Il pieno transindividuale: tentativo numero 3 di definire la felicità (con qualche incursione nel misticismo e nella geometria)

tetraedro

Tutto è eguale per dio
Non v’è divario in dio: tutto gli è uno.
A te come alla mosca si partecipa.

Più esci da te, più dio entra in te
Più ti svuoti di te e fuori ti versi,
più la deità di dio si versa in te.

L’uomo è ogni cosa.
Se una gliene manca,
è che non sa qual sia la sua ricchezza.

(Angelus Silesius)

Dopo la felicità e la gioia, provo a definire un sentimento contiguo a quelli, cui però mi risulta difficile attribuire un nome: pienezza vitale? compiutezza? perfezione? plenitudine? … Si tratta di qualcosa che ha a che fare con il pieno, da intendersi non tanto come contrapposizione al vuoto esistenziale (quello brevemente illustrato nel post precedente), e nemmeno come autorealizzazione individuale, compimento di sé o simili, ma come sentimento della profonda connessione che lega tutti gli enti, viventi e non viventi – sentimento che a mio avviso lascia aperta la possibilità di un suo successivo utilizzo progettuale e razionale. Parlo di quella tonalità emotiva ed esistenziale che si manifesta più chiaramente nella pietas e nella sympàtheia nei confronti del simile vivente, ma che è ancor più radicale, perché ha a che fare con la totalità, con l’assoluto, con l’eterno – si intendano questi concetti non in maniera enfatica o irrazionale, ma semplicemente come la modalità attraverso cui si percepiscono insieme: a) tutto ciò che sta al di là della nostra finitezza, oltre i confini del nostro corpo, b) la relazione, o meglio la rete di relazioni che questi confini attraversa e stringe in unità.
Si giunge in tal modo alle radici dell’essere, si sente di essere tanto quanto ogni altro ente, ogni altra cosa; si è mentre si sente di essere e si sente di essere mentre si è – ma non si è qualcosa, non si è questo o quello, io o un altro – semplicemente si è. Non si è nemmeno heideggerianamente gettati – ex-sistendo, cioè stando fuori dal mondo, perché in questo caso la tonalità emotiva congiunge, non separa. E’ un sentire che ci conduce in una zona (pericolosamente) in odore di misticismo. E’ proprio la pienezza mistica che assomiglia ancor più pericolosamente alla gloria, allo splendore, alla santità, ma anche alle loro protuberanze razionali plotiniane o spinoziste.

In verità vorrei dare a questa forma di sentire una base un po’ più razionale e meno sfuggente. Sarà come costruire la base di un tetraedro, dal quale si vedranno poi emergere tre diverse facce, che però trovano fondamento in un terreno comune. Un possibile punto di partenza sta in quello che io trovo un geniale suggerimento ontologico: il filosofo che per primo portò la filosofia tra i barbari ateniesi – l’empio e sottile Anassagora – ci invita a considerare ogni cosa come costituita e costitutiva di ogni altra cosa:

“… le parti del grande e del piccolo sono uguali in quantità, e così tutto potrà essere in ogni cosa. Né è possibile un’esistenza indipendente, ma ogni cosa partecipa del tutto. Dal momento che non può esistere il minimo, niente potrebbe avere esistenza separata, né sussistere per suo conto, ma proprio come in principio anche ora ogni cosa insieme […] Non sono separate le une dalle altre le cose nell’unico ordine dell’universo, né sono tagliate con una scure […] e infatti nello stesso seme vi sono capelli, unghie, vene, arterie, nervi ed ossa e sono invisibili a causa della piccolezza delle parti […] nel tutto vi è parte di ogni cosa”.

Questa teoria, nota come teoria delle omeomerie (il termine è aristotelico), cioè dei semi (spermata) originari e infiniti di cui tutte le cose sono fatte, si basa sul principio logico dell’impossibilità del nihil ex nihilo: nessuna cosa nasce o muore ma tutto si compone e si scompone. Il nous, unico elemento non mescolato a tutti gli altri ma solo ad alcuni, è principio del movimento e della conoscenza, una sorta di forza regolatrice ed ordinatrice delle cose – niente affatto un principio spirituale trascendente, da intendersi in termini finalistici (non c’è qui nessun progetto o disegno). Ogni ente è così fatto della sostanza variopinta di cui partecipa ogni altro ente, non solo quantità come avrebbero voluto gli atomisti, ma qualità; non un mondo in bianco e nero, ma a colori, come con azzecatissima metafora scrive Franco Trabattoni; io sono albero, animale, oggetto, colore, cielo, acqua, calore, carne… ma ognuna di queste cose è fatta di tutte le altre, solo, in diversa proporzione e secondo modalità compositive differenti.

Non può non saltare all’occhio come questa teoria, pur con tutte le cautele storiche e pur guardinghi nei confronti di frettolosi paralleli anacronistici, possa essere avvicinata alla linea “mistico-panteistica” che da Plotino e dal neoplatonismo conduce, attraverso i mistici tedeschi, fino a Spinoza e a certe correnti del romanticismo tedesco, per non parlare del buddismo o del taoismo. Metabasi in altro genere non vuol dire soltanto decontestualizzare arbitrariamente, ma anche far fiorire un seme in un nuovo terreno – o, se si vuole, giocare in modo alchemico con gli elementi. L‘intuizione intellettuale di Plotino, la unio mystica di Eckart, Böhme e di Silesius, l’amor dei intellectualis spinozista, sono tutte concezioni che tendono ad avere una visione totalizzante del mondo, entro cui tutti gli enti assumono significato alla luce del loro essere parte di un tutto. E il sentimento di pienezza, il sentire di far parte di questa totalità, che non sarebbe un tutto senza alcuna parte e la cui parte non avrebbe senso senza la connessione con il tutto, è considerabile come un vertice emotivo e, ad un tempo, conoscitivo. Anche la scienza, laddove deponesse la sua maniacale tendenza a triturare e a fare a pezzi l’essere e rammentasse che non c’è parte senza l’uno, e viceversa – sarebbe la gioiosa e plenitudinaria considerazione del mondo, della natura, degli enti: non c’è infatti nulla di algido o di alieno nel carbonio, nel dna o nella fisica quantistica – dato che si tratta dei semi di cui siamo costituiti.
Sono anzi fermamente convinto che tale sentimento di pienezza – di comunanza e di sympàtheia integrale con il vivente, gli enti, l’essere multiforme – non solo non disdegna la scienza, la razionalità e la pulsione conoscitiva, ma può finanche diventare un progetto antropologico-politico, qualcosa cioè che vada al di là dell’emotività individuale e che possa essere condiviso con gli altri, una sorta di piano etico, di neorinascimento, un nuovo modo di intendere l’essere, uno stile di vita alternativo a quello distruttivo, gerarchico e guerrafondaio per lo più in voga – che faccia fuori l’individualità così come è stata (male) intesa finora e che si dispieghi ad un livello davvero transindividuale.

Va poi rilevato un tratto comune tra questo senso di pienezza e la noia: da un certo punto di vista il vuoto e il pieno sono anzi il medesimo svuotamento. Nel primo caso tutti i contorni delle cose sfumano, fino a diventare insignificanti – nulla ha più senso, l’angoscia e la morte sembrano le uniche vere possibilità dell’esistenza. Forse questa deve essere un’esperienza preliminare ineludibile (del tutto individuale, non emotivamente condivisibile, anche se comunicabile). Ma anche l’altro percorso – quello apparentemente inverso – richiede uno svuotamento che dia accesso al pieno del con-essere, con-esistere, del ritrovare tutto in tutto, cioè il significato di ogni cosa, compreso innanzitutto se stessi, in tutte le altre. Ecco perché la lezione mistica ci può tornare utile.

La figura del tetraedro poco fa evocata può costituire una metafora sintetica e conclusiva: la base ontologica (tutto è in tutto: la lezione di Anassagora); la faccia mistica, materialisticamente intesa (un pan-teismo immanente e senza theos, forse un ossimoro); quella scientifica, depurata del senso di onnipotenza; infine quella etica, che trae dalle concezioni precedenti la vera e unica lezione che conta: tutti gli enti hanno la medesima dignità di essere e di esistere, e sono profondamente correlati tra di loro, e maggiore è il livello di coscienza maggiore il livello di responsabilità.
Ma dove stanno la felicità, la gioia, la pienezza in tutta questa astrusa costruzione? Ho ipotizzato che possa trovarsi in un luogo forse irraggiungibile: il vertice del tetraedro!

***

Silesius(Gli epigrammi sopra riportati sono tratti da: Angelus Silesius, L’altro io di Dio, Mimesis, 1993, una raccolta di oltre 400 epigrammi dal Viatore cherubico curata e tradotta da Luciano Parinetto, non certo sospettabile di misticismo o di teismo! Johannes Scheffler, autoribattezzatosi Angelus Silesius, è uno dei più noti mistici seicenteschi, la cui originalità non sta tanto nei materiali cui attinge, in gran parte farina del sacco di Meister Eckart o di Jacob Böhme, quanto nella forma poetica che conferisce loro: epigrammi/aforismi fulminanti per bellezza e profondità concettuale, che Parinetto coniuga, nello stile che gli è consueto, alle tematiche dialettiche, marxiane e rivoluzionarie).

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

16 pensieri riguardo “Il pieno transindividuale: tentativo numero 3 di definire la felicità (con qualche incursione nel misticismo e nella geometria)”

  1. Caspita, riprendi un argomento da due anni prima…
    Difatti, sulla felicità non avevo letto nulla, non ero andato così indietro nel tuo blog.
    Io risponderò a mio modo (come potrei fare altrimenti?). Visto che tu stesso accosti o quasi contrapponi felicità a pienezza di vita, non posso che riprendere delle riflessioni che avevo fatto prorpio sul rapporto tra questi due termini.
    La mia conclusione, detta con la mia consueta diciamo perentorietà, è che si abusi del termine felicità. Io propenderei per usare l’espressione pienezza di vita. Qui, per rimanere nel quadro che avevo tracciato nei miei commenti al precedente post, non si tratta di scoprire un significato che c’è dato, come qualcosa di esternamente determinato, ma invece “politicamente” definire quale sia il termine che preferiamo, quindi ionfine esprimere un punto di vista.
    Il mio punto di vista è appunto che la felicità sia un falso obiettivo della vita. Nessuno potrebbe certo dire di non volere essere felice, ma dire che la felicità sia il fine della vita implicherebbe l’opportunità di fare della propria vita la ricerca della felicità. E’ questo l’aspetto su cui non concordo: secondo me, la vita è fatta di tutto, di momenti migliori e di momenti peggiori, e che dobbiamo accettare anche sofferenze, momenti comunque di non-felicità, senza ritrarci di fronte ad essi. Con pienezza di vita, invece, esprimiamo questa voglia di bere il calice sino in fondo, a qualsiasi costo, di rifiutare di attraversare questo mondo sena volere sperimentare, sia che questo implichi piacere, gioia, felicità, sia che implichi sofferenza, anche questa parte costitutiva ed ineliminabile di questa nostra avventura terrena, per ricongiungerci, nella mia visione panteistica, al tutto da cui non ci siamo in fondo mai separati (mai sono nato e mai morirò): grande Anassagora!

  2. Accidenti Vincenzo, per una volta sono d’accordo (quasi) su tutto! E non va bene, che sennò poi ci attaccano di manierismo e qualcuno potrebbe gioirne…
    Ho già nostalgia delle epiche battaglie concettuali, ma forse è il caso di rinviare a giornate un po’ più fresche…

  3. Ho riletto i commenti che ho scritto due anni fa (due anni fa!) in Eudaimonia, e mi sono sorpresa di scoprire come, gira e rigira, il mio sentire non sia cambiato di molto. (Forse il mio modo di esprimermi, quello sì. Anche in peggio e poco importa. Due anni fa fluivo diversamente. Ma essere diversamente abili – come dice anna – fa parte della condizione umana ed inoltre può variare nel corso del tempo. C’è poco di cui annoiarsi, insomma. La vita è meravigliosa.)
    Oggi però non mi chiederei affatto se sono “felice”. Come ha già espresso così opportunamente Vincenzo (apprezzo molto il suo commento) anche a me sembra la domanda sbagliata.
    Oggi però fortemente mi chiedo se sono “contenta”. Credo sia la domanda più corretta.
    La felicità infatti può essere un sentimento eccezionale, raro, che può capitare o meno, che potrei desiderare, ricercare e non raggiungere. E soprattutto è qualcosa di esterno, che dipende da causalità esterne ed esteriori.
    Essere contenti invece è una disposizione dell’animo. L’animo, se lo vuole, si dispone ad essere contento e semplicemente lo è, senza alcun bisogno di oggetti esterni ad esso. Quindi potrei dire che la contentezza sia una virtù. Mi sembra che i mistici di tutti i tempi la considerassero tale, ecc.
    Bisognerebbe poi scoprire se sia possibile tener fermo questo stato in ogni condizione. Probabilmente è altalenante come ogni cosa, e credo ci si debba applicare.
    Ma se qualcuno, ad esempio, scopre di avere un tumore, può essere ugualmente contento? Di avere un tumore solo, per il momento, e non ancora due?
    Nel qual caso la contentezza sarà un po’ più difficile da recuperare, ma non è detto che sia impossibile. Provare per credere?
    Ma per tutti gli altri, quelli che sono sani e stanno bene, la contentezza è un dovere morale non troppo difficile da tradurre in pratica.
    Essere contenti però somiglia molto ad “accontentarsi”, termine che nel nostro mondo edonistico ha assunto una valenza negativa. Significativa la canzone di Ligabue che diceva “chi si accontenta gode, ma gode poco”, cantata da generazioni che non si accontentano, che vogliono godere di più, e che alla fine soffrono proprio perché non possono godere di più. Che infatti c’è da chiedersi se ci sia un limite al di più? O il di più vuole il di più e il di più ancora il di più?
    A pensarci bene è la solita vecchia storia del bicchiere (o calice) mezzo vuoto o mezzo pieno. Devo soffrire perché il bicchiere non è abbastanza pieno o gioire per il pieno che c’è? E magari , non è detto, anche soffrire per il pieno che c’è.
    Per concludere: se possibile,almeno per quello che può dipendere da noi, in quel bicchiere mettiamoci vino buono, anche se poco. Anche perché bere troppo non fa bene alla salute. E se – invece del vino – acqua, acqua pura, acqua chiara? Tanto meglio.

  4. md: questo post è meraviglioso!!! (che desta meraviglia, ammirazione; meraviglia: sentimento improvviso di viva sorpresa per cosa nuova e straordinaria, o inattesa). Nei giorni scorsi non sono riuscita ad accendere il computer e stasera…

  5. grazie anna!
    (non questo, ma il tuo commento successivo – quello all’aforisma – è il numero 5000 dall’apertura del blog… meriti un premio, spero ti accontenterai della buona notte!)

  6. Dopo aver letto questo articolo sono andata a letto sorridendo, fuori e dentro. Ho pensato: “queste ali vogliono arrivare molto in alto”, mi è venuto in mente ‘Il gabbiano Jonathan Livingston’, un libricino che avevo letto tutto d’un fiato e con i lacrimoni, di gioia, e ho avuto un flash di Einstein in bici, una foto che avevo visto in un libro di astronomia ( i wormholes legati alle teoria della relatività). Da piccola amavo arrivare in cima ad una salita e poi lasciare che la bici prendesse velocità lungo una dolce discesa. Era fisicamente bello. Questi i pensieri e le immagini che mi hanno accompagnato ieri sera nel mondo del sonno e dei sogni. A quel punto dev’essere arrivato il tuo augurio di buona notte, perchè mi sono addormentata e ho dormito come un ghiro!! Grazie, md! (avevo acceso il computer per rileggere questo post e invece… Ora vado a comprare dei fiorellini e prima di sera …

  7. Oggi finalmente sono riuscita a leggere questo post. Sì, è davvero notevole. Ora lo rileggerò almeno dieci volte meditando su ogni sua parola. La cosa curiosa è che mi era sembrato di averlo già letto ma, quanta disattenzione nella mia prima lettura, come avessi gli occhi ancora pieni di sonno, e li avevo. O forse è che è così “pieno” da necessitare un non breve processo di assimilazione. Devo ammettere che mi ha provocato una grande gioia, come quando da ragazzina mi capitò di leggere Spinoza e piansi appunto dalla gioia. Mi ero sentita, e mi sento davvero fortunata per poter avere accesso e seppure in minima parte comprendere. Come la sensazione di aver ricevuto in dono una grande eredità, stoffe preziose mi avvolgono e non so proprio cosa abbia fatto per meritarmelo e chi debba ringraziare. Ma già ieri sera, non so perché, stavo cantando “grazie alla vita che mi ha dato tanto”.
    Sta piovendo in questo pomeriggio del due d’agosto duemilanove e tutto va bene

  8. @anna e @milena
    mi vien da pensare che c’è molto da imparare dal modo “femminile” (mi si perdoni la semplificazione) di recepire, percepire e pensare le cose.
    Piangere di gioia: ecco, in una giornata come questa – il 2 agosto, con tutti quei morti 29 anni fa, e una visita angosciosa all’ospedale questa mattina, che però mi è stata restituita con sorrisi larghi di conforto (a me, che per ora son sano e non rischio la vita!) – beh, non mi resta che fermarmi, e rimanere in ascolto, e dire a mia volta grazie, a voi e alla vita…

  9. Ieri sera ripensavo al mio commento; forse ‘armonia’ e ‘benessere’ non c’entrano nulla con la pienezza vitale. Sono due tetraedri ‘incastrati’, uno con il vertice in alto, che suggerisce un moto ascendente (verso il pensiero?) e l’altro con il vertice in basso, un moto discendente (verso la materia?). Pensiero e materia (l’estensione): i due attributi di dio che noi conosciamo secondo Spinoza. Le basi dei tetraedri suggeriscono un’apertura verso l’ ‘esterno’, gli altri enti, viventi e non. Nella ‘sezione’ in cui si uniscono i due tetraedri c’è qualcosa che ha a che fare con “quella tonalità emotiva ed esistenziale che si manifesta più chiaramente nella pietas e nella sympàtheia nei confronti del simile vivente, ma che è ancora più radicale, perchè ha a che fare con la totalità”. Allora la pienezza vitale (“il sentimento di profonda connessione che lega tutti gli enti”, quel sentimento di “comunanza e di sympàtheia ‘integrale’ con il vivente, l’essere multiforme” coinvolge il piano conoscitivo ma anche ‘fisico’ e ‘sentimentale’ (corpo, cuore e mente! ancora?). E la felicità, la gioia? Non ho ancora letto gli altri post! Ora vado a studiare. Buona settimana!!

  10. @anna: il prossimo anno scolastico, se tutto andrà secondo piani e intenzioni, parteciperò ad un progetto della scuola elementare di Rescalda su orti, giardini e simili (se non erro si chiamerà “Ci vuole un fiore”) – pensavo di lavorare molto sul giardino come metafora (e non solo) dell’esistenza, ma non disdegnerei nemmeno un po’ di sana manualità vegetale…

  11. Anna, carissima, ciao. Sì, sono io. Solo adesso riesco a sedermi e dedicarmi un po’ allo scribacchinaggio. Forse ho qualche ora di tempo libero dai lavori manuali che si sono accumulati all’ultimo momento e che devo concludere se voglio partire per il mare. Sono diventata così lenta in tutto ciò che faccio, sia scrivere che lavorare, che non so come me la potrò cavare. Ieri m’è occorso quasi un giorno intero per buttar giù neanche due paginette. Fin da ieri mi ero segnata di dirti che non sai quanto sia felice che fra i frequentatori di questo blog vi sia finalmente una donna, una donna con la quale sento di avere delle affinità, che molte volte in passato avevo avuto la sensazione di sentirmi in minoranza, per quanto il padrone di casa qui sia un moderatore sensibile e corretto.
    Devo dirti poi che la moderazione è il mio chiodo fisso in questo momento, per cui sono contenta che ci sia il lavoro a limitare la mia attività mentale e viceversa, anche se quando lavoro manualmente non per questo la mente riesce a stare ferma e ad occuparsi soltanto di quello che sta facendo.
    Leggendo il tuo commento di ieri, in particolare quando dici “è auspicabile per i bambini vivere direttamente lo svuotamento della mente dai pensieri, dalla parte ‘razionale’ per giungere ad una conoscenza intuitiva, contemplativa” ecc. , non ho potuto non pensare a quante filosofie e religioni orientali ed occidentali abbiano cercato un modo per fermare il flusso dei pensieri o perlomeno per dominarlo. Il fatto è che dal momento in cui usciamo dall’incoscienza (o dall’innocenza(!) siamo soggetti ad un moto crescente di presa di coscienza che credo sia quasi praticamente impossibile da arrestare. Possediamo uno strumento potente che può fare anche molto male se usato in modo improprio (la mente), che funziona all’incirca come un calcolatore e tutto sta nel conoscerlo ed imparare ad usarlo nel modo più opportuno ed adeguato. E’ come un fiume che scorre e al quale, per esempio, occorre mettere degli argini, o canalizzare le sue acque in modo che siano benefiche e non nocive per la terra. Poi, come per tutti i fiumi ci sono momenti di piena o di secca. E poi naturalmente i corsi d’acqua non sono tutti eguali. Ci sono rigagnoli o torrenti impetuosi, e i placidi fiumi delle grandi valli. Tutti quanti loro però scorrono scorrono e vanno verso il mare, verso l’oceano.
    Non sai quante volte ho desiderato che questo flusso si fermasse, e quante cose ho cercato di fare per trovare il modo di arrestarlo. Niente da fare, non funziona. Più ti protendi e ostini verso una cosa più quella si allontana. Di quando in quando un po’ d’oblio ti concede un attimo di pausa, di tregua, ma poi tutto ritorna come sempre. La vita stessa è questa cosa, finché è vita. Possiamo noi interrompere il percorso della vita? Non sta a me deciderlo. Per quanto mi riguarda la lascerò andare e la ringrazierò per quello che mi dona. Ho fiducia. Voglio avere fiducia perché non averla mi gioverebbe di meno.
    Una mente contemplativa potrebbe essere un traguardo, credo, non un punto di partenza, anche se in qualcuno possono esistere inclinazioni innate verso questa modalità dell’essere. Ma in genere, siamo soggetti a cicli naturali per cui quando uno è giovane ha bisogno di fare certe cose che non farà da adulto o da vecchio. Perché anche la potenza della natura si esprime attraverso ognuno di noi ed ha bisogno di fare il suo corso. Quando uno è giovane, per esempio, ha bisogno di fare esperienza, mentre quando sarà più maturo sarà più portato a rielaborane i significati, magari a rimediare o correggere la rotta, e quando sarà più in là negli anni, beh, un bel samadhi ci potrebbe anche stare.
    Perché, detto tra noi, se tutti fossimo perennemente in uno stato di samadhi, chi si occuperebbe di fare la spesa?

    Che per i bambini sarebbe meglio vivere in ambienti sani, sereni, ricchi di verde e fiori, non lo si può negare, e non solo per i bambini ma per tutti. Sarebbe bello ma non sempre è così e molto spesso si vive molto male. Spero che ognuno di noi ogni giorno riesca a fare qualcosa per migliorare. Ma farlo davvero, non solo sperare.

    Per quanto riguarda il vertice del tetraedro, devo dirti che anche a me il vertice non sembra il punto più importante, perché per fare un vertice occorre tutto il resto, che se anche solo una piccola parte mancasse non ci sarebbe alcun vertice. Affatto.
    Io sono più propensa a credere che la parte più importante potrebbe essere il centro, o il cuore, non inteso nel senso romantico del termine, ma come luogo/non-luogo/in ogni luogo dove ogni cosa si congiunge, unisce, tiene insieme, e da cui partono tutte le diramazioni.

    Sento il bisogno di scrivere qualcosa a Mario ma ormai il tempo che avevo deciso di dedicare alla scrittura è trascorso. Per il momento gli dico soltanto che gli sono vicina e lo abbraccio. Un abbraccio anche ad Anna, naturalmente, e a presto

    (ho scritto questa paginetta prima di aggiornarmi sui nuovi commenti apparsi nel blog. Pardon!)

  12. ciao, milena. mi ha fatto moltissimo piacere leggere questo commento!! anch’io ho poco tempo libero in questi giorni. direi che anche della vita non si butta nulla: la spesa, la contemplazione, il bucato, il rilassamento, la lettura,il sonno, le pulizie, la musica, l’amicizia,gli affetti, (per chi lo vive) l’amore, i colori, il giardinaggio, la gioia, il dolore (che si può vivere, comprendere e trasformare) e così via… Un abbraccio e buone vacanze!!

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