Quarta cronaca: bambini prospettivisti e (poco) licitazionisti

Li guardo ad uno ad uno e in silenzio mi dico “che belli!”,
un po’ come le gemme sui rami di questi giorni,
e dispero – pensando al mondo che è
e spero – pensando al mondo che può essere.

Ci siamo un po’ allontanati dalla natura (esterna) per dedicarci alla natura (interna) – cercando di non perdere mai di vista il nesso. Dopo qualche vagabondaggio su emozioni, passioni e dintorni, i miei bambini spinozisti sono approdati alle soglie della felicità – del chiedersi cioè che cosa essa sia. Curioso che, quando socraticamente ho posto loro l’esigenza di trovarne una definizione univoca, generale e che valga per tutti, qualcuno, per differenziare tale livello da quello più soggettivo (la mia visione di felicità) abbia utilizzato i termini di paragone grande/piccolo. Un concetto grande di felicità è più ampio, comprensivo e generale di un suo concetto piccolo – mi pare abbastanza ovvio! Abbiamo quindi discusso e condiviso la cosa, e ci siamo accordati che quella che ciascuno di loro avrebbe cercato sarebbe dovuta (o potuta) essere una definizione “grande” di felicità, qualcosa cioè che potesse valere per chiunque altro.
Compito a casa (o per strada o dove pareva a loro): scrivere su un foglio la definizione di felicità. Ed ecco ora, sul mio scrittoio, le 23 definizioni. Il paradosso è che sono sì tutte “grandi” (cioè, dicono tutte qualcosa di universale, o, se si preferisce smorzare i toni, di condiviso dalla specie), ma al contempo dicono tutte cose diverse. Sono, cioè, maledettamente prospettiviste, come se i miei bambini da spinozisti si fossero ora trasformati in nietzscheani impenitenti e relativisti.
Ecco, allora, che cosa ho fatto.

Ho messo al centro della lavagna la parolina magica “felicità”, e ho cominciato a leggere e a commentare con loro le 23 definizioni, trascrivendo per ognuna la parola-chiave, il concetto, il lato prospettico nuovo via via emerso. Nessuno, al momento, si sta preoccupando di ricavarne una sintesi, ma certo prima o poi la questione verrà fuori. L’idea che sto covando è quella di costruire un piccolo albo illustrato (reale o virtuale, è ancora da definire), con tutte le definizioni giustapposte e contrappuntate dai loro disegni – sempre se avranno voglia di lavorarci.

Ma ecco qua, giusto per la cronaca, l’elenco delle definizioni, con [tra parentesi quadre e in corsivo] i concetti-chiave che ne abbiamo ricavato. Purtroppo, la neutralità della trascrizione impoverisce di gran lunga l’espressività del lavoro svolto, sia nella sua resa grafica (alcuni bambini si sono sbizzarriti infatti attraverso la stesura di mappe concettuali o mentali – che ho scoperto essere cose diverse, oltre ad andare molto di moda nell’attuale prassi didattica), sia soprattutto nella rielaborazione orale.

1.
“Felicità per me vuol dire… Un’emozione nuova. Essere rilassati e sempre contenti. Delle esperienze fantastiche e indimenticabili” –  [Novità; memorizzazione delle esperienza; rilassamento]

2.
“E’ una sensazione di benessere, cioè star bene con te stesso e con gli altri” – [Armonia interna ed esterna]

3.
“Piacere. Sentimento. Lo stato d’animo in cui è una persona. Emozione che proviamo” – [Stato d’animo, tonalità emotiva]

4.
“La felicità è un’emozione che si prova, per esempio quando una persona si innamora di un’altra persona. La felicità è una cosa che si prova ma che non si può né toccare né sentire” – [Innamoramento; impalpabilità]

5.
“1. Secondo me la felicità è un modo di esprimere la gioia che hai dentro; 2. E’ un sentimento positivo” – [Dall’interno all’esterno; positivitàquesta duplice dialettica tra interno ed esterno, interiorità ed espressione da una parte, positività e negatività dall’altra, è stata colta molto bene, così come non è sfuggita la possibilità della dissimulazione o del mascheramento]

6.
“Per me è: un sentimento piacevole, mi fa prevenire la tristezza, è anche una cosa che tutti adorano e mi fa essere più gentile” – [Prevenire la tristezza! Gentilezza, socialitàanche il tema dell’empatia è stato colto ed apprezzato]

7.
“Per me la felicità è quando è venerdì perché è l’ultimo giorno di scuola sono felice che è sabato e domenica perché gioco. Anche quando vado all’Auchan perché faccio la spesa e vedo i giochi e gli elettrodomestici” – [Immediatezza; oggetti; gioco – tutto sommato sono stati pochi i bambini che hanno dato peso all’elemento “licitazionista” del desiderio e alla potente sirena delle merci e degli oggetti]

8.
“Qualcosa di bello esprime felicità. Una cosa bella ti fa sentire felice. Un sentimento bello. Un’espressione. Puoi essere felice per: ti è nato un fratello, perché tutti i giorni stai con la famiglia. Puoi essere felice in qualsiasi momento, a parte le situazioni drammatiche. Essere felice non è un sentimento facile da capire. Si capisce quando hai un bel sorriso. Qualche volta puoi decidere di essere felice, a volte non puoi decidere di essere felice. Conclusione: la felicità è un’espressione bella e a volte può avere dei cambiamenti, cioè c’è anche il dispiacere” – [Cosa o sentimento bello; esemplificazione; tempo; espressione esterna; la felicità “accade”, non è una decisione; tentativo molto interessante di sintesi dialettica]

9.
“Per me la felicità vuol dire quando qualcuno è felice. La felicità è quando ridi che sei felice di gioia” – [Gioia, manifestazione corporea]

10.
“Piacere. Il contrario di tristezza. Gioia. Sentimenti (emozioni). Star bene. Senza felicità non c’è vita” – [Pienezza vitale; scopo della vita]

11.
“La felicità è quando una persona è contenta o quando gli è accaduto qualcosa di bello (emozionante). La felicità è tante cose: quando un  animale è contento perché ha preso la sua preda, quando una persona che ami ti regala qualcosa, quando succede un miracolo a qualcuno, oppure quando i tuoi genitori ti hanno comprato un computer…” – [Molteplicità; felicità di x = infelicità di y]

12.
“E’ un sentimento positivo che ti fa sentire bene. E’ una forte emozione. Vivere bene con gli altri amici. Quando non hai niente, tipo non stai male e sei felice” – [Forza; normalità del flusso vitale – notevole che sia stato colto questo aspetto “neutrale” e di “assenza di dolore”; socializzazione]

13.
“E’ un’emozione che si sente quando a una persona gli succede qualcosa di bello” – [Sentire; a me o a chiunque altro…]

14.
“E’ un sentimento che si prova quando hai il piacere, cioè quando ti comprano una cosa che ti piace, quando vuoi ottenere qualcosa e poi la ottieni, o quando provi un sentimento per una persona che ti piace o hai cambiato scuola e hai fatto subito amicizia” – [Desiderio-soddisfazione; piacere]

15.
“Secondo me la felicità è l’emozione più bella perché fa stare bene te e tutte le persone che ti stanno intorno” – [Sympàtheya, condivisione]

16.
“Per me la felicità è un sentimento grande che contiene dei sentimenti più piccoli che mi fanno stare bene” –  [Composizione, fine]

17.
“Io penso che la felicità è un sentimento che ognuno di noi ha dentro di sé” – [Universalità, interiorità]

18.
“Secondo me la felicità è un sentimento che si accende quando sei contento” – [Automatismo]

19.
“Una cosa piacevole. E’ una cosa molto importante. Un sentimento. Felicità è anche un sentimento che sa far stare bene le persone” – [Importanza; socialità]

20.
“Quando qualcuno desidera qualcosa e all’improvviso gli succede, o gliela regalano, la persona che la riceve è felice” – [Desiderio; sorpresa]

21.
“Sentimenti. Contentezza. Emozione che provi quando sei di buon umore. Divertimento. Piacere. Rasserenità – [L’ultimo termine è uno straordinario quanto involontario neologismo; umore]

22.
“La felicità è una passione ed è anche un piacere. Secondo me la felicità non serve sempre, perché se ti muore un tuo parente non devi essere felice, perciò non serve certe volte. La felicità è anche un bellissimo sentimento, perché con quel sentimento si possono creare cose molto belle per esempio: l’amore, la vita, che sono delle cose importanti” – [trovo straordinario che questa bambina abbia introdotto il concetto platonico di poiesis – alludendo alla produzione della/nella bellezza; oltre ad aver tradotto la dialettica felicità/infelicità in quel “non serve”, come se quasi fosse un attrezzo di cui disporre]

23.
“Per me la felicità è il piacere di qualcosa: la vita, i regali, l’amare, la felicità è tutto” [Totalità; scopo della vita? – su quel “tutto” si è accesa un’interessante discussione].

***

Nota: il termine licitazionismo che ho utilizzato nel titolo del post, viene da Romano Màdera (cfr. La filosofia come stile di vita, scritto con L.V. Tarca, ed. B.Mondadori, p. 46), il quale lo mutua dal V canto dell’Inferno di Dante, dove è detto che la regina Semiramide “libito fe’ licito in sua legge” – per cui “licitazionismo” diventa “culto adorante dell’io” e “configurazione culturale che deifica il desiderio e lo fa diventare legge” nell’epoca della mercificazione integrale e del capitale per essenza desiderante, alfa e omega di ogni desiderio e (presunta) felicità.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

17 pensieri riguardo “Quarta cronaca: bambini prospettivisti e (poco) licitazionisti”

  1. ““Per me la felicità è quando è venerdì perché è l’ultimo giorno di scuola sono felice che è sabato e domenica perché gioco. Anche quando vado all’Auchan perché faccio la spesa e vedo i giochi e gli elettrodomestici”

    Da queste affermazioni di intuisce il livello socio-culturale (e aggiungerei affettivo) di provenienza del bambino in questione (che dev’essere piuttosto basso). Sbaglio?

  2. @Paola D.: non proprio, il bambino in questione ha altri tipi di problemi, legati all’apprendimento, e di fatti è uno di quelli che non partecipa direttamente ai nostri incontri.

  3. mi chiedo se la sintesi in una classe di 23 bambini sei riuscito ad ottenerla, oppure vi siete accontentati di quadro variegato, di più colori, e pur sempre bello

  4. come detto altrove, non amo la parola felicità, perchè mi pare ambigua, ma nel presente contesto, la cosa potrebbe considerarsi un vantaggio, come dire una maggiore libertà per giocarci su, come avete fatto.
    Nel merito, mi colpisce il grande uso della parola emozione. Sembra davvero che in questi tempi, probabilmente a causa del bombardamento di stimoli correlati allo sviluppo tecnologico, i nostri ragazzi soffrano di un indebolimento della loro sensibilità, e che quindi valorizzino le emozioni proprio perchè eventi rari, quasi eccezionali. Del resto, anche l’abuso di sostanze psicoattive non è anch’esso correlato alla ricerca di emozioni forti che la vita di ogni giorno sembra lesinare?

  5. @Vincenzo: credo tu abbia colto un aspetto cruciale su cui riflettere (e far riflettere, soprattutto genitori ed educatori).
    Quello emotivo è, in effetti, un continente piuttosto inesplorato, e, al di là di certe inopportune semplificazioni, credo che Umberto Galimberti abbia ragione quando parla di “analfabetismo emotivo” come problema principale delle nuove generazioni.
    Un’inesauribile costellazione di oggetti da desiderare e gestire, mille stimoli (soprattutto visivi e sonori) – ma nessun silenzio o ambiente adeguato nel quale imparare ad esplorare il proprio sé, il proprio sentire.
    Che non vuol dire che i ragazzi non abbiano emozioni (tutt’altro, a volte sono anzi iper-emotivi), ma che faticano a decifrarle in sé e negli altri.

  6. L’alfabetizzazione emotiva è certamente necessaria, oggi come ieri. E come si ottiene? Con la presenza di adulti a loro volta alfabetizzati che sappiano “filtrare” gli stimoli in modo che siano sempre (o quasi) gestibili emotivamente. L’adulto dovrebbe saper stare un passo avanti al bambino (e, diciamo, per inciso, un passo dietro l’adolescente) per permettergli di provare emozioni non soverchianti e soprattutto “dicibili” o narrabili. Se i ragazzi di oggi sembrano carenti nel decifrare le emozioni (proprie e altrui) ci possono essere ragioni che prescindono dalla responsabilità diretta degli adulti che li hanno cresciuti, come il rapido progresso tecnologico o la soverchiante potenza pedagogica della televisione, ad esempio. Ma credo poco alle spiegazioni deresponsabilizzanti. Si dovrebbe cercare di capire cosa è accaduto nel rapporto tra le generazioni, con la crisi del modello asimmetrico (se preferite “patriarcale”). Che era un pessimo modo di formare e crescere (una fabbrica di nevrosi, direbbe uno psicoanalista), non dimentichiamolo. Ma oggi?

  7. A me sembra che i bambini siano molto seri quando giocano. Anzi, non conosco niente di più serio di un bambino che gioca.
    E questo caso ho trovato che si siano impegnati tanto. Non so quanti anni abbiano, ma non mi pare che ai nostri (o miei) tempi alle elementari avevamo avuto modo di riflettere sul significato di parole così importanti.
    Davvero complimenti agli insegnati, ho grandissimo rispetto e gratitudine per il loro lavoro. E complimenti anche ai bambini. Rimango in attesa delle loro risposte.
    Ancora buon lavoro

  8. Mi pare che siamo sostanzialmente d’accordo. Ciononostante, rimango affezionato al modo in cui ho porto originalmente le mie osservazioni. La riduzione della sensibilità c’è, non certo nel senso che essi non possano sentire ma che i modi di convivenza della nostra società ci impongono la predisposizione di filtri potenti per abbattere il rumore che il martellamento mediatico ci impone. Dire che essi non riescano a decifrare ciò che sentono, in questo contesto, non mi appare un concetto chiaro.
    Ho la fortuna di avere alcuni amici figli di contadini, che hanno trascorso la loro infanzia in campagna a condividere la vita dei propri padri e nonni. La cosa che ho notato e mi ha tanto colpito è la loro attenzione generalizzata, a confronto con un’attenzione più selettiva dei “cittadini”. L’ho messa in relazione con le differenti condizioni di vita. Se stai in città, sei oggetto di continui stimoli, e diventa vitale potere filtrare questi stimoli per non essere sommersi, determinando una selettività di ricezione. Se al contrario vivi in campagna, nel silenzio delle campagne, qualunque stormir di foglia diventa significativo: senza rumore di sottofondo, qualunque segnale raggiunge la soglia di rivelabilità. Anzi, in campagna, è fondamentale percepire tutti i possibili segnali per valutare fonti di pericolo di ogni genere.
    Per questo, rimango dell’opinione che senza un intervento sociale sul rumore che ci sommerge, sarà davvero arduo salvare quella sensibilità che ci permette di godere appieno dei doni che la vita ci offre.

  9. Questa mattina, dopo aver scritto la parola rispetto, alla quale ora aggiungo la parola stima (anche se può far ridere perché ricorda quel simpatico comico che dice: ti stimo fratello!) mi è tornato in mente il momento stesso in cui la mia maestra spiegava l’importanza delle parole stima e rispetto in relazione alla parola amore. Amore inteso come agape (oggi posso dire) anche se allora non ne comprendevo appieno il significato e forse mi ero limitata ad immagazzinare il messaggio. Ora però so che è la cosa più preziosa che mi è stata data in quegli primi anni di scuola, in relazione all’educazione che ho ricevuto. Tutto il resto, per quanto utile, al confronto mi sembra non sia stato molto più che polvere. E’ ovvio che le parole poi vadano coltivate, altrimenti (come avrebbe detto la mia maestra) cadono nel “dimenticatoio”, o nell’oblio, altra parola desueta, cosicché ci dimentichiamo persino di aver dimenticato.

    Si parlava del problema dell’eccesso quantitativo di stimoli, ma non mi pare che quello qualitativo lo sia di meno. Riassumo il concetto con l’acrostico GIGO (usato nel settore informatico) che significa “garbage in, garbage out”, letteralmente porcheria in entrata, porcheria in uscita. Anche se da qualche tempo ormai viene tradotto anche con “gospel in, gospel out” dove gospel sta per bibbia: se si inseriscono verità bibliche, verità bibliche si otterranno. Faccio quest’analogia col settore informatico anche se ovviamente il cervello di un bambino non come quello di un computer, no, è più delicato e sensibile, e può assorbire montagne di informazioni al di là delle intenzioni degli educatori e dei genitori più responsabili.

  10. @Milena
    Ed invece per me l’aspetto quantitativo è fondamentale. Proprio utilizzando lo schemo che proponi, se vi aggiungi un filtro passivo, per esempio se riduci la sezione di ingresso nel tubo di input per ridurre il flusso di informazioni, finisci per tagliare anche tanta roba anche preziosa. Per evitare questo disastro, ci dovrebbe essere un intervento a monte: ma chi l’ha detto che esista un diritto sacro a gettare spazzatura nella mente dei ragazzi? Quale follia collettiva ci rende inermi spettatori di questa devastazione delle menti?

  11. Non so, Vincenzo. Però forse dai per scontato che esistono dei filtri ad ogni età. A quale età un bambino incomincia a filtrare le informazioni che riceve? E di quali filtri si sta parlando? Un filtro passivo probabilmente setaccia le informazioni a caso, come dici tu, soltanto a livello quantitativo. Però poi (forse) si mettono in atto anche filtri interessati, nel senso che selezionano alcune informazioni a seconda dell’interesse (con la parola “interesse” intendo bisogno e/o desiderio) che suscitano rispetto ad altre.
    Il problema allora sarebbe: quali interessi gli educatori (e la società nel suo insieme) sono riusciti (nel passato) o riescono (nel presente) o riusciranno (nel futuro) a destare nei bambini? o nei ragazzi? Dopodiché è probabile che i bambini continuino a seguire quegli interessi come s’insegue una pista di sassolini nel mezzo del bosco (come nelle favole) indipendentemente da dove li condurrà: nel paese dei balocchi o alla casa della fata turchina?

    Però capisco cosa intendi per problema quantitativo. Che il bombardamento di informazioni potrebbe essere un problema da cui difendersi tout court. Perché è ovvio che la quantità di informazioni in entrata non può essere maggiore della capacità di stoccaggio, o di elaborazione, per di più. Così che i filtri sarebbero così intasati da non aver più interesse a far passare una qualsiasi cosa, e questo non sviluppa di certo la facoltà di apprendere o discernere. Capire e sentire.
    Quando mia figlia andava a scuola, notavo questo problema. Rispetto a quello che succedeva ai miei tempi, anche a scuola (senza contare tutte le informazioni che ricevevano da maestra televisione) erano costretti ad apprendere troppe cose, troppe informazioni, senza aver abbastanza tempo per assimilarle ed elaborarle. Una didattica della quantità, quindi, rispetto ad una didattica della qualità. E soprattutto dovevano produrre. Dovevano essere produttivi. Dovevano essere in grado di fornire prestazioni secondo un modello che doveva essere valido per tutti. E quelli che non ci riuscivano erano perdenti. Lo schema non era dissimile dal modello industriale.
    E gli zaini che dovevano caricarsi sulle spalle erano l’indicatore concreto delle pretese assurde degli adulti nei loro confronti. Oggi non so cosa sta succedendo, ma dubito che le cose vadano meglio.
    Capisco che tu sia indignato, anch’io lo sono, ma poi penso che l’indignazione è un sentimento che non si dà molte prospettive. A cosa serve? Rassegnarsi però è peggio.

    E anche oggi sono stata troppo produttiva? Forse sì, però fra ieri e oggi ho anche potato le rose, le viti e i lamponi … Un omino gentile (Giuseppe) è venuto ad aiutarmi e mi ha insegnato alcune cose. Per esempio che i rami vecchi della vite vanno tagliati e lasciati quelli giovani, ma non tutti. Che su ogni singolo ramo bisogna tagliare la coda, che sarebbe di troppo, ma lasciare piccoli rami con due gemme che saranno il futuro prossimo. E poi spunteranno rami nuovi dal basso … e quelli saranno il futuro più remoto.

  12. @Vincenzo:Tu dici:”Per evitare questo disastro, ci dovrebbe essere un INTERVENTO A MONTE: ma chi l’ha detto che esista un diritto sacro a gettare spazzatura nella mente dei ragazzi?”
    E’ proprio quello che il senso comune ci suggerisce ma,chi ci può garantire che questo “intervento a monte” sia veramente fatto nell’interesse della salvaguardia dell’integrità psicofisica dei nostri ragazzi ( e di tutti noi)?
    Chi agisce “a monte”, si sa, agisce secondo i suoi interessi…
    Certo, ci sono i controlli ( e le varie commissioni per la gestione delle trasmissioni televisive), ma già sappiamo come vengono fatti questi controlli.
    Se si ha veramente a cuore la democrazia, i filtri di cui tu parli si devono creare nelle persone, nei fuitori di questi mezzi di comunicazione e, come giustamente( per me) scrive Milena,la responsabilità maggiore risiede negli educatori ( genitori e insegnanti).
    Purtroppo si sta creando un circolo vizioso in cui , anche le persone che dovrebbero educare ( e quindi dovrebbero creare questi filtri) si stanno diseducando…..

  13. Cara Paola, mi pare che ti rispondi da te stessa. In verità, il famoso mercato, in questo caso il mercato delle idee, è la forma di dittatura più efficace, perchè la capacità di condizionamento mediatico raggiunge capillarmente tutti noi, e concorre a determinare i nostri comportamenti senza bisogno di coercizione. Questo vale anche per i genitori e per gli insegnanti, che dopo aver assistito all’ultimo reality, sono pronti essi stessi a versare il loro personale contributo di spazzatura nella mente dei ragazzi. Vogliamo almeno in linea di principio affermare l’esigenza di una disciplina nella comunicazione mediatica? Capisco che non sia facile definire in che forme ciò possa avvenire concretamente, ma ammettere che il mercato non sia il mezzo adatto per portare avanti l’interesse generale mi pare comunque un passetto avanti.

  14. @Vincenzo”Capisco che non sia facile definire “in che forme” ciò possa avvenire concretamente, ma ammettere che il mercato non sia il mezzo adatto per portare avanti l’interesse generale….”
    E’ proprio questo il punto debole della tua teoria:non sapere in che maniera uscire da tutto ciò, anche se, in linea di principio siamo tutti d’accordo.
    Per me, più che un intervento “a monte”, servirebbe una presa di coscienza dalla “base”,con una sollevazione generale da parte dei cittadini.

    Ma c’è chi dice che l’Italia ormai non può più farcela da sola: servirebbe addirittura l’intervento dell’ ONU.

    http://www.repubblica.it/politica/2010/03/20/news/per_un_voto_onesto_servirebbe_l_onu-2777263/

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