Lezione spinozista 4 – Schiavi delle passioni?

“Chiamo Schiavitù l’impotenza umana nel moderare e reprimere gli affetti; l’uomo infatti, soggetto ad essi, non è padrone di sé ma in preda alla fortuna in modo tale che a volte è costretto a seguire il peggio anche se vede il meglio”.

Così si apre la parte quarta dell’Etica, intitolata “La schiavitù umana, ossia le forze degli affetti”. Prima però di affrontare questa sezione cruciale dell’opera di Spinoza, dobbiamo ancora guardarci indietro e approfondire alcuni aspetti di quella sorta di “catalogo delle passioni” costituito dalla terza parte. Nelle ultime pagine di questa sezione, Spinoza ci fornisce infatti una vera e propria classificazione genealogica degli “affetti” (en passant, sulle stesse traduzioni e accezioni dei termini utilizzati possono nascere alcuni problemi: Spinoza utilizza affetto – il latino affectus – ma poi anche affezione, affectio, e passione, passio – in realtà l’uso di questi termini viene chiarito fin dall’inizio della terza parte, che si apre, come di consueto, con alcune preventive Definizioni).
Il nodo essenziale, come già abbiamo rilevato nella “lezione” 3, è il concetto di Desiderio – la Cupiditas – “essenza stessa dell’uomo”.

Spinoza opera una sorta di movimento alterno, ora riduttivo ora dilatativo, secondo cui gli umani sono definiti e circoscritti dai tre affetti fondamentali (desiderio, letizia, tristezza) che però comportano nel loro mescolarsi interno ed interagire esterno una vera e propria complicatio che talvolta sfugge all’analisi: “potremo dedurre più affetti – sostiene Spinoza – di quanti le parole d’uso corrente non indichino per solito. Dal che appare evidente che i nomi degli affetti sono stati inventati più dalla pratica comune che da un’accurata conoscenza di essi” (Sc.prop.LII).
Occorre inoltre fermare l’attenzione sul termine passaggio (transitio, si veda in proposito la Spiegazione circa la Definizione degli affetti), con il quale viene caratterizzato il continuo oscillare e fluttuare dell’ente umano da uno stato all’altro, con quel segno di più o meno in termini di perfezione, preda in realtà di un flusso continuo di sensazioni emotive.
Dopo aver ripartito gli affetti in due aree (quelli relativi alla coppia letizia/tristezza e quelli relativi al desiderio), così Spinoza ricava la definizione generale dei sentimenti (il termine utilizzato è sempre affectus):

“L’affetto, detto Patema d’animo, è un’idea confusa con cui la Mente afferma una forza di esistere del proprio Corpo o di una sua parte, maggiore o minore di prima e, data la quale, la Mente stessa è determinata a pensare una cosa piuttosto che un’altra”.

Emerge dunque anche qui un’oscillazione: siamo “preda” dei sentimenti, e in questo essere agiti dalle medesime forze che ci costituiscono, transitiamo in continuazione, senza requie, dall’una all’altra. Le affezioni sono così spesso contrastanti “che l’uomo è trascinato in diverse direzioni e non sa da che parte volgersi”.
Emerge anche quello che a mio parere è un punto chiave della forza filosofica di Spinoza: la sua netta presa di distanza da tutta quella tradizione filosofica idealistica e razionalistica che aveva sempre considerato l’essere umano in primis come dotato di ragione, di anima, in grado di autocontrollo, con una precisa gerarchia costitutiva (si pensi a Platone o alla tripartizione aristotelica) – ed il suo ricollocarsi lungo la linea materialistica e terrestre che deriva in parte da Democrito ed Epicuro, e che è sempre stata una sorta di filosofia di “serie B”, anche se, per fortuna, dura a morire.
Spinoza ci dice una cosa essenziale: prima di porsi il compito della gestione razionale (ancorché illusoria) delle passioni, occorre fissarle e guardarle in faccia, conoscerle e penetrarle – cioè simulare una forma di distacco da sé per guardarsi con gli occhi “geometrici” della ragione. Autoscrutarsi ed autoanalizzarsi per generare una sorta di “geometria delle passioni”. Ma servirà davvero a qualcosa questo “uscire da sé” – dal nucleo più profondo di sé, quello più sostanziale, “animale”, terrestre? O non sarà uno sdoppiamento inutile, visto che comunque la ragione non sembra poter intervenire granché su quella che ci viene presentata come una “configurazione naturale” del nostro essere?
Ad ogni modo, pare suggerirci il buon Spinoza, prima di dannarci l’anima con queste domande, e prima ancora di parlare di “libertà dalle passioni”, o di libertà tout court, proviamo ad esaminarle queste affezioni da cui siamo abitati e di cui siamo costantemente preda. E magari si potrebbe cominciare da una doppia coppia piuttosto significativa: ammirazione/disprezzo, amore/odio. Che cosa si annida davvero dietro queste parole? Quali cose dietro le loro scorze?

(continua…)

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Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

3 pensieri riguardo “Lezione spinozista 4 – Schiavi delle passioni?”

  1. @Md
    A proposito di: Desiderio – la Cupiditas – “essenza stessa dell’uomo”, potremmo dire che è l’eccesso di desiderio la questione sostanziale. Il desiderio fisiologico è la molla che tiene in vita ogni essere vivente, mentre il suo tracimare (tipico dell’uomo) porta alla rovina. Orazio consigliava l’Aurea mediocritas (voce nel deserto). L’armonia nel pensiero di Eraclito, definito l’oscuro da Aristotele, stimolava l’uomo alla riflessione sul tema. La dicotomia uomo ideale – uomo reale ci ricorda che, in realtà, siamo solo “scimmioni intelligenti” (dal libro di Giorello e Boncinelli Ed. Rizzoli).

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