseologico); è l’individuazione di una direzione speculativa che si eleva dai luoghi comuni, dalle osservazioni superficiali, utile alla scienza. E’ un presupposto di meditazione religiosa e mistica.

  35. Del commento di Emiliano mi colpisce la considerazione che il pensiero parmenideo da un lato è “utile alla scienza”, dall’altro “è un presupposto di meditazione religiosa e mistica”.
    In effetti, l’alètheia di Parmenide, diventata epistème in Platone, detta il paradigma del sapere scientifico contrapposto alla doxa: una conoscenza immutabile ed eterna, che proprio nel suo permanere sempre identica a se stessa si distingue dalla sempre mobile opinione (quando comunemente si dice che “la matematica non è un opinione”).
    Però l’eternità e l’immutabilità, accanto all’unità – altro attributo dell’essere eleatico – sono anche le caratteristiche fondamentali del Dio cristiano, il biblico “Io sono Colui che sono”, e poi il “summum ens” dei medioevali, l’essere perfettissimo a cui non può mancare l’attributo dell’esistenza.
    Ecco quindi un pensiero che indica la direzione alle due strade maestre della scienza e della religione con le loro verità indubitabili, per dimostrazione o per fede.
    Lasciando ai filosofi, come Socrate, la povera sorte di restare nel mezzo.

  36. Si certo, infatti Socrate, mosso da un forte e convinto anelito alla verità, si sporcava le mani nel tortuoso tragitto dialettico per andarla a scovare. Era convinto della sua esistenza tanto da essere disposto a compiere un vero e proprio travaglio dialogico pur di verderla venire alla luce; e così la verità scende tra gli uomini, si distribuisce in un possibile tessuto semantico. Forse perde un po’ di quell’intatto e impossibile bagliore ma diventa qualcosa di raggiungibile, patrimonio comune dell’umanità…L’oracolo da poesia diviene prosa, dialogo, però è sempre presente come specchio della verità. Uno specchio che forse si frantuma in più pezzi che si mettono in comunicazione con molte idee, sempre ricordando loro l’immutabile “che cosa è”.

  37. sì, la crepa non c’era “in sé”, ma c’è “per noi” e non può non esserci: si produce nel dire – l’essere è muto, e dire l’essere è farlo scendere tra i comuni mortali…

  38. Sì, la filosofia come “anelito alla verità”, non come suo possesso: quest’ultimo è appannaggio degli scienziati e dei sacerdoti.
    Loro “sanno”, il filosofo è tale perché riconosce di non sapere.
    E la “crepa” è la condizione dei comuni mortali, il “foro dell’essere” di Sartre, vuoto e mancanza di certezze, Eros che non è per niente un dio, ma, figlio di penìa, dorme all’addiaccio e vive di espedienti.

  39. La filosofia però è anche la capacità di agire all’ultimo istante un contropiede grandioso e la miseria si capovolge nel suo contrario; l’idea si accorge di essere mille volte più grande e potente della sua sospettosa modestia. Proprio in quell’errare sperduta scopre la sua infinita dimora. Saper ascoltare il “mutismo dell’essere” non è cosa da poco!

  40. Certo che la filosofia è ricca, ma ricca proprio del suo sapere di non sapere, della sua modestia se vuoi (sospettosa o meno), rispetto a quanti pretendono di sapere e invece non sanno un bel niente.
    Nell’Apologia, Socrate, di fronte al destino che lo aspetta (la condanna a morte), schernisce quelli che pretendono di sapere cosa sia la morte, che cosa ci sia dopo, e se ci sia un dopo.
    Rispetto a costoro il filosofo sta sempre un gradino più su.

  41. La superiorità della modestia non deve tuttavia portare lontano dalla responsabilità di un impegno conoscitivo. Il Socrate che tu ricordi è un empirista ( la morte e quello che dopo vi seguirà lo si vedrà solo al tempo giusto, quando vi si entrerà); poi c’è il razionalista, quello del “ti estì” il quale è pronto a fare il deserto di ogni certezza perchè in fondo è convinto che dietro le molteplici e superficiali conoscenze o meglio ignoranze vi sia il logos che non tradisce. Insomma io credo che tutta questa differenza tra presocratici e Socrate stesso non ci sia. Quest’ultimo vuole assistere attraverso ore e ore di analisi dialettiche al mostrarsi del bicchiere mezzo vuoto e lo fa perchè ha piena fiducia in quello mezzo pieno che così si delineerà ancora meglio. Ecco che i cespugli della doxa vengono potati per dare spazio alla verità. Verità nella quale si ha sempre avuto molta fiducia. Non c’è molta distanza tra Parmenide e Socrate. 

  42. Da un certo punto di vista è vero. La filosofia è una famiglia grande e accogliente (accoglie anche noi, figuriamoci), e tutti i filosofi sono parenti più o meno stretti. Così accogliente perché non ha Verità esclusive e indiscutibili da contrabbandare: qui di ogni cosa “est disputandum” (e senza “clessidra in mano”, dice Platone nel Teeteto).
    Come il paganesimo, che accoglieva tutti gli dei, diversi e alieni, nel suo pantheon ospitale, e a differenza dei monoteismi gelosi dei loro Libri e delle loro Verità rivelate (ma questo è un altro discorso).
    Ciò detto, la differenza tra Parmenide e Socrate sta proprio nel fatto che l'”è” parmenideo vuole esprimere l’unica Realtà-Verità, che quindi è maiuscola, mentre Socrate si accontenta della verità minuscola, una verità umana, che nasce dal consenso tra i dialoganti (l'”omologhìa”) e non costringe ad esso come invece fa la matematica, sul cui modello di conoscenza cogente tornerà poi Platone (non ha visto forse difendersi invano e poi morire l’amato maestro?).
    La verità socratica non “scende” dall’alto. Si costruisce, insieme, nel dialogo.
    Parmenide, invece, è l’espressione di un’età di “sapienti”, lo stesso termine “filosofia” non esisteva, e lui stesso probabilmente non l’avrebbe capito.

  43. Che la verità socratica non scenda dall’alto non è affatto vero, così come non è vero che scenda dall’alto la verità parmenidea.

    Socrate, infatti, quando dice “io so di non sapere” intende dire “l’autentica verità non è accessibile all’uomo”, cioè, appunto “scende dall’alto”. “Scende”, anche se non la si comprende fino in fondo.
    Parmenide, invece, afferma una verità che non può scendere dall’alto in quanto esclude che il “basso” esista – il “basso” essendo l’esperienza

  44. La verità non è questione di altitudine, permettetemi; io ribadisco una cosa: Socrate, e in questo mi sento vicino a Profeta, è guidato nel dialogo da una luce di verità, il logos; su questo punto mi piacerebbe sapere cosa pensate. Il logos non si manifesta da solo e, d’accordo,si va a scovare attraverso il dialogo; ma pur sempre è lì che attende, si fa per dire, nascosto nell’ombra, ma intatto e non corrotto. Insomma se la verità si costruisse e basta sarebbe partita persa in partenza, e la tensione inziale del dialogo si smorzerebbe. Ella è presente dietro alle parole, dentro alle parole, tra le parole; il dialogo facilita un loro più veritiero utilizzo.

  45. Per Profeta:
    Riguardo a Socrate. Ho l’impressione che proprio in quanto “inaccessibile”, come scrivi tu, la verità divina non possa scendere affatto, che non la si possa comprendere né “fino in fondo” né parzialmente (non sarebbe appunto inaccessibile), e che quindi non resti che una verità “terrena”.
    Quanto a Parmenide, nel poema è la dea stessa che gli indica le due vie, dell’alètheia e della doxa, che comunque “esiste” in contrapposizione alla prima, anche se come via dell’errore e dell’apparenza.

  46. X Andrea

    No, Andrea.

    Socrate dice di non conoscere la verità in quanto non la esperienza “concretamente” (“totalmente”).
    Parmenide considera “non essere” tutto ciò che non significa “essere” : l’opionione, l’illusione non è.

  47. Per Profeta:
    Ci ho pensato un po’ sopra, e sostanzialmente credo che su Parmenide tu abbia ragione: per lui il mondo della doxa, del divenire e della molteplicità, non esiste, non è reale. C’è poco da fare.
    Mentre su Socrate non riesco a ricordare passi dei dialoghi platonici in cui afferma di non conoscere la verità perchè non la esperisce “concretamente” (e proprio nel senso hegeliano che usi tu, il concreto come la totalità). Ricordo invece il passo dell’Apologia in cui Socrate rivendica solo la “sapienza umana”, contrapposta ad una “più che umana” che in quanto tale è appunto inaccessibile, a lui come a chiunque altro: “non per altro motivo io mi sono procacciato questo nome se non per una certa mia sapienza. E qual è questa sapienza? Quella che io direi sapienza umana. Realmente, di questa, può darsi che io sia sapiente. Quei tali invece di cui parlavo or ora, o saranno sapienti di una sapienza più che umana, o io non so che cosa dire: certo la sapienza di costoro io non la conosco” (Apologia, 20 d-e). Dove la presunta sapienza “più che umana”, se rivendicata da uomini, non è altro che cialtroneria. Questo dice Socrate. Se hai presente altri passi in cui Socrate si riferisce al “concreto” hegeliano, ti prego di segnalarmeli. Come per Parmenide, sono pronto a ricredermi.

  48. X Andrea

    Vedi, Socrate, quando parla del “concetto” si riferisce a qualcosa di diverso dall’esperienza “sensibile” e dall’ “individuale”. E il “concetto”, per Socrate, esiste, non è un nulla. Il “concetto” è cioè, per Socrate, la presenza, seppur astratta (cioè figurale), del concreto.

    D’altra parte, quando Socrate afferma di “sapere” di non sapere, egli vuol dire che ciò di cui l’uomo è convinto non è “verità incontrovertibile”. Pertanto, egli non vuole dire che non esista una verità incontrovertibile (intesa come il concreto), ma vuole mettere in luce il carattere opinabile delle “sensazioni” umane. Socrate ha cioè l’ “idea” della verità, del concreto : non ha dinanzi agli occhi la “materia” del concreto : ha dinanzi a sé la “forma” del concreto.

  49. Profeta, ricordati, se hai tempo, di darmi qualche indicazione sui testi platonici. Altrimenti mi toccherà trovarmeli da solo… Credo che la discussione sia più seria se facciamo riferimento alle parole dei filosofi e non solo alle nostre pur valide interpretazioni.

    Per Emiliano:
    Che la verità non sia un fatto di altitudine è una bella immagine, però eri tu (22 novembre) a parlare di verità che “scende tra gli uomini”. Ma forse ti ho preso troppo alla lettera.
    In ogni caso, tu parli (1 dicembre) di una verità, un logos che è “lì che attende”, che non è affatto da costruire (anche se non capisco perché se la verità fosse da costruire sarebbe “partita persa in partenza”), “intatto e incorrotto”, una “luce” da scovare, ecc.
    Nel Critone (46 b), Socrate dice: “sempre, sono stato siffatto da non dare ascolto a nessun’altra cosa di me se non al logos: a quello, dico, che, ragionando, mi sembri il logos migliore”. Dove io capisco: 1) esiste più di un logos; 2) giudice di quale sia il “logos migliore” è il singolo, il vaglio, l’esame della ragione individuale, analogamente a quanto accade con l’adesione alla legge. Qui sono d’accordo con Hegel: Socrate col suo sacrificio paga il fatto di aver posto la ragione individuale come criterio supremo, anche di accettazione della legge, rompendo l’ethos compatto della polis. E si sa che l'”astuzia della Ragione” lascia cadere “come gusci vuoti” quegli uomini che osano affermare nuovi principi.

  50. Scusate per la pedanteria del richiamo ai testi, ma mi sembra importante. Del resto chi gentilmente ci ospita su questo blog fa partire la discussione, in modo opportuno, proprio sulla base di un testo. Altrimenti le nostre parole in libertà, fuori da ogni riferimento, rischiano di essere solo pippe mentali (e qui mi scuso per la volgarità, soprattutto col giovane Valerio, se ancora ci segue).

  51. Ares ^__^

    Credo che sia avvezzo a ben altre espressioni .. perdincibaccolaceppola!!.. non si sente piu’, sara’ impegnato con i compiti in calasse pre natalizzi.. prello!!

  52. Per AndreaLa verità mi sembra essere tale maggiormente se cercata e magari trovata o meno, più che costruita; in quasto caso mi pare soffra di opinabilità, di strumentalità, di qualcosa insomma che la rende più vicina al mondo di una conoscenza superficiale e a basso costo, forse anche ridondante e appariscente; una sapienza “sofistica” che appunto proprio perchè utilitaristica non è votata al logos che in questo senso ha doti di purezza.”Quale logos mi sembra essere il migliore” non significa necessariamente che ne esistano molti ma che ci si possa sbagliare nel carpirlo a pieno, rappresentando il logos la sfaccetatura più veritiera di un ragionamento, quella che più spesso si nasconde, come il groviglio inestricabile di un sogno che per Freud ne rappresenta “l’ombelico”.

  53. La questione che pone Emiliano non è di poco conto.
    La verità è da cercare e trovare, nel senso che esiste indipendentemente da noi, oppure siamo noi a costruirla?
    Lasciamo da parte la questione di quale sia più a basso costo, anche se credo che costi di più costruire qualcosa piuttosto che trovarsela già fatta, magari ab aeterno.
    Innanzitutto parliamo di Socrate, quindi parliamo di sfera etica, morale, non stiamo parlando di matematica, né di scienza della natura, alla quale Socrate preferiva i discorsi sull’uomo, su cosa debba fare, su cosa sia giusto e ingiusto. Apologia, 38 a: “proprio questo è per l’uomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virtù e degli altri argomenti sui quali m’avete udito disputare e far ricerche su me stesso e sugli altri”.
    Parliamo di valori.
    Come stanno le cose per Socrate?
    Su questo punto confesso che sostanzialmente seguo la lezione di Giannantoni, non per richiamarmi ad un’autorità, ma per dire che non è – perlopiù – farina del mio sacco, e per la riconoscenza che devo a un maestro.
    Secondo te, attribuendogli la tesi per cui la verità “si costruisce” nel dialogo, faremmo di Socrate un sofista.
    Possiamo distinguere tre posizioni.
    1. I sofisti. Quot capita, tot sententiae. Non si esce dalle preferenze individuali. Non ci sono verità da costruire con l’altro, anzi la comunicazione è concepita come makròs logos, lungo discorso in cui l’unico fine è persuadere l’ascoltatore (che non è interlocutore) del fatto che la mia tesi è migliore delle altre, attraverso l’abilità oratoria. Il confronto è eris, sfida, duello, agone, da cui emergeranno un vincitore e un perdente.
    2. Platone. La verità esiste indipendentemente dalle opinioni dei singoli. E’ assoluta. Se ne sta nell’iperuranio – le idee. Nostro compito è avvicinarsi ad essa con un metodo, la dialettica, che non ha bisogno dell’apporto dell’altro: può anche essere un percorso solitario, come quello del prigioniero che esce dalla caverna, una visione dell’anima che va oltre il sensibile. In questo essere al di sopra delle opinioni la verità platonica è concepita in analogia con le verità matematiche (e pare che sulla facciata dell’accademia fosse vietato l’accesso a chi ignorava la geometria).
    3. Socrate, anche se la sua posizione, anche storicamente, è intermedia tra le due. Da un lato, come i sofisti, afferma il diritto di seguire le proprie preferenze individuali (quel logos che sembra il migliore – a proposito: se si ammette un “logos migliore” mi pare tautologico che ne esistano più di uno, altrimenti di che cosa sarebbe “migliore”?). Dall’altro, sostiene la doverosità di mettere in discussione la propria scelta nel dialogo. Sempre nel Critone, per stabilire se è giusto o meno fuggire dal carcere e quindi violare la legge, immagina persino un dialogo con le stesse leggi. E nel dialogo l’omologhìa, l’accordo, è il criterio di verità, sempre provvisoria. Per questo il dialogo stesso è il “bene maggiore”, più ancora di ogni verità raggiunta, che è sempre provvisoria: è il “mèghiston agathòn”, senza il quale la vita “non è degna d’esser vissuta”. E dove non c’è un vincitore e un perdente: si vince o si perde insieme.
    Forse è quello che cerchiamo di fare in questo blog.
    Infine, la verità risulta diminuita se utile? Uno dei motivi socratici ricorrenti è quello dell'”attraenza del bene”. Il bene attrae irresistibilmente perché è oggetto del desiderio, perché non è ancora separato dal sensibile e dal piacere, come sarà in Platone. Questo è sì un momento aureo, in cui anima e corpo non si contrappongono.

  54. Andrea, non mi riesce di concepire una verità come data indipendentemente da me, dal mio ricercare, dal mio ragionare. Se penso alla verità come l’essere eterno, uno, che non può non essere sono comunque io a pensare questa verità, questo essere, questo eterno, e qualcuno potrà sempre negare che io lo possa pensare. Si risponderà: sì, però non potrà negare l’innegabile, e cioè che quell’essere uno ed eterno è la verità. Va bene, se anche riuscissi a convincere tanto lui quanto me stesso di questa verità innegabile – che però, vista la sua innegabilità, dovrebbe essere del tutto indipendente dal convincimento individuale – il discorso filosofico, e quello che ci potremmo ulteriormente dire, finirebbe qui. Non si può aggiungere altro. La crepa nell’essere – e nella verità – è il rovello, il tarlo che rode e non si accontenta di chiudere il discorso della verità in una semplice tautologia. essere=essere=essere… Delle due l’una: o la verità è data e dunque è del tutto inutile cercarla (e allora la filosofia è inutile), oppure si dà storicamente, nel tempo, ma allora è contraddittoria perché non può darsi qualcosa di eterno nel tempo. La mia convinzione è che tutto questo movimento (e imbroglio) concettuale sia frutto della nostra testa, della nostra non accettazione dei limiti, della morte, della finitezza.
    L’unica verità che mi pare umanamente possibile – ma allora non è più “la” verità – è la ricerca di significati e di relazione tra significati entro l’altrimenti muta notte dell’essere.

  55. Ma così Md arrivi ad affermare che ciò che esiste (l’essere) è una relazione di significati, ed essendo tale relazione è un che di contraddittorio, cioè di nullo, perché il significato “ciò che esiste” è indivisibile, ed essendo indivisibile è impossibile che esso sia, insieme, una relazione di significati che, come tale, implica una molteplicità.

    A questo punto potresti obiettare che non è contraddittorio che l’essere sia una relazione di significati perché l’essere, come tale, trascende includendo in sé tale relazione, e quindi non fa sì che ci sia identificazione dei non identici (essere, relazione di significati).

    Se così obietti, è da rispondere che se l’essere trascende e include qualcosa di diverso da esso, ciò che esso trascende e include non può essere, per definizione, un “ciò che è”, ed è pertanto nulla.

  56. Ma insomma, intanto possiamo dire che ogni sfumatura del pensiero ha il suo fondo di verità; il logos è unico per ogni diverso contesto. Cosa ci cerchiamo se in qualche modo non è fuori di noi, non costituisce un mistero oggettivo? La costruzione della realtà da parte del soggetto ha a che fare con l’ombra che il soggetto fa a sé stesso; ma egli(il soggetto) vuole guardare più in là dove quell’ombra lascia spazio al sole dell’oggetto. Ecco perché dicevo che il dialogo si smorzerebbe all’inizio se non ci fosse una tensione, e piena di fiducia, verso quell’oggetto. Socrate quando parla di Virtù le si rivolge come al volto intatto di una dea. Insomma per me non è Socrate=la verità è quella che mi faccio da me; per me è Socrate=bisogna scandagliare dentro noi stessi per trovare la parte più oggettiva di noi stessi, il nostro logos.

  57. Per Emiliano.
    Forse mi sbaglio, ma ho l’impressione che non dedichi a quello che scrivo la stessa attenzione che io presto alle tue considerazioni. Le mie probabilmente non la meritano perché sono lunghe e noiose, però così facendo rischiamo di parlarci addosso e di tornare ogni volta al punto di partenza.
    1. Nel mio post del 6 dicembre premettevo che Socrate si interessa di questioni morali, del giusto ingiusto, bene e male e così via. Usando un linguaggio kantiano potremmo dire che siamo nella sfera della ragion pratica e non della ragion pura. Ora, in questo ambito, credo che converrai con me che sia quantomeno problematico parlare di “realtà fuori di noi”, “oggetto” indipendente, ecc.. Questo non significa che non si possa parlare di valori condivisi, che però è cosa diversa.
    2. Non ho detto, ma evidentemente non sono stato abbastanza chiaro, che per Socrate “la verità è quella che mi faccio da me”. Questa è esattamente la posizione di un sofista come Protagora. Semmai è quella che “facciamo” nel dialogo, dove l’apporto dell’altro è imprescindibile, costitutivo dello stesso concetto di verità.

    Poi, dobbiamo decidere se ci interessa costruire – è il caso di dirlo – un Socrate a propria immagine e somiglianza (il Socrate “per me”, “per te”), quello che ci piace di più, oppure se vogliamo cercare di capire che cosa “ha veramente detto”. In questo, lo ripeto, è fondamentale il ricorso ai testi. E io non riesco a ricordare un Socrate fautore del “logos unico” (o del pensiero unico), e nemmeno un Socrate che paragona la Virtù (maiuscola) al “volto intatto di una dea”.

    Per md.
    Sono d’accordo che se si ammette solo una verità già data, indipendente dal nostro ragionare e ricercare, la filosofia muore. Oppure si finisce per riconoscerle solo un ruolo ancillare, servile, rispetto alla scienza o, come avveniva nel Medio Evo (e qualcuno vorrebbe anche ora), rispetto alla religione e alla teologia.

  58. Siamo d’accordo sul fatto che anche in Socrate come in Parmenide, colui dal quale tutta questa discussione è partita, c’è una netta distinzione tra verità e apparenza?Il dialogo è strumento che permette, meglio di un monologo ad esempio, di evitare il rischio di cadere in un conoscere superficiale?Non credo che se penso a Socrate come a uno che aveva una forte fede  nella ragione, dipingo un mio personale Socrate (anche se credo sia lecito vedere ognuno l’aspetto del maestro che maggiormente risuona nella propria sensibilità).E’ vero o no che spesso Socrate si pone di fronte all’interlocutore come colui che disvela, che porta l’altro verso l’incontro evidente con la verità, con il riconoscimento del carattere illusorio di certeze precedenti?Credo Andrea che tu non abbia afferrato in pieno il mio parlare della “parte oggettiva del soggetto”; forse non gli hai dato molta importanza ma credo che sia un punto cruciale del nostro dialogo.(Non dimentichiamoci dei testi, ma utilizziamo anche un approccio creativo nell’affrontare questa discussione, penso che sia buono per il dialogo).
    Che differenza c’è tra un dialogo e un monologo? Tra molte descrizioni della verità o di ciò che sembra maggiormente vero e una presuntuosa asserzione della stessa? Io credo che la differenza stia nel fatto che più voci sono maggiormente capaci di abbracciare l’intero, il vero. In fondo a suo modo anche Socrate porta avanti un’indagine scientifica.Allora possiamo parlare di metodo socratico; ogni metodo ha la limpidezza di un fine. Socrate si contrapponeva non tanto a dogmi e fedi, come ad esempio Galileo con la Chiesa, ma a un atteggiamento culturale modaiolo e poco scientifico, che cavalcava l’avvio dell’avventura relativista in malo modo, superficialmente; ecco perché io tendo a vedere Socrate in chiave quasi conservatrice (ovviamente nel senso buono del termine). Dobbiamo veramente pensare che Socrate fosse l’artigiano delle idee, l’instancabile forgiatore del logos nell’officina del dialogo e Platone quello che ne sistematizza il tutto in chiave teoretica? Credo che esistano più cose in Socrate di quante non ne immagini la tua filosofia Orazio.  

  59. Emiliano, ti ringrazio della risposta lunga e articolata.
    Alcuni dei temi affrontati, come verità e apparenza in Socrate, richiedono un approfondimento serio, e quindi tempi (e spazi) adeguati. Meglio non improvvisare per liquidare la questione magari con qualche buona battuta.
    Per ora, faccio due osservazioni.
    1. Ho qualche dubbio che per comprendere il significato autentico del dialogo socratico sia utile una formula hegeliana come “il vero è l’intero” (anzi l'”intiero”…), come credo servirebbe a poco voler spiegare Socrate sulla base, che so, del cogito cartesiano, del trascendentale kantiano o della fenomenologia husserliana.
    2. Socrate è sicuramente un conservatore, per alcuni versi.
    Per altri, non lo è affatto, ad esempio in materia di religione. Ricordiamoci che è processato con l’accusa di “non credere agli dei” (in pratica un’accusa di ateismo, la stessa rivolta a Protagora qualche anno prima), e nel contempo di “introdurre nuove divinità”.
    E’ conservatore, in senso buono come dici tu, nella misura in cui evidenzia, nel momento stesso in cui sta nascendo in occidente, il limite della democrazia. Quale? Il fatto che chi governa sia scelto dal popolo non garantisce per niente che sia competente. Anzi. Socrate ha appena visto politici senza scrupoli lanciare Atene nell’avventura, suicida per tutta la Grecia classica, della guerra del Peloponneso. Il popolo può essere preda di demagoghi che lo allettano con facili promesse, uomini la cui fortuna politica è proporzionale all’ignoranza della massa, nella quale si danno da fare per mantenerla.
    E in questo credo Socrate abbia ancora qualcosa da dirci.

  60. Vorrei completare il discorso lasciato in sospeso su Socrate.
    Emiliano, avevi osservato che sia in Socrate sia in Parmenide c’è una contrapposizione tra verità e apparenza.
    Questo mi sembra un punto importante. In particolare cercare di capire che significato ha il concetto di verità in Socrate.
    In Parmenide la alètheia è contrapposta alla doxa, all’opinione. Mi sembra che conveniamo sul fatto che la verità è la via che dice “è”, la via dell’essere che non può non essere, mentre la doxa è il mondo del divenire, del molteplice sensibile che, in quanto “è e non è” nello stesso tempo (sia perché diveniente – “non è più” ciò che era prima – , sia perché molteplice – se ammetto più enti, allora l’uno “non è” l’altro) in realtà non esiste, non è vero essere, e quindi è apparenza illusoria, data anche l’indistinzione di piano logico-linguistico e piano ontologico come tu osservavi all’inizio della nostra discussione.
    E in Socrate?
    Socrate in effetti all’inizio dell’Apologia afferma di essere “tutt’altro che un abile parlatore”, “salvo che essi [gli accusatori] non chiamino abile parlatore che dice la verità”. E ancora: “da me non udirete altra cosa che la verità” (17 b).
    Il parlare “secondo verità” di Socrate è contrapposto al parlare “secondo persuasione” dei sofisti.
    Ora, in che senso va intesa la verità di cui parla Socrate? Non va intesa, a mio avviso, nel senso di una conoscenza o sapienza assoluta, oggettiva, indiscutibile, dal momento che poco dopo Socrate nega di sapere alcunché, proprio dopo essere stato riconosciuto dall’oracolo come il più sapiente: “io, per me, non ho proprio coscienza di esser sapiente, né poco né molto”. E poi, smascherando l’ignoranza altrui: “costui [uno dei suoi tanti interlocutori] credeva di non sapere e non sapeva, io invece, come non sapevo, neanche credevo di sapere; e mi parve insomma che almeno per una piccola cosa io fossi più sapiente di lui, per questa che io, quel che non so, neanche credo di saperlo” (21 d).
    Per verità quindi non si intende una corrispondenza tra pensiero e realtà, ossia una qualche verità “oggettiva”, come sarà in Aristotele (e che sarebbe diventata “adaequatio rei et intellectus” nel Medio Evo).
    E’ una verità in senso soggettivo, ossia equivalente a “sincerità”, “veracità” o “veridicità”, e quindi intesa come corrispondenza tra pensiero e parola. E’ in pratica il dire ciò che si pensa. Se vogliamo, una verità in senso morale. Proprio ciò che manca ai sofisti, mossi unicamente dalla volontà di prevalere nella gara dialettica.
    In questo senso, il “tì esti?” socratico, il “che cos’è?”, in pratica equivale a un “tì legheis?”, “tì onomazeis?”, ossia non chiede la definizione, il “concetto” della cosa – come poi penserà Aristotele di Socrate – ma semplicemente il punto di vista dell’interlocutore. E’ un domandare “che cosa intendi tu” con certo termine, una certa cosa? “Che cosa vuoi dire” quando pronunci un certo nome? E’ un chiarirsi sulle rispettive posizioni, premessa indispensabile per poter poi eventualmente giungere ad un accordo.
    E qui si tocca anche un altro punto da te sollevato, vale a dire quello del Socrate “maieutico”. Non significa, a mio avviso, che Socrate fa emergere la verità “oggettiva” presente nell’anima dell’interlocutore. Questa ritengo sia una tesi platonica, successiva, quando Platone ha elaborato la metafisica delle idee e della relativa “visione” di esse da parte dell’anima prima di incarnarsi in un corpo. Tesi legata indissolubilmente all’escatologia platonica, all’idea che l’anima dopo la morte continui a vivere (anzi si liberi), cosa del tutto assente nell’Apologia, dove Socrate, come abbiamo già visto, è agnostico rispetto alla sorte futura che lo attende.
    Maieutica autenticamente socratica è esortare l’interlocutore ad esprimere chiaramente il proprio genuino punto di vista, come premessa del dialogo.
    Mi sembra di aver riportato abbastanza fedelmente la tesi di Giannantoni al riguardo. A me pare abbastanza convincente.
    Mi auguro serva da spunto per un ulteriore sviluppo della discussione.

  61. Grazie per gli apprezzamenti.
    Io ringrazio chi legge, chi interviene e mi ha sollecitato alla discussione, chi ha creato il blog e ci ospita. Perché mi stando modo di riflettere e di chiarire anche a me stesso alcune cose magari date per scontate, o altre su cui altrimenti non mi sarei soffermato.

    Mi sono accorto di aver fatto un paio di errori di trascrizione nel post precedente, per la fretta, citando l’Apologia. Approfitto per correggerli (mi fa piacere non abbiano compromesso il senso complessivo, almeno per dei lettori attenti e competenti):
    – 17 b, “salvo che essi [gli accusatori] non chiamino abile parlatore chi dice la verità” (e non “che dice la verità”);
    – 21 d, “costui [uno dei suoi tanti interlocutori] credeva di sapere e non sapeva” (e non “credeva di non sapere e non sapeva”).

  62. Andrea, ho molto appezzato anch’io il tuo intervento, anche perché riprende fedelmente i punti da me sollevati. Ora ci sono delle cose che vorrei puntualizzare. Intanto non è detto che il vero come intero debba per foza essere affidato al monopolio hegeliano: l’interezza è supeamento di una prospettiva di parte. Socrate privilegiando il dialogo si mette in una prospettiva di conoscenza polifonica; non tanto per asserire una maggiore validità del dialogo rispetto al monologo di principio, così tanto per seguire una sua teoria, ma proprio perché lo ritiene maggiormente in grado di sollevarsi da una speculazione parziale. Molto bella la questione di una verità morale; ma anche complessa. Il punto di vista dell’interlocutore non viene vagliato da Socrate semplicemente sulla base della sua sincerità o verità soggetiva; egli scandaglia con domande analitiche e logiche l’ossevazione delle questioni, spesso definendone i contorni; se mi si pemette, oggettivi. Rispetto alla risposta all’oracolo: “ne tanto ne poco” è disinteresse per una valutazione a priori della sapienza (da cui si evince la meravigliosa limpidezza dell’intelligenza di Socrate), non esclusione di una eventuale validità a posteriori, dopo ad esempio aver condotto un’indagine dialogica. Di fronte a una valutazione sincera ma insensata (“non è insensato pensare…”) Socrate non cessa di stimolare all’approfondimento, all’analisi, a volte in un gioco di scoimposizioni cubiste. La questione ovviamente merita ulteriori approfondimenti.

  63. Volevo tornare con più calma su alcune questioni; anzi un po’ su tutta la panoramica della faccenda dal mio punto di vista, per chiarire alcune cose. Evidentemente non ho di Socrate l’idea di un pensatore dogmatico; piuttosto gli attribuisco le caratteristiche piene dello spirito critico; in questo senso non lo vedo così distante da Parmenide; in fondo anche questi “sa di non sapere”, in un certo senso. Comunque anch’io sono dell’avviso che la verità inseguita nei dialoghi socratici non sia quella monolitica, granitica del dogma, ci mancherebbe; però…Da questo però mi sembra debba iniziare una riflessione impegnativa; provo a darne un abbozzo: come i presocratici osservando il divenire gli anteponevano la sfera ideale dell’idea appunto, del nome, del pensiero; dando a questo un valore conoscitivo se pure in via intuitiva (pensiamo alle cosmologie, alle visioni della materia e dell’energia), così mi pare Socrate di fronte alle conoscenze settarie, interessate, strumentali dei sofisti contrappone qualcosa di rigoroso, di logico, di sensato (laddove questi attributi sono molto più nella sfera dell’idea-essere che del divenire-non essere). Attraverso il dialogo si cerca quello cha stà tra i vari punti di vista, sinceri o meno, immersi nella schiuma del divenire. Quel quid che rimane silente e paziente mistero, nei confronti del quale Socrate dedica la sua sublime e potente umiltà. In fondo credo che sia anche per questi motivi che Socrate possa aver profondamente irritato un’epoca, creando scandalo.

  64. Emiliano, anch’io credo che ciò che abbiamo detto, seppure degno di nota, non esaurisca affatto la questione – ci mancherebbe – e che ci vorrebbe una riflessione impegnativa.
    Apprezzo molto le tue considerazioni rispetto alla figura di Socrate come lo spirito critico per eccellenza.
    Del resto, come ti ho detto, la stessa tesi della verità socratica come verità soggettivo-morale, quella che ho riportato, non è del tutto esauriente, soprattutto se confrontata col fatto che di certo Socrate ammette una forma di sapere in qualche modo “oggettivo”, quello tecnico-pratico, appunto delle teknai, che contrappone spesso al sapere apparente dei sofisti.
    Ce n’è da lavorare.
    Brevemente – poi magari ci torniamo con più calma – vorrei spiegare il mio rilievo sull’uso inopportuno, a mio avviso, del “vero è l’intero” hegeliano. Non perché la consideri di uso esclusivamente hegeliano, ma proprio per il suo significato, che mi sembra sia lo stesso che gli dai tu, quando parli del dialogo come superamento del punto di vista parziale di ciascun interlocutore per raggiungere una prospettiva più ampia, oltre le unilateralità dei singoli. In pratica una sorta di Aufhebung, di sintesi che comprende in sé i contrari. Ora, non mi pare che accada questo nel dialogo socratico. Per esempio, il dialogo con le leggi nel Critone ha come esito che Socrate decide di non fuggire: nel senso che si contrappongono due tesi opposte, reciprocamente incompatibili; è una condizione di scelta esistenziale dove si presenta un aut-aut. In questa prospettiva non mi pare ci sia posto per una sintesi hegeliana, possibile dove il soggetto cessa di essere il singolo per diventare Ragione infinita, Dio, che in quanto tale è coincidentia oppositorum e accoglie in sé i contrari.
    Ci riaggiorniamo.

  65. Andrea, grazie per la spiegazione di ciò che intendevi riguardo all’intiero, alla sua categoria in qualche modo inopportuna nella dimensione socratica; la quale si muove nell’ambito della ricerca e non di una “grandiosa visione delle cose”, ad esempio hegeliana o parmenidea; anche questi infatti diceva dell’uno :”tutto intiero vede, tutto intiero pensa, tutto intiero ode”; qui, in effetti, la vicinanza tra Parmenide e Socrate, da me precedentemente accarezzata, si allenta ( quando si dice che il dialogo non può che arricchire, proprio perchè capace di smuovere acquisizioni e punti di vista, creando una dinamica salutare…). L’esempio del Critone è lampante, tuttavia potrebbero esserci altri esempi che inquadrano l’avverarsi di una composizione tra punti di vista e a proposito mi viene in mente quello che succede alla fine del Protagora in cui dopo aver sostenuto la non insegnabilità della virtù Socrate ipotizza la possibilità di farlo sulla base delle argomentazioni che lo portano a identificare la virtù con la conoscenza.

    Tornando al problema della verità, ecco come Socrate si rivolge a Protagora nell’omonimo dialogo:”…essi, i più, danno del pensiero del poeta, chi un interpretazione chi un’altra. Ma gli uomini per bene lasciano stare gli intrattenimenti di questo tipo e conversano fra di loro con risorse proprie, mettendosi l’un l’altro alla prova nei loro discorsi. Sono costoro che io e te dobbiamo imitare e bisogna che mettendo da parte i poeti discutiamo tra noi coi nostri ragionamenti, mettendo alla prova la verità e noi stessi” (“…tes aletheias kai emòn autòn peiran lambànontas”. Protagora 348a). Qui si parla di una verità da mettere alla prova attraverso il dialogo e il ragionamento; ne affiorano aspetti oggettivi, che richiedono una stringente analisi ( facilitata dal dialogo breve). Inoltre, alla fine del Protagora viene inquadrata la sapienza, la conoscenza del bene e del male come strumento potentissimo in mano all’uomo, dalle caratteristiche poco fluttuanti; nel senso ferme, indiscutibili…Socrate viene a dimostrare attraverso il suo metodo che ogni forma di assoggettamento a passioni o a beni apparenti quindi mali o dolori è provocata indubitabilmente dall’ignoranza, il contrario della sapienza…

    Queste mie possono essere considerate, anche da me suggestioni, spunti di riflessione. Convengo, dopo aver letto il Protagora, che nonostante queste considerazioni la figura di Socrate si delinea in un clima sfumato, di tensione verso l’aletheia ma anche di uno stare nella speculazione filosofica molto umano, pieno di sospensioni, ipotesi, tentativi di accordo, salti di argomenti e soprattutto caratterizzato da una profonda apertura alla via del dialogo, metodo principe nell’abbattimento di ogni presunzione. A te.

  66. Salve.
    Qui però c’è un aspetto che forse viene sottaciuto, e cioé il fatto che questi sono dialoghi, affermazioni che Socrate potrebbe non aver mai fatto. Socrate non ha lasciato nulla di scritto, e quel che conosciamo di lui ce lo ha tramandato Platone o altri che di lui hanno scritto, non lui stesso. L’influenza di Platone sul nostro pensiero è forte, non solo per quel che concerne Socrate, ma anche per quel che riguarda la scuola sofistica di cui abbiamo una pessima opinione al punto che sofista ha assunto un senso oltraggioso. Come facciamo a dire che quello fosse il vero pensiero di Socrate? E se invece fossero tesi di Platone che per un motivo che non conosciamo lui attribuisce a Socrate?

    A presto.

    Luciano

  67. Certo Luciano, forse l’Apologia che si basa su documenti, atti di un processo, è immune da questo rischio di platonizzazione… però ai fini del nostro discutere basta e avanza il Socrate che vive in questi meravigliosi dialoghi a noi pervenuti. Comunque Socrate è una figura talmente potente nella sua portata storica e rivoluzionaria che mi rimane difficile pensarlo semplicemente come un burattino nelle mani di Platone; piuttosto mi sembra più convincente l’ipotesi contraria di un Socrate capace di incidere profondamente nel sistema di pensiero platonico. Un saluto.

  68. Emiliano, sicuramente la discussione si approfondisce nel momento in cui prendiamo in considerazione il Protagora, quello che Giannantoni considerava il più socratico tra tutti i dialoghi, o meglio quello dal quale maggiormente si poteva evincere la sua filosofia, insieme all’Apologia che però non è un dialogo (e non poteva esserlo in quanto “testimonianza” del processo) e quindi mostra dei limiti “metodologici”.

    Tu affronti la questione della “scienza del bene e del male” (epistème ton agathòn kai ton kakòn) e del significato più o meno “oggettivo” che possiamo attribuirle.
    Ora, il Protagora è il dialogo in cui il tema del bene è legato più che in ogni altro al piacere, all’utile, al vantaggioso, al conveniente, e quindi alla sensibilità, tant’è che proprio per questo Giovanni Reale lo considera un mero “esercizio di stile” al modo dei sofisti, e per nulla indicativo del vero pensiero socratico.
    Io, come sai, resto legato all’interpretazione del maestro.

    In che senso va intesa, a mio avviso, tale scienza del bene e del male?
    Nel Protagora è centrale il tema, di cui già si ragionava sopra, dell’attraenza del bene. Che significa che il bene è attraente? Significa che in Socrate esso è indissolubilmente legato, non solo alla ragione e all’intelletto, ma anche – e soprattutto, altrimenti non sarebbe attraente – al desiderio. E il desiderio non può prescindere dalla sensibilità, dalle inclinazioni, dal piacere, dalle passioni anche. E dalla dimensione inevitabilmente individuale, soggettiva, che questo comporta.
    “Scienza del bene e del male” in questa prospettiva diventa conoscenza di ciò che è bene PER ME, ossia di ciò che mi appare come sommamente desiderabile, attraente appunto, oggetto dell’inclinazione sensibile e quindi veramente piacevole.
    In tal senso questo motivo si lega alla ripresa socratica del motto delfico “conosci te stesso” (gnòthi sautòn), che qui significa: divieni consapevole di ciò che è veramente bene per te.
    Se si separa il motivo del bene dalla sua “attraenza”, e quindi dalla sensibilità, dalle passioni, non si comprende a mio avviso il motivo, che tu riprendi, dell’involontarietà del male: udèis ekòn examartanei (nessuno sbaglia volontariamente), ognuno agisce sempre credendo di fare il proprio bene, nel senso di ciò che appare più vantaggioso, utile, conveniente, ecc.. Il bene attrae perché è l’oggetto della passione. Lo è talmente secondo Socrate da essere irresistibile.

    Evidentemente, ci si può sbagliare. Ossia, ed è il tema del Protagora, si può, inseguendo il piacere momentaneo ed immediato, incorrere in dolori maggiori in seguito. E’ necessario, in altri termini, svolgere un “calcolo dei piaceri”, la cosiddetta “scienza metretica”, che mi porta magari a rinunciare ad un piacere immediato che però so dannoso. Questo significa ignoranza di ciò che è il proprio bene, da cui scaturisce il male.
    Ma calcolo dei piaceri non significa – e questo è un punto fondamentale – separare bene e piacere, vale a dire intelletto e sensibilità, in nome di un “Bene” superiore. Significa semplicemente preferire un piacere prolungato, che possiamo chiamare felicità, ad uno soltanto effimero. E’ la cosiddetta “asimmetria” tra bene e piacere: il bene è veramente piacevole, ma non tutto ciò che è piacevole e veramente bene (perché può implicare dolore [come il dolce per il diabetico], non in nome di un altro criterio, più “alto”, di valutazione).

    Per questo è fondamentale il dialogo. Per approfondire sempre di più la conoscenza di se stessi, di ciò che è veramente bene (e male).
    Per noi.

    Ma vorrei sapere la tua opinione in proposito (e ovviamente anche quella di chiunque sia interessato).

    PS concordo con quanto hai detto a Luciano sul carattere socratico dei discorsi dell’Apologia. Ritengo, sia per un criterio “stilometrico”, sia per ragioni di coerenza filosofica, che non si possa spingere troppo oltre – diciamo fino al Gorgia – l’attribuzione a Socrate dei dialoghi platonici.

  69. Mannaggia alla fretta. Rileggendo mi sono accorto di aver dimenticato un accento in un punto chiave: quando parlo della asimmetria tra bene e piacere, ovviamente volevo scrivere “il bene è veramente piacevole, ma non tutto ciò che è piacevole E’ veramente bene”.

  70. La cosa cruciale nel calcolo dei piaceri rimane però la capacità di misurazione che è esclusivamente appannaggio della conoscenza. La scelta del male non è libera, perché vincolata dall’ignoranza: quindi non è un criterio soggettivo o sensibile, ma solo non conoscenza che quella scelta possa portare in realtà al male. L’esempio lampante è quando Socrate parla della capacità di distinguere le figure lontane o vicine, grandi e piccole definendo la capacità nella visione, nella conoscenza di una diciamo “costanza della forma”: criterio oggettivo indipendente dagli spostamenti soggettivi dall’oggetto… Insomma secondo me al tuo discorso va aggiunta questa serie di considerazioni; di cui la seconda parte del Protagora è piena.

    Quando Socrate risponde, ipoteticamente, alle persone che sono convinte di fare il male nonostante conoscano il bene solo perché dominate dalle passioni, mi sembra affrontare una questione più ampia di una semplice attraenza del bene che in fondo è una formula di approccio. C’è la chiara spiegazione nel Protagora della conoscenza come strumento in mano all’uomo per elevarsi al di sopra della propria momentanea sensibilità. Comunque con più calma riporterò in seguito i passi specifici.

  71. Non mi pare che le ultime cose che hai scritto siano in contraddizione con ciò che ho scritto io.

    1. E’ vero che io non scelgo di fare il male, ma quel male cui vado incontro inconsapevolmente non è altro che un dolore futuro maggiore del piacere immediato: vale a dire sensazione, e in quanto tale legato alla sfera della MIA soggettività, è comunque male per me (tra l’altro involontarietà del male non significa irresponsabilità, come in Gorgia: l’ignoranza, come di fronte alla legge, è una colpa).

    2. Sono d’accordo che nel Protagora c’è l’invito ad “elevarsi al di sopra della propria momentanea sensibilità” – l’avevo scritto anch’io – ma appunto a favore di una sensibilità “non momentanea”, cioè del piacere duraturo (la felicità), ma sempre di sensibilità si tratta.
    Certo che è importante la conoscenza, ci mancherebbe, ma qual è l’oggetto del calcolo? Cosa va soppesato sul piatto della bilancia? Piaceri (e dolori).

    Come ultima considerazione, a dire il vero (in senso socratico…) l’esempio che porti dell’oggetto della visione che ha una sua forma costante sembra introdurre un elemento nuovo, dal sapore platonico, e proprio nel senso dell’oggettività di cui parli tu.
    Mi riservo quindi di tornare sulla questione testo alla mano, come lodevolmente hai fatto tu, passate le feste.

  72. “Sempre di sensibilità si tratta”. Certo; però il termine sensibilità è un po’ generico. In questo caso credo sia opportuno quello di “metasensibilità”, nel senso che in una “economia o ecologia della sensibilità” e cioè nel saper operare una misura, si crea un passaggio di ordine superiore nella scala della conoscenza. In seguito riporterò il passo in cui Socrate distingue tra l’apparenza dei fenomeni e la capacità di misurare proprio nell’ambito del discernimento tra piacere e dolore, bene e male. E’ chiaro che quì non si parla di Bene supremo ma di un potere di osservazione delle istanze interiori di cui l’uomo è dotato. Comunque anche se riportata ad una logica morale, ugualmente si parla di una contrapposizione tra verità e apparenza, laddove la prima richiede l’arte della misura.

    Quindi non siamo di fronte a una verità profetica, certo; però almeno a una verità freudiana che in qualche modo ruba al soggetto per dare all’oggetto…nel senso che l’uomo diviene soggetto e oggetto dell’indagine. E mi sembra che in qualche modo nell’allusione (in Freud) ai contenuti e ai significati dell’interiorità (la cultura, i miti) si attui una specie di religione sostitutiva; la ricerca di una morale che onto e filogeneticamente spieghi l’esistenza…Come una indagine in filigrana degli ingranaggi del mondo e dell’uomo, che ancora una volta come in Parmenide non si danno per scontati.

    Lasciamo parlare Socrate: “E voci uguali non sembrano più forti da vicino e più deboli da lontano?…
    Se dunque la nostra felicità dipendesse dal fare e scegliere le cose di grandi dimensioni e dal fuggire ed evitare le cose di piccole dimensioni, in che consisterebbe allora la salvezza della nostra vita? Nell’arte di misurare o nella forza dell’apparenza?…Mentre l’arte di misurare renderebbe impotente quest’illusione e mostrando la verità metterebbe l’anima in pace saldamente fedele al vero e salverebbe la nostra vita?”
    (Protagora 356d-e).

    A un polo della tensione conoscitiva abbiamo l’arte di misurare (metretiké tèkne), all’altro la forza dell’apparenza (fainomènu dùnamis). La verità mette l’anima in pace e salva la nostra vita!

  73. Emiliano, ho riletto il passo del Protagora che mi hai segnalato.

    1. Non mi pare ci sia alcun riferimento ad una verità oggettiva intesa come “costanza della forma” in senso platonico – come verità “ideale” superiore al criterio sensibile.

    2. In cosa consiste la distinzione tra verità e apparenza? Nella capacità di preferire un piacere maggiore futuro ad uno minore immediato:
    “Se infatti qualcuno obbiettasse: ‘ma Socrate, grande è la differenza tra il piacere del momento e il piacere o il dolore futuri!’ ‘Sì, risponderei, solo che tale differenza non consiste che nel piacere o nel dolore, e non in altro.” (356 a).

    3. Quanto alla “salvezza della vita” che mette in pace l’anima, essa “si è rivelata consistere nella corretta scelta del piacere e del dolore” (357 a-b), non vi è quindi nessuna sfumatura metafisica o addirittura escatologica. Salvarsi l’anima qui significa essere felici. E si è felici se si è in grado di scegliere ciò che ci procura la maggior quantità (sì proprio quantità, è un calcolo, si parla di “più e meno”, “pari e dispari”) di piacere nell’intero arco della nostra vita.
    Nel passo che riporti tu, quando Socrate afferma che la nostra felicità dipende dallo scegliere le cose di grandi dimensioni e dal fuggire le piccole, ricordiamoci che sta sempre parlando di piaceri grandi o piccoli, non di altro.

    4. In conclusione, cosa possiamo trarne a mio avviso in termini più generali, riguardo a ciò che ci interessa? Esiste in Socrate una verità “oggettiva”, stando a questi testi? In particolare, vi è un Bene oggettivo?
    No, a mio avviso, se per oggettivo si intende ciò che vale per tutti gli uomini. Se, ripeto, il criterio è il piacere – sia esso passato, presente o futuro – maggiore, “più grande”, e quindi la felicità così intesa, evidentemente ognuno ha un proprio bene, un proprio modo di essere felice. Ripeto, è questo il senso del “conosci te stesso” socratico: sappi ciò che è veramente bene per te, vale a dire ciò che ti procura il piacere più grande. Non esiste il “Bene” con la maiuscola.
    Sì, se intendiamo per “oggettivo” ciò che può essere oggetto di conoscenza. In altre parole, mi pare si possa trarre dal testo il fatto che, dal momento che è possibile calcolarlo e quindi prevederlo, ognuno possieda un proprio bene, se vogliamo una propria “natura” determinata, un proprio modo di essere. La sfida, il gusto, il bello dell’esistenza, è conoscerlo e assecondarlo. E questo è salvarsi la vita.

    5. Proprio in questo senso può a mio avviso essere istituito un paragone con la psicoanalisi – forse è lo stesso che poni tu: si tratta di diventare consapevoli dei nostri reali desideri, di ciò che può renderci felici. Quello che Freud chiama inconscio, che esiste indipendentemente da noi ed è quindi “oggettivo”. Ma che è irrimediabilmente individuale (ognuno ha il proprio e quindi la propria strada da percorrere) e pertanto, da questo punto di vista, soggettivo.

  74. Accidenti Andrea, a proposito del punto 4, quel “sappi ciò che è veramente bene per te” mi porta dritto dritto all’Etica di Spinoza… e non saprei dire se si tratti di una potente anticipazione o di una altrettanto potente rilettura!

  75. Sono d’accordo. Ma vogliamo ogni tanto parlare di mistero? Di quel filo rosso che lega ogni pensiero a un altro? Le parole ad esempio, ognuno le usa come vuole ma hanno un loro significato. Si determinano nel corso dell’evoluzione, della storia, come si determina la fisicità degli esseri, tutte cose che scavalcano, superano il soggetto. Nell’arte si è arrivati all’astrattismo, massima espressione di soggettività, eppure nulla le sarebbe possibile senza quegli oggetti naturali chiamati colori…e i loro accostamenti migliori alla fine sono sempre quelli che si ritrovano in natura. L’autodeterminazione c’è ma vogliamo anche osservare il dato, se non vogliamo chiamarlo creato? E’ semplice parlare di soggetto; ovviamente tutto è da ricondurgli; anche la religione è una sua proiezione… e la cosa non è in contraddizione neanche con la fede se la si guarda dall’alto, come si studiano le organizzazioni incredibilmente sofisticate delle formiche. Il soggetto è un concetto facilmente assoggettabile al soggettivismo (sorrido…), ma che dire dell’umanità? Cosa significa?

    E’ certamente più semplice fermarsi a descrivere ciò che è distinto; dirsi che oltre a quella linea non è dato andare, conoscere, sapere. Coloro che si espongono al tentativo di spiegare, di andare oltre, di guardare le cose dall’alto non possono che esporsi anche all’errore, alla critica, o all’utopia concettuale…oppure devono operare nella metafora, nella poesia…O nella religione, nella musica, nell’entusiasmo profetico. Però almeno hanno tentato di dare alla coscienza, al suo mistero, la luce che si merita. Ad esempio ora mi viene in mente: chi l’ha detto che nel medioevo avessero solo dei deliri quando nel nominalismo leggevano segni? Infatti l’analogia tra ilo sole che brucia e illumina la terra e la luce della coscienza è troppo potente!

    P.S. Mi piacerebbe che questa nostra intreressante discussione fosse conclusa da un post dell’ottimo md. Sei d’accordo Andrea?

  76. Certo che sono d’accordo, caro Emiliano.
    Il nostro padrone di casa saprebbe concludere sicuramente nel modo migliore la nostra discussione. E poi è giusto così, in fondo siamo ospiti.

    Lasciami soltanto dire che la poesia, l’arte, la religione, la musica, l’entusiasmo profetico (quando non è fanatismo), sono cose degnissime che hanno tutte il mio massimo rispetto, alcune delle quali come sai ho amato e amo molto.

    Ma non sono filosofia, che ha la pretesa (illusoria?) di essere sapere razionale.
    E’ più che legittimo cercare altrove quella luce che essa non può dare.

  77. Emiliano e Andrea, vi ringrazio per la vostra gentilezza, ma non saprei proprio come concludere o sintetizzare una così ricca e stimolante discussione (e poi perché mai concluderla?).
    Posso dirvi però che leggo sempre con attenzione (mai sufficiente tuttavia) i vostri commenti e le vostre riflessioni, e che non mancherà certo l’occasione per riprendere questi temi.

  78. Buongiorno a tutti. Mi sono felicemente imbattuto in questo Blog filosofico, e non ho resistito alla tentazione di rispondere all’ottimo post “ESTI GAR EINAI” di MD.
    Forse arrivo un po’ tardi, nel qual caso, lasciate pure perdere quanto scrivo …

    Il problema che MD pone è, se ho capito bene, che il soggetto pensante, il cogito, porrebbe una frattura insanabile all’interno dell’ontologia dell’essere, poiché tale cogito costituirebbe il passaggio obbligato all’essere, il quale pertanto non potrebbe autofondarsi ma verrebbe a costituirsi quasi come un derivato, un “secondo” al seguito del sapere che ne avrei di esso, cioè dell’essere.

    Rileggiamo quanto egregiamente scritto da MD :

    <>

    Dunque al cogito, al COGITO ERGO SUM spetterebbe il ruolo di prima comparsa, di protagonista.
    Lasciamo ancora la parola a MD :
    <>

    Potremmo però obbiettare a questa affermazione dicendo che se il cogito è un mediatore, il mediatore presuppone un termine da mediare che non è posto dal mediatore, ma deve ex-sistere, cioè star fuori da esso, a meno che non si faccia del mediatore il CREATORE del mediato.
    Non solo: se si pone il cogito come ciò che nomina e pensa “prima ancora che qualcosa sia”, allora il cogito stesso non verrebbe mai ad esistere, poiché per venire ad esistere, il mediatore, il cogito dovrebbe PRIMA pensare e nominare se stesso, in quanto il pensare e il nominare sono le condizioni per esistere, ma come potrebbe farlo, se per nominarsi e pensarsi si deve prima o contemporaneamente esistere?

    Ma non è questa controbbiezione che vorrei approfondire.

    Il cogito, il nominare ed il pensare SONO, cioè sono essenti, sono dei non-nulla, e la “funzione” disvelatrice del cogito e del pensare non hanno un’anteriorità sull’essere, sugli essenti, poiché il cogito stesso, il pensare ed il nominare sono essi stessi essenti, essere. L’apparire del cogito, non è l’apparire di una anteriorità, bensì è il co-apparire dell’essere pensato e del pensiero in quanto essere, cioè essere e pensiero si appartengono in un rapporto inscindibile, perché porre il solo cogito senza contemporaneamente porre il suo esser ente, cioè un non-nulla, significherebbe togliere il cogito stesso, eliderlo.
    Parimenti, porre l’ente, un ente qualsiasi senza porre il suo esser cogitabile, cioè senza la sua significanza intelleggibile, cioè, quindi, senza il suo cogito, significherebbe porre nulla. L’errore del COGITO ERGO SUM posto come CENTRO o mediazione, consiste nel fatto che il COGITO ERGO SUM ignora d’esser egli stesso uno degli essenti che appaiono, e non ciò a cui tutto appare.
    Se IO o il mio COGITO fosse il faro che illumina tutto o meglio, se fosse colui a cui tutto appare, il mondo e l’interpretazione che ne darei non avrebbe nessuna valenza aletica, veritativa_ e se ce l’avesse non lo potrei sapere con verità_ così come non potrebbe avere alcuna valenza veritativa l’affermazione secondo la quale l’IO viene a produrre una frattura ontologica all’interno dell’essere, poiché l’IO, appunto, in quanto ente finito, fungerebbe da filtro soggettivo scisso da ogni possibile aggancio meta-soggettivo, senza possibilità di fondazione veritativa, in balìa di quel divenire travolgitore di ogni certezza.
    Infatti, il tuo post seguita così :

    <>

    Qui parti dal presupposto da discutere, cioè che il divenire all’interno del quale siamo inseriti, sia un’entità soggettiva e fluttuante, tale da produrre una CREPA nella solidità dell’essere, CREPA che possiamo tradurre meglio con ANNIENTA TALE SOLIDITà ontologica.

    Se vorrai, potremo discutere di questo ulteriore passo.
    Grazie per la pazienza, ciao
    Roby
    ____________________________________________

  79. Bevenuto Roberto, non è mai tardi per intervenire né su questo né su altri argomenti qui affrontati.
    Anzi, direi proprio che la “discussione ontologica” si è in qualche modo dimostrata il “basso continuo” di questo blog, cosa su cui non avrei scommesso qualche anno fa.
    Lo stanno a diimostrare le lunghe e inconcluse e proficue discussioni in coda a questo post e all’altro su Oltrepassare di Severino, e anche le più recenti sui concetti di “realtà” e “verità”.
    Del resto sono le questioni potentemente evocate dai filosofi greci di cui (dico io, per fortuna!) non siamo in grado di liberarci…

  80. l’Essere (Parmenide), l’Uno (Plotino), la Sostanza (Spinoza). Già: la sostanza di Spinoza, è su questa che ora mi vorrei concentrare…

    * * *
    ma in fondo la sostanza di Spinoza non è altro che l’Essere concentrato nel molteplice.

    l’essere si fa sostanza quando tira fuori la sua anima.
    e l’anima è quell’entità che fa vibrare le cose che tocca…

    è l’Uno che rivela la sostanza, e l’Uno è collocato in Dio.

  81. Estremamente efficace Mario la tua disamina e ricostruzione. Sempre quando si affronta l’ontologia non si può non ricadere nei suoi fondamenti. E come bene sostieni “è” nel medesimo porne il fondamento, i principii che si spalanca la crepa.
    Un saluto, L.

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