MEMORIA, IMMEMORIALITA’, POLEMOS: note a margine della “verità terribile” di Eraclito

“Sia come si vuole, sulle acque mosse dall’Oceano
prese a svelarsi la faccia umana; il mare apparve
lastricato di innumerevoli facce rivolte ai cieli;
facce imploranti, irose, disperate; facce che
emergevano a migliaia, a miriadi, a generazioni”.
(De Quincey, Confessioni di un mangiatore d’oppio)

Ciò che in genere più colpisce del discorso sulla guerra è quel tratto di “immemorialità” (e implicitamente di “naturalità”) che si tende ad attribuirle: c’è sempre stata… da che mondo è mondo… se ne ha da sempre memoria... – e dunque, necessariamente, non avrà fine a meno che non abbia fine il mondo. Si fa cioè di un elemento storico e determinato della storia umana – la guerra essendo violenza organizzata, tecnica, strumentale, politica, e non semplicemente il continuum biologico dell’aggressività e della lotta intraspecifica – un dato ontologico immodificabile. Esiste cioè, e precisamente nella tradizione filosofica occidentale, una vera e propria cosmologia e metafisica della guerra che va ancora meglio indagata.
I pensatori greci, e su tutti Eraclito, fanno del pòlemos un vero e proprio elemento fondativo-generativo degli enti e delle loro differenze. Al che la domanda da farsi è duplice: la guerra è davvero un modo necessario ed ineliminabile di funzionamento del cosmo? Da cui segue, se così fosse, il quesito circa una distinzione di vitale importanza, quella cioè tra guerra (distruttiva delle differenze) e conflitto (che oppone ma rispetta le differenze mettendole in movimento).
Per rispondere a queste domande, anzi per verificare preliminarmente che si tratti di domande fondate e ben poste, si deve innanzitutto riprendere in mano il testo di Eraclito, sforzandosi di penetrare quella aura misteriosa e sacrale che li pervade, quell’intrico di immagini allusive e talvolta oscure, e, insieme a tutto questo, l’ormai spessa stratificazione di interpretazioni che vi si sono addossate (già le diverse traduzioni sono a loro modo delle interpretazioni) – ma ciò non toglie che si debba provare oggi ad interrogare ancora quei frammenti, anche perché appare evidente come non ci si sia granché spostati da lì, come se ci fossimo incistati e bloccati sulla soglia di quel domandare originario.

Mi servirò per farlo della lettura di un mio maestro, Luciano Parinetto, che di Eraclito è stato studioso attento e rigoroso, anche se magari poco riconosciuto dalla cosiddetta “Accademia”.
In primo piano Eraclito mette sempre il divenire dei contrasti, la loro rotazione ed alternanza, il fatto che ciascuno dei differenti abbia già in sé il richiamo dell’altro, il differirsi nell’altro: e allora l’armonia è sì da una parte la bella trama dell’essere che si nutre di contrasti, (“armonia / disarmonia / da tuttecose uno / da uno tuttecose”), ma essa è, come dire, minata dall’interno, minacciata com’è in ogni momento dalla disarmonia, e allora potremmo dire che vera armonia, nesso universale che caratterizza tutti i differenti, è l’armonia di armonia e non-armonia, l’unità di unità e non-unità – il lògos che garantisce insieme i contrasti e i nessi, la trama appunto dell’essere. Vi è in ciò, probabilmente, un limite invalicabile: Eraclito non ammetterebbe mai l’esistenza di un anti-lògos, perché sarebbe un’uscita da ogni concezione cosmologica (e dialettica) possibile. Ma al di sotto o all’interno della sfera del lògos ogni disgiunzione (e congiunzione) è garanzia del divenire e del cambiamento, dunque del dispiegarsi della physis e del suo funzionamento generale.
Ma allora perché pòlemos è padre di tutte le cose, perché la contesa nella sua accezione più distruttiva viene quasi equiparata al lògos nella dinamica cosmologica che qui emerge? Com’è che la ragione per cui “ogni cosa accade” risulta avvicinabile al pòlemos-pater, quasi causa efficiente degli esseri e della loro disposizione fisico-ontologica?

conflitto
di tuttecose padre
di tuttecose re
alcuni foggiò dèi
uomini altri
servi alcuni
altri liberi
fece

L’interpretazione che di questo, che forse è il più celebre dei frammenti, dà Parinetto, è significativa già nella scelta di tradurre pòlemos con conflitto anziché guerra. Eraclito ritiene il pòlemos – per esempio laddove produce un mondo diviso in due, di liberi e di schiavi, di uomini e di dèi – ciò che sancisce, rivela, segnala un dispositivo cosmologico più profondo, qualcosa che è insito nell’essere e che quindi ha più a che fare con il lògos che non a tutti si manifesta. Ma se proprio non vi è chiaro, sembra dire, ecco, guardate: la guerra che tocca tutti e che a tutti infligge la sua dura sferza, è il sintomo evidente e grossolano della struttura profonda del mondo, dialettico e conflittuale. Si tratta allora di capire se il pòlemos di cui parla Eraclito è tout court la guerra infraumana, distruttiva e generatrice di ingiustizie, di infinite catene di torti e di sopraffazioni, o se invece non alluda alla conflittualità naturale generalizzata, che quindi è anche umana, che presiede al movimento dialettico e al divenire cosmici.
E’ nel frammento 80 che la posizione di Eraclito a tal proposito sembra essere più chiara:

conflitto (pòlemos)
giova saperlo
è cosa comune
giustizia è contrasto (éris)
ha nascimento
tutto
da contrasto
da necessità

Parinetto non ha dubbi in proposito: «Qui si tratta di contrasto e guerra come motori della dialettica totale del cosmo, non di contrasti, contese e guerre degli uomini: fenomeni non naturali, normali e fatali, ma artificialmente inseriti dagli uomini, mediante la hybris umana, che porta all’eliminazione dei contrari, non alla loro armonìe». Sembra qui esservi un riferimento alla buona éris di cui parla Esiodo, senonché Eraclito estende tale concetto all’intero cosmo: è il tutto, e dunque anche i viventi, gli animali e gli umani, ad essere investito dalla necessità del conflitto che, proprio perché garantisce a ciascuno la sua consistenza, il suo ergersi di fronte all’altro, il suo differirne, è garanzia della giustizia e della misura. E di fatti, annota Parinetto: «L’esaltazione della guerra e del contrasto cosmici, in Eraclito, è anche esaltazione della giustizia, della misura, dell’equilibrio, con cui le guerre degli uomini nulla hanno a che vedere».
Inevitabile il confronto con Anassimandro (ne abbiamo parlato in un precedente post). Vi è senza dubbio, già lo avevamo notato, una certa continuità tra le due cosmologie, entrambe segnate dalla categoria centrale del conflitto. Ma quel che in Anassimandro era ancora espresso in termini negativi, come “ingiustizia”, il permanere cioè delle cose al di là dei limiti imposti dalla necessità al fine di consentire la rotazione cosmica, in Eraclito si esprime ormai nei termini chiari della misura, della giustizia, della legge del divenire: se cioè le cose sorgono nella lotta ed hanno come levatrice pòlemos, è perché non c’è altro modo che questo affinché si costituiscano a fronte delle altre cose, affinché abbiano un’identità propria. Ciascun essere si oppone a ciascun altro essere, ma secondo misura, secondo la legge del lògos e del fuoco, la loro giustapposizione è garanzia dell’armonia e della consistenza del cosmo.
E’ stato il filosofo tedesco Oswald Spengler, che al pensatore di Efeso ha dedicato la sua dissertazione di dottorato, ad osservare con grande acutezza la funzione potremmo dire ritmocosmologica del senso del divenire in Eraclito, per il quale lògos e mètron sono senz’altro sovrapponibili. Ma egli si spinge ancora oltre, e individua nell’eimarméne – il fato, il destino – «legge implacabile, fissata per tutti i tempi e alla quale non ci si può sottrarre», il significato ultimo della concezione cosmologica di Eraclito. Quella nell’eimarméne è una fede diffusa nel mondo greco, e la filosofia la razionalizza e logicizza, se così possiamo dire, tramutandola nella categoria di anànke, la ferrea necessità, immutabile e impersonale. «In questo pensiero», sostiene Spengler, «è racchiuso un forte fatalismo […] la tragedia scaturì da questa idea. Non esiste modo migliore di rappresentarsi l’idea della legge dominante nel cosmo che innalzare a paradigma il destino che opera nella vita di Edipo». E ancora: «L’universo dei pensieri di Eraclito visto nella sua unità si presenta come un poema nascosto, come una tragedia del cosmo che, per la sua forza sublime, appare degna delle tragedie eschilee».
La lettura di Spengler della cosmologia eraclitea, che non può prescindere a sua volta dall’interpretazione nietzscheana, fa di pòlemos una necessità terribile, ineludibile, un destino che non può essere fuggito. Ciò si presenta inoltre con le caratteristiche dell’impersonalità e dell’indifferenza cosmica: il tempo (aiòn, non chrònos) è un bambino che gioca coi dadi, sposta i pezzi sulla scacchiera in maniera del tutto innocente. Il celebre frammento 52 sul tempo-fanciullo non poteva non impressionare Nietzsche: solo il gioco e l’arte nella loro genuina attività insieme costruttiva e distruttiva, del tutto extramorale, possono rendere conto della necessità cosmica. Nessun sentimento, nessuna commozione o pietas, né tanto meno una qualche preoccupazione etica possono così sgorgare da una tale concezione: Eraclito viene dipinto da Nietzsche come “un astro privo di atmosfera”, il suo sguardo spento, glaciale. Egli non è il salvatore degli uomini dalle catene della necessità, al più è l’oracolo inascoltato che pronuncia parole di verità – e la verità può anche suonare terribile e insopportabile se non si è capaci di contemplarla con l’occhio del lògos.

Siamo così tornati al tema dell'”immemorialità” – il da sempre cosmologico che prelude ad un per sempre necessitante dalle cui catene risulta impossibile liberarsi. Abbiamo visto, tramite rapidi cenni al pensiero di alcuni filosofi presocratici, come il concetto di éris o di pòlemos (cui si potrebbe anche aggiungere il nèikos – la contesa – di Empedocle), riconducibili tutti alla categoria generale di “conflitto”, siano centrali nelle loro rispettive cosmologie. Tanto Anassimandro, quanto Eraclito ed Empedocle ci raccomandano di guardare alle cose con oggettivo distacco, con la glacialità ed imperturbabilità proprie dello sguardo logico-concettuale. Di necessità cosmica si tratta, dopo tutto. Ma se sul piano cosmologico appunto, o metafisico, tutto ciò potrebbe non turbarci più di tanto, ben diversamente stanno le cose quando le si osserva dal punto di vista storico-fattuale, etico e psicologico, “umano” insomma. Quando, cioè, si passa dal piano dell’immemorialità a quello della memoria. Se cioè la guerra, con tutto il suo portato di orrori e nefandezze che già non dovevano essere piccoli agli albori della civiltà occidentale, ci appare non tanto come un fatto contingente, e dunque come qualcosa che possa essere corretto, evitato, se non addirittura espunto dal corso storico, bensì come una categoria ineliminabile della natura umana, in quanto discendente da leggi che interessano la natura tout court, la physis, il cosmo, ebbene questo comporta conseguenze piuttosto gravi sulle concezioni storico-antropologiche ed etico-politiche. La constatazione fattuale – vi sono guerre e conflitti tra gli umani – e l’idea cosmologica – pòlemos è necessario e naturale – finiscono per confluire in una costruzione ideologica precisa che investe gli stessi concetti di libertà, cultura, storicità, destino.

E se qualcuno non volesse rimanere incatenato alla ferrea necessità del cosmo?

***

  • Nota bibliografica. Questi i principali testi utilizzati: Eraclito, I frammenti, Marcos y Marcos; I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza; L. Parinetto, Fuoco non fuoco, Mimesis; O. Spengler, Eraclito, Mimesis; F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, Adelphi; R. Laurenti, Introduzione a Talete Anassimandro Anassimene, Laterza; S. Cotta, Dalla guerra alla pace, Rusconi – quest’ultimo in particolare per quanto concerne il concetto di “immemorialità” della guerra. A tal proposito si veda anche J. Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, dove l’autore ritiene la guerra, insieme a religione, amore, violenza, morte, lutto, patria, iniziazione, arte, ecc., uno dei temi senza tempo dell’esistenza umana, e dunque una delle materie essenziali del mito.
  • Il video tratto da youtube – in questo caso utilissimo – mostra in successione I disastri della guerra di Francisco Goya, la celebre quanto straordinaria serie di acqueforti incise dal pittore spagnolo durante le guerre napoleoniche, tra il 1808 e il 1820.
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Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

25 pensieri riguardo “MEMORIA, IMMEMORIALITA’, POLEMOS: note a margine della “verità terribile” di Eraclito”

  1. Ares ^__^

    Che bel post, quel poco che ho capito mi e’ piaciuto, non sto’ ironizzando, devo solo rileggerlo e andare a leggere qualcosina..sigh!.. ma in generale si capisce… che fatica…

    Comunque noto che non ci sono commenti… hihihihihihihih… sono tutti li che ripassano..

  2. In effetti md ci riporta di peso nelle altezze rarefatte della filosofia “pura”, mentre magari ci si aspettava più banalmente (ma la Arendt ci insegna che non si deve mai smettere di riflettere su ciò che sembra banale) uno spunto di discussione sulla Shoah.

    E quindi, come osserva giustamente Ares, c’è bisogno di leggere e rileggere.

    Che la guerra sia un che di “connaturato” all’uomo, mi sembra che grossomodo lo dicano tutti i grandi filosofi moderni (forse con l’unica eccezione di Rousseau), d’altronde l’evidenza storica non permetterebbe altre conclusioni.
    Credo che il grosso discrimine sia tra chi “sanziona” quella naturalità giustificandola e rendendola così immodificabile, e chi ritiene che quella natura non sia un destino, e che possa essere superata.
    Tra i primi metterei Hobbes (parlo della guerra tra le nazioni) e Hegel, per cui il conflitto tra Stati, in quanto “superiorem non recognoscentes”, resta l’unico modo per risolverne i contrasti – sappiamo che addirittura Hegel considera lo Stato “l’ingresso di Dio nel mondo”.
    Tra i secondi principalmente Kant, non a caso autore di un’opera come “Per la pace perpetua”, libro che fece di lui uno dei pensatori censurati durante il terzo Reich.
    Kant non è un'”anima bella”, non crede come Rousseau nella bontà naturale dell’uomo, anzi. La sua diagnosi è esattamente la stessa di Hobbes. Ma è diversa la prognosi. Come è noto egli è il filosofo del “male radicale”, cioè crede che nell’uomo esista una “naturale” tendenza al male. A differenza di Hobbes, ritiene però che questa tendenza possa, e quindi debba, esser vinta. Cioè Kant separa natura e ragione, assegnando alla seconda la possibilità, e perciò il compito, di contrastare la prima, come sfera della libertà contrapposta a quella della necessità naturale. Quindi la pace non è naturale e va pertanto istituita per via giuridica (il pacifismo kantiano è ben poco utopistico), attraverso la creazione di una “società giuridica internazionale”, che è ciò cui si ispirano i vari tentativi che comprendono la Società delle Nazioni, l’ONU, la stessa Unione Europea. E’ solo la legge, vale a dire un diritto internazionale effettivamente rispettato, che secondo Kant potrà darci la pace.
    Ha ragione? Non lo so. Direi che il compito degli uomini di buona volontà è quello di agire “come se” l’avesse.

  3. Salve.
    @Andrea.
    Credo ti renderai conto che ciò di cui parla Kant è puramente utopistico. Non perché l’uomo sia naturalmente tendente al male (cosa che peraltro non vera in assoluto) ma semplicemente perché gli interessi particolari dei gruppi umani che chiamiamo stati (in realtà il discorso può essere granularizzato) hanno il sopravvento su quelli generali di qualsivoglia unione e sempre avranno. L’uomo tende naturalmente a volere il massimo “guadagno” per sé stesso. Ed è per questo che la guerra è sempre esistita e sempre esisterà. Nessun conflitto armato è mai iniziato per il capriccio di qualcuno, ma sempre per accaparrarsi risorse. L’uomo è un animale anche se noi ci illudiamo che il caso (leggi evoluzione) o qualcuno ci abbia messo su un piedistallo. La storia invece ci ha insegnato che siamo capaci di fare di tutto quando i nostri interessi sono messi in discussione o possono trarre un vantaggio dalla situazione.

    A presto.

    Luciano

  4. Ares ^__^

    Il male e’ nella natura dell’uomo… ma non si manifesta invano c’e’ sempre un bisogno da soddisfare, quando si “sceglie” di essere malvagi.. si,si

  5. Ares ^__^

    Giuridicamente si puo’ far molto.. ma secondo me non basta… dipende dalla necessita’ o urgenza che ciascuno ha di soddisfare il bisogno….

  6. Ares ^__^

    Da piccolo durante le colonie estive si andava in gita, non sempre gli educatori era ingrado di capire che dei bambini tra i 6 e gli 8 anni a un certo punto avrebbero avuto bisogno di bere, un mio amichetto aveva una sete pazzesca e si lamentava, io che per un caso fortunato avevo ancora un po’ d’acqua nella mia bottiglietta, pur avendo una sete pazzesca che mi seccava le fauci, cedetti l’acqua residua all’amico, che cominciava a leccare il vetro del pulman che ci trasportava, pur di avere un minimo di sollievo. Un’ora ci separava dal rientro, passai quell’ora in uno stato pessimo.. ora era lui a consolarmi -non potendo far altro – arrivati a destinazione ci precipitammo tutti ai rubiletti dei bagni, l’amichetto in prossimità del lavandino mi spintonò.. riuscendo a bere per primo..non opposi resistenza.

    Che l’origine del male stia dietro ad un errore di valutazione?

  7. Salve.
    @Ares
    Magari eri spossato oppure lui era più aggressivo di te e tu sapevi che se avessi reagito avresti avuto la peggio, chi lo sa? Sta di fatto che il tuo amico per soddisfare il suo bisogno (che era uguale al tuo) e nonostante tu l’avessi aiutato non ci ha pensato un attimo a spingerti da parte per bere per primo. Alla fine si arriva (mi aggangio a quello che hai detto nel commento precedente) sempre alla disputa tra nomos e physis. E’ inevitabile.

    A presto.

    Luciano

  8. @Luciano, non concordo con quel “sempre esisterà”, che tra l’altro non è scientificamente fondato.
    Non si tratta di “piedistallo” – la specie umana è la specie animale che, diversamente dalle altre specie, ha inventato la storia (e tutto ciò che è attinente con essa e che non sto ad enumerare) e dunque ha messo in campo maggiori possibilità di mutazione dei propri comportamenti.
    Oltretutto proprio da un punto di vista “animale” non è detto che ad un certo punto la specie prenderà coscienza del fatto che determinati comportamenti (tra cui la guerra) ne mette a rischio la sopravvivenza.
    E da ultimo, non c’è nessuna disputa reale tra nomos e physis, si tratta di due categorie costruite dal pensiero umano – la cui “disputa” sembra quasi più una messa in scena, e comunque una costruzione di tipo storico. Prova ne sia il fatto che i loro confini sono piuttosto mobili, sia in termini antropologici che, appunto, storici.

  9. Salve.
    @MD
    Io credo che si debba sempre andare alla radice delle cose. Il fatto che qualsiasi essere vivente si difenda (o almeno tenti di farlo) qualora si senta minacciato oppure attacchi per garantirsi le risorse adeguate alla propria sopravvivenza è un dato di fatto, codificato nel DNA, non un prodotto culturale. Lo dimostra il fatto che anche i gruppi animali cerchino, terminate le risorse nel proprio territorio, di prendersele in quello di altri gruppi. La fine di questo, in caso di successo, è la fuga dei vecchi occupanti o la loro uccisione. Stessa cosa dicasi dell’uomo. Noi non abbiamo artigli, zanne e così via e allora abbiamo inventato le armi. La tecnica è una estensione delle capacità fisiche dell’uomo. Supponiamo che per un motivo X rimanesse acqua soltanto in Africa e che i paesi in questione rifiutassero di dividerla con gli altri. Supponiamo che se ne infischiassero del potere deterrente delle nostre ritorsioni economiche prima e militari dopo. Scoppierebbe la guerra, verrebbero attaccati da tutto il nostro potenziale offensivo e messi in condizione di non rialzare la testa. E se l’acqua fosse poca (cioé se bastasse solo per noi) verrebbero sterminati. Può non succedere? Non ne sono sicuro.

    A presto.

    Luciano

  10. Sì però abbiamo inventato anche il linguaggio, il dialogo, l’etica, il diritto (persino quello internazionale), l’arte, la musica, ecc. ecc. – ciò non ci fa migliori degli altri animali, ma certo ci dà qualche chance in più di risolvere i conflitti (pur inevitabili).
    Ma il problema radicale che sollevavo col mio post era se fosse possibile o no distinguere tra “guerra” e “conflitto”.

  11. Salve.
    Sulla nostra animalità/umanità credo sia inutile continuare a discutere. Abbiamo visioni che forse si intersecano a tratti e a tratti sono divergenti.
    Io credo, per quel che riguarda la distinzione di cui parli tra conflitto e guerra, che tutto dipenda dall’interpretazione che tu dai ai due termini di cui uno, guerra è fin troppo chiaro, e l’altro può prestarsi ad interpretazioni molteplici.

    A presto.

    Luciano

  12. Ares ^__^

    Scusate il ritardo di oggi, vedo che la discussione e’ andata gia’ oltre .. faccio un piccolissimo saltino all’indietro.. poi si prosegue:

    Luciano, ricordo come se fosse ieri quell’episodio..per risponderti dico che non opposi resistenza perche’ vissi quell’episodio con prOfonda tristezza, l’amichetto era piuttosto minuto e avrei potuto spazzarlo via con una leggera spinta, sarei riuscito a fargli anche del male se soltanto avessi voluto, quel che mi pietrifico’ fu quel gesto tremendo, che era la sintesi di un tradimento..
    Restai solo tutto il pomeriggio a riflettere sull’accaduto, non capivo, io non l’avrei mai fatto, non capivo come potesse essere possibile una reazione del genere..
    Poi siccome era un amichetto al quale tenevo in particolar modo, perche’ divertente e buffo, spostai la mia attenzione sugli educatori, andai da uno di loro, lo guardai negli occhi e gli dissi: Luca perche’ la prossima volta non portate piu’ acqua, Marco ha leccato il vetro per bere, Luca mi guardo’ e mi liquido’, anche se con gentilezza, come se fosse una fantasia assurda.. mi sentii profondamente solo, perche’ ero confuso non capivo esattamente a chi attribuire la colpa del mio malessere. Tornai a casa e quando vidi mia madre, che mi accolse come al solito a braccia aperte, cominciai a piangere come puo’ piangere un bambino di otto anni e cominciai a colpirla a pugni chiusi dietro la schiena.. lei ovviamente cerco’ di capire quella rabbia e mi fece raccontare l’accaduto, lei non banalizzo’ neanche un attimo il mio racconto, mi disse solo che mi ero comportato bene e che non dovevo piangere e arrabbiarmi, perche’ io non avevo fatto niente di sbagliato e chi aveva sbagliato erano stati gli educatori e l’amichetto Marco.. con il quale mi disse di ingaggiare una discussione chiarificatrice, mi disse litigaci in modo che capisca di aver sbagliato ma non picchiatevi.. mia madre aggiunse che ero stato educato ed era orgogliosa di me.
    Il giorno dopo la discussione con Marco fini’ malissimo, perche’ non volle ammettere il suo torto e oso’ spintonarmi, a quel’atto repplicativo non resistetti, gli diedi uno sganassone che mi auguro ricordi ancora oggi.

    Diciamo che un conflitto e’ possibile, nel momento in cui le controparti siano ingrado di ragionare, e nel momento in cui entrambi abbiano ricevuto dei buoni dettami educativi.. altrimenti e’ guerra! ^__^

  13. Ares ^__^

    E’ chiaro che un conflitto e’ generato da un errore e da qualcuno che quell’errore non l’ha previsto o l’ha generato, prima si individua l’errore, e quindi le cause dello stesso , piu’ facile sara’ moderare il conflitto perche’ non degeneri in una guerra!

  14. Ares ^__^

    ..quale posta in gioco ?!?.. e’ tutta questione di dignita’, educazione e responsabilita’ personale e collettiva… la dignità occidentale, ad esempio, gronda sangue..

  15. Salve.
    Ares, quando in una disputa la posta (gli interessi) in gioco è estremamente alta non c’è dubbio che si arrivi ad uno scontro cruento. Ad esempio se dal bere quando siete arrivati fosse dipesa la tua o la sua vita e ci fosse stato da bere soltanto per uno di voi, non credo che tu saresti rimasto fermo in seguito allo spintone del tuo amico per passare prima di te. E neanche lui avrebbe ceduto. Alla fine vi sareste azzuffati. Ovviamente sto descrivendo una situazione estrema. Ma se tu metti delle persone in una gabbia e non gli dai da mangiare per giorni sta sicuro che i più forti mangeranno i più deboli per sopravvivere, e non in senso metaforico.

    A presto.

    Luciano

  16. Salve.
    Purtroppo credo che la tua sia una pia illusione, basata sul fatto che l’uomo sia influenzato esclusivamente dalla cultura. Ma non è così. Certo, chi ha fede è capace di offrire la propria vita per gli altri, ma qualcun altro ne approfitterà.

    A presto.

    Luciano

  17. Che bello questo articolo! Molto interessante. Credo che nel discorso di Eraclito possano esserci germi benèfici, forse non ancora compresi a fondo. Nel vedere le due facce della medaglia di ogni aspetto c’è infatti l’incoraggiamento a entrare nel logos, a penetrare il velo dell’apparenza per superarlo (e tutto il discorso annesso che ci vorrebbe un trattato); ma anche a un livello più umano è possibile individuare una crescita spirituale che attraverso la consapevolizzazione della necessità dei contrari fino alla tragedia della guerra porti addirittura a una emancipazione personale, a uno svincolarsi dalla necessità storica intesa nel senso aberrante e disumanizzante. Ad esempio nella conoscenza di sé stessi è fondamentale non scandalizzarsi dei propri contrasti ed è auspicabile anzi passarli al vaglio del logos o della coscienza in questo caso. Questa crescita personale potrebbe portare ognuno a non avere più bisogno di guerre. (Infatti le guerre le facciamo noi, non gli stati, i governanti o altre entità astratte…)

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