Mi ritrovo sempre più spesso a raccomandare ai ragazzi che frequentano la biblioteca dove lavoro, di cercare di essere più generosi. Lo trovo più importante di qualsiasi altra predica, anche perché può essere facilmente comunicato attraverso la prassi e l’esempio (con il che, però, ci si espone ad una precisa responsabilità e ad una facile verifica sul campo). Intendo quel termine – generosità – in maniera un po’ generica: una disposizione di apertura al mondo in senso lato, intesa a volersi mettere in gioco, a dare senza necessariamente ricevere nulla in cambio. Un flusso che va dall’interno all’esterno e che richiede di essere pronti ad impiegare se non addirittura a “sprecare” i propri talenti. Forse il termine che più si avvicina a quel che intendo è il francese dépense, concetto utilizzato ampiamente da Bataille (e traducibile all’ingrosso con un bruttissimo “dispendio”, oppure, con un giro di parole, “non badare a spese”), volto ad indicare quella sfera pulsionale contraria alla dinamica dell’utile e dell’accumulazione (non solo capitalistica).
Nel caso però dei giovani cui mi rivolgo (che sono determinati e in carne ed ossa, e non i rappresentanti generici dell’intera quanto fumosa generazione dei 12-20enni), si tratta ancor più di invitarli a vincere l’inerzia e la pigrizia da cui sono costantemente attanagliati, dovute più che al possesso delle cose accumulate, al loro uso/abuso, e forse anche alla mancanza di esempi convincenti. Prede anche loro, come tanti adulti, di una sorta di diffusa e sistematica accidia – uno dei sette vizi capitali, se non erro!
Sì, perché chi dovrebbe insegnar loro la “generosità” – la disposizione positiva nei confronti del mondo, lo spendersi, l’uscire da sé, l’ampliarsi, l’entrare in relazione, ancor prima del “donare” – è sempre più spesso a sua volta attanagliato da una sorta di sentimento contrario, anche se non simmetrico, che Spinoza identifica in maniera molto precisa nella sua Etica e che definisce abjectio.
La difficoltà sta da una parte nel tradurlo in qualcosa di concettualmente comprensibile per noi adulti (molto meno per loro che ancora non lo sono, né vorrebbero esserlo mai), e dall’altra nel metterlo socialmente ed eticamente alla prova all’interno del discorso che sto qui imbastendo. Ma partiamo dal testo, come sempre, e ricominciamo dall’inizio.
Dedichiamoci prima alla generosità.
Spinoza riduce “le azioni degli affetti che si riferiscono alla Mente in quanto intende” alla forza d’animo (fortitudo=coraggio, pazienza), che distingue in fermezza (animositas=coraggio, energia) e, appunto, generosità (generositas=magnanimità). Cioè: in quanto noi agiamo razionalmente, desideriamo fermamente conservare il nostro essere in primo luogo, e desideriamo altresì giovare generosamente agli altri uomini e, insieme, farceli amici. Convergono qui due forme dell’utile: il proprio e quello altrui (ne ho già parlato in un post precedente).
Spinoza discute di questi affetti, come già sappiamo, nella terza parte dell’Etica, in quel raffinatissimo “catalogo delle passioni” volto a definire la natura umana e il suo rapporto con la natura tutta. Ma l’affectus della generosità verrà ripreso anche nella quinta parte dell’opera, in due punti che mi sembra importante accennare, soprattutto per quanto verrò a dire tra poco: 1) “riferirsi a quello che c’è di buono in ogni cosa”; 2) nelle ultime due proposizioni, dove fermezza e generosità vengono trasfuse nella beatitudine, che è l’amore verso Dio, cioè verso tutte le cose, in quanto nasce dal terzo genere di conoscenza.
(Ci sarà occasione più avanti di riprendere questi temi, per ora mi interessa fissare l’attenzione solo sulla generosità).
Ma veniamo all’abjectio, su cui (come sempre accade per le passioni tristi), c’è da dire molto di più. Partiamo dalla traduzione e dalla sua efficacia: nelle varie edizioni dell’Etica che ho consultato, c’è chi ha optato per avvilimento (o abbattimento), chi invece in maniera pedissequa, credo erroneamente, ha tradotto abiezione, mentre mi pare che la più azzeccata sia autosvalutazione o disprezzo di sé. Io ne propongo un’altra, meno corretta sul piano esegetico ma più vicina alla sensibilità contemporanea: depressione.
Spinoza oppone l’abiectjo alla superbia (che è un eccesso di autovalutazione, differente però dalla sopravvalutazione e più vicina piuttosto, e curiosamente, all’amor di sé o autocompiacimento), definendola come uno “stimarsi meno del giusto, per tristezza“. Mi sembra fondamentale quell’aggiunta finale (che, non dimentichiamolo, è uno dei due bracci del pendolo attorno a cui tutta la dinamica del desiderio si organizza). Disistima delle proprie possibilità, autoabbassamento, svalutazione di sé, autoafflizione: il sostantivo latino allude al lasciar cadere, all’abbattimento dell’animo; l’aggettivo abiectus è traducibile con basso, depresso; mentre il verbo abicio significa gettar via, buttare, atterrare, sprecare, trascurare, disprezzare.
Ancor più curiosamente Spinoza avvicina l’abjectio all’umiltà, accomunandole per quel loro essere contrarie alla natura umana (molto più propensa alla superbia, che è una manifestazione eccessiva di potenza di agire), e sospettando con grande acume come dietro quegli affetti si possa nascondere tutt’altro, per lo più l’ambizione e l’invidia in sommo grado. Come dire: meglio una superbia esibita (che per lo meno è sempre chiara e rintuzzabile), che una falsa e ipocrita umiltà.
Anch’io sospetto con Spinoza che questa forma di depressione, che si manifesta in un atteggiamento di generale pessimismo sulle possibilità di affermare se stessi, di tendere ad essere quel che si può essere (in tutte le forme e i modi naturali consentiti), sia uno dei motivi principali del congelamento della generosità, così come l’avevo provvisoriamente indicata in apertura. Un flusso lussureggiante di energia volta all’esterno, praticamente inesauribile (spreco e dépense), che però viene sempre più spesso inibito dal virus dell’avvilimento, dell’indebolimento ostentato, dell’auto-commiserazione. Lascia perdere, tanto non ne vale la pena! – sembra dire la voce del depresso, che anziché rattenersi e macerarsi in questa autoafflizione, intossica il mondo attorno a sé, contagiandolo ed abbassandolo a sua volta.
Sembra però non tornare qualcosa da quanto fin qui emerso, soprattutto se applicato alla nostra concreta situazione sociale, ai ragazzi in carne ed ossa di cui sopra: si suol dire che uno dei mali dell’epoca contemporanea sia proprio il narcisismo (l’eccesso di superbia e il rigonfiamento smisurato dell’ego), e dunque perché mai non contrapporgli come contromisura proprio l’umiliazione, l’avvilimento, l’abbassamento e la disistima? Come risponderebbe a questa obiezione Spinoza?
Sappiamo bene che il flusso passionale è quanto di più difficilmente controllabile ci sia, ma sappiamo anche che l’uso della ragione ci consente di convogliare (non tanto di reprimere) le pulsioni finalizzandole al bene, tanto al bene proprio quanto a quello comune. D’altra parte Spinoza riprende il discorso su tale genere di passioni, nella quarta parte dell’Etica, accomunandole e strigliandole rudemente: tanto la superbia quanto l’abjectio, nella loro massima espressione vengono definite “massima impotenza dell’animo” e “massima ignoranza di sé” – e, messi qui nello stesso mazzo, “i superbi e gli abietti sono i più sottomessi agli affetti”.
In particolare poi, secondo quanto abbiamo già accennato, gli avviliti e i depressi sono sempre intenti a considerare solo il lato negativo, i vizi e mai le virtù; sono invidiosi in massimo grado e si rallegrano solo per gli errori altrui; stanno sempre lì a osservare il prossimo per biasimarlo, non certo per correggerlo, e così via. Si tratta insomma di una forma di inferiorizzazione di sé che vorrebbe inferiorizzare il mondo intero, contagiandolo e depotenziandone le capacità e possibilità.
A questo punto – chiudendo il cerchio – non può non entrare in gioco l’arte della paideia: gli adulti dovrebbero mettere al primo posto della loro opera educativa la conversione della naturale disposizione narcisistica in generosità, socialità, tensione all’alterità, senza aver tema di seminare inutilmente – una paura potente da cui Spinoza ci mette sempre in guardia, e che costituisce il terreno più propizio per l’autosvalutazione e la depressione, di sé e del mondo (la campana suona innanzitutto per chi scrive e predica…).
Concludo in maniera atipica, con l’evocazione di una significativa parabola di Gesù, a proposito di talenti (non a caso ho usato quel termine fin dal titolo).
Nonostante abbia qualche riserva sulla metafora utilizzata, forse un po’ troppo vicina alla logica dell’accumulazione per i miei gusti, la parabola dei talenti (raccontata da Matteo 25, 14), ha però il pregio di una ruvida chiarezza, fino al limite estremo della durezza. I due servi che hanno duplicato il capitale di talenti loro assegnato (a ciascuno secondo le proprie possibilità), vengono lodati, mentre il servo che ha ingenerosamente nascosto sotto terra, per paura di perderlo, l’unico talento ricevuto, viene ignominiosamente cacciato. Solo Dio può permettersi di “mietere dove non ha seminato e raccogliere dove non ha sparso”.
Bellissimo questo post sugli ” affetti” fondamentali dell’umanità, sulla forza che ha la ragione di convertire gli eccessi volgendoli al BENE, sia indivisuale che comune.
Ancora una volta Spinoza ha azzeccato, e anche tu nella tua interpretazione e attualizzazione dei termini spinoziani.
Bellissimo questo contatto con i giovani e la possibilità di donare loro qualcosa ( con GENEROSITA’) attraverso l’esempio.
Come sempre però, data la frettolosità della mia lettura, c’è una frase che non ho capito, questa:
(la campana suona innanzitutto per chi scrive e predica…).
grazie Paola;
con quella frase un po’ sibillina intendevo semplicemente me stesso…
Ripensando al titolo e al riferimento alla parabola dei talenti, mi sembra corretto ascrivere al sentimento più umano per eccellenza ,la PAURA, la mancata messa a frutto, da parte del terzo servo, dei talenti ricevuti, ed esemplare la punizione ricevuta , come stimolo a vivere appieno la vita.
Questa era una delle parabole più controverse…
Bello. Sempre il cuore oltre l’ostacolo, mi raccomando.
Non male la citazione biblica; cmq ho come l’impressione che questo genere di concetti piano piano stia passando. Ogni tanto sento parlare di cose del tipo “economia del dono” o cose simili, o “etica del dono” non ricordo. E attenzione, propongo anche un esperimento pratico che sto più o meno inconsapevolmente facendo con un amico: se qualcuno ha un amico che frequenta quotidianamente, e magari ha momenti di pausa durante l’attività giornaliera con questa persona, sperimenti l’atto di offrire il caffè. Una volta tu, un’altra volta lui, e via dicendo, ma attenzione, non deve essere una cosa stabilita in maniera esplicita, convenzionale: cioè chi inizia il “gioco” avrà cura di non comunicare affatto all’altro che si sta giocando a qualcosa; prima o poi l’altro se ne accorgerà da sè, se non altro perchè si sentirà in dovere di offrire il caffè a sua volta!
Ah già, dimenticavo. Chi ha visto Gran Torino sa di cosa parlo. Chi non l’ha visto, beh guardarlo stando attenti soprattutto alla figura del vecchio Clint credo possa insegnare MOLTE cose e dare esempi belli netti di cosa sia tutto sto discorso che sta in questo post, quindi guardatelo.
Ad ogni modo, l’ho visto un paio di mesi fa ad un cineforum di quelli che si organizzano nei cinema con i film della passata stagione: il tizio molto in gamba che ha guidato (maieuticamente credo io) il dibattito post-film ha accennato in maniera credo illuminante al concetto di “virilità del dare”… Tanto per restare sull’evangelico, chi ha orecchie per intendere intenda.
In merito alla traduzione di abjectus boh secondo me abiezione non è poi così malaccio come traduzione: può darsi che un tempo significava proprio quello che voleva dire Spinoza mentre oggi è sinonimo di depravato (inteso come degradato, sceso di grado), cioè che sminuisce o nega i valori che stanno fuori di sè anzichè quelli che stanno dentro di sè come pare sia l’abietto spinoziano. Semmai un traduttore che volesse fare questa scelta dovrebbe specificare l’uso corrente della parola “abietto” e chiarire che in quest’opera non si fa uso della parola secondo questo significato, nulla di più.
saluti
umbe
@umbe
sì, anch’io ho trovato Gran Torino una vera e propria summa filosofico-antropologica del nostro tempo (ne avevo parlato qui);
sulla traduzione di “abjectio”, nulla vieta di usare “abiezione”; io però preferirei altre soluzioni (nessuna delle quali è tuttavia esaustiva) proprio per far emergere il significato, per me prioritario, dell’auto-svalutazione, ché altrimenti il rischio è quello di considerare l’abiectus come genericamente l’ignobile, il vile, lo spregevole.
Curiosità che ho scoperto in giro per dizionari: nell’ascetica cristiana l’abiezione è ritenuta un atteggiamento volontario ed eroico di umiltà – cosa che collima con il discorso critico di Spinoza.
Molto poi ci sarebbe da dire sull’etica del dono – anch’io ne ho sentito parlare in più occasioni (per esempio da Salvatore Natoli), forse bisognerebbe rintracciarne la genealogia antropologica, anche perché il dono ha a che fare tra l’altro con l’esercizio del potere. Insomma, credo sia una faccenda piuttosto complicata.