Marxiani

Ho avuto la fortuna di introdurre e di coordinare, giovedì scorso a Legnano, una serata dedicata a Bentornato Marx!, il libro scritto dal giovane filosofo torinese Diego Fusaro, cui ho dato il benvenuto (e del quale si era parlato  qui). Non ho potuto esimermi dal cominciare facendo le pulci proprio al titolo: in che senso è da intendere quel “Bentornato”? E’ forse la constatazione di un fatto? Oppure un auspicio? (e per converso un esorcismo da parte delle schiere terrorizzate dallo spettro di Marx). Perché mai dare il bentornato a un pensatore che ha affollato, nel bene o nel male, gran parte del secolo appena trascorso? E che quindi in realtà non si era mai levato di torno?
Tuttavia la vera questione riguarda il soggetto del bentornato, quel nome impronunciabile e quantomai spettrale – così come impronunciabile e spettrale è diventato l’oggetto della sua radicale critica, e cioè il Capitale, quasi che il solo nominarlo oggi lo togliesse dal suo status apparentemente intangibile di ovvietà, come se il sistema capitalistico fosse il modo naturale ed eterno dell’organizzazione socioeconomica, e non invece una delle sue molteplici e transitorie forme. Ed è qui che subito si apre un primo problema: perché “tornare” (o “ripartire”) dal pensiero di Marx non dovrebbe essere un po’ come riaccendere l’attenzione su – che so – Kant, piuttosto che Spinoza o Aristotele o Machiavelli? Come mai al nome “Marx” viene ancora un po’ di prurito se non l’orticaria, nonostante sia morto e sepolto?
Oppure, come ci ricordava Derrida ormai quasi vent’anni fa, a ridosso della caduta dei regimi “comunisti” dell’Europa orientale, siamo tuttora sotto l’influsso di una presenza quanto mai spettrale del barbuto di Treviri. Ecco, forse è proprio questo il vero motivo: la spettralità di Marx, l’essere senza pace di un pensiero che voleva trasformare il mondo e autorealizzarsi (dunque autoannullarsi) –  una filosofia che si realizza e una realtà che si filosoficizza. Marx è un pensatore e un filosofo, senza alcun dubbio (e dunque se ne può parlare come di un qualsiasi altro pensatore e filosofo) – ma si discosta radicalmente dalla tradizione filosofica perché mette in campo la questione del senso ultimo e dell’utilità (in senso lato) della filosofia, il suo statuto ontologico, il perché mai essa esiste ed è cosiffatta. E tale potenza implica la ricomprensione del suo stesso pensiero sotto il suo cono di luce (o d’ombra): perché io, Marx, penso questo e questo? Perché mai critico e predico (o predìco) la rivoluzione e l’avvento della società senza classi?

Il testo di Diego Fusaro è schietto, onesto, ben scritto, insieme una buona introduzione alla lettura diretta di Marx (necessaria se non se ne vuole parlare a vanvera), e però è anche una rassegna critica delle aporie e dei nodi irrisolti, che non sono pochi. Il punto di partenza è lo sgombero del campo dalle successive sovrapposizioni dei marxismi – come se fosse facile! – lasciando solo nell’ultimo capitolo uno spazio apposito dove passarli in rassegna brevemente. Di pensiero marxiano, non marxista, s’ha da parlare. E questo richiede un ritorno al testo e alle condizioni originarie in cui quel testo ha avuto la sua genesi, il suo sviluppo, la sua vorticosa crescita. Condizione preliminare è la ri-lettura attenta di Marx.
Solo così risulterà chiaro che il pensiero di Marx non può che apparire come un “cantiere aperto”, non certo una “casa chiavi in mano”. Il suo paradossale filosofare antifilosofico (pensare diritto e con la testa il mondo capovolto, e pensare al modo di rimetterlo sui suoi piedi) – dopo il sistematicissimo Hegel – si pone come la mission impossible di pensare la totalità in maniera asistematica: struttura materiale che nel suo prodursi storico produce le ideologie attraverso cui quel prodursi viene letto, interpretato e (più spesso) dissimulato.
Ma torniamo alle intenzioni di Fusaro. Sono tre le cose che ho particolarmente apprezzato del suo libro. La prima l’ho già accennata: l’opera di Marx da leggere direttamente e da accostare come un cantiere aperto: lavori in corso sulla natura umana, sul senso e la direzione della storia, sul rapporto tra società e natura, sull'(eventuale) fine e destino della specie. Opera immensa e immane, inevitabilmente inconclusiva.

Veniamo alla seconda: i conti della serva, cioè le aporie, le zone d’ombra, i vicoli ciechi che, inevitabilmente, in un cantiere aperto così grandioso non potevano non sorgere. Li elenco velocemente:
-il rapporto tra struttura e sovrastruttura, e soprattutto la questione della retroazione della seconda sulla prima: la formula engelsiana dell'”in ultima analisi” attribuita alla base economico-materiale non risolve certo i problemi sollevati da Marx fin dall’Ideologia tedesca. Siamo animali troppo simbolici ed impressionabili (oltreché facili all’alienazione) per non tener conto della materialità (e talvolta persino priorità) di ciò che un tempo si riteneva come secondario e determinato da altro;
-la sovrapposizione tra classe generale del Proletariato (con la P maiuscola) e classe sociologica dei salariati. Ha ancora senso pensare ad una classe universale – ad un Soggetto in termini hegeliani – che liberando (e negando) se stessa liberi l’intero sistema dalle sue aporie?
-l’eurocentrismo (di marca filosofica, anch’essa hegeliana) e l’analisi insufficiente del colonialismo;
-l’ambiguità del concetto di natura umana, e il suo oscillare tra una forma essenzializzata (la Gattungswesen dei Manoscritti economico-filosofici) ed una storicizzata;
-la neutralità di scienza e tecnica;
-la problematicissima teoria dello stato, insieme alla non-configurazione concreta di ciò che si dovrebbe intendere come futura società comunista.

Ma dopo l’ombra veniamo alla luce: sono almeno tre i punti teorici forti (anzi fortissimi) su cui focalizzare l’attenzione, tre tracce da riprendere (da cui ri-partire), per pensare con Marx oltre Marx:
1) la critica come punto dirimente del modo marxiano di filosofare e di porsi rispetto alla tradizione filosofica da una parte, e nei confronti della società capitalistica dall’altra: senza l’esercizio della critica e la prassi rovesciante della rivoluzione non si andrebbe comunque da nessuna parte, e il capitalismo rimarrebbe un che di intrascendibile;
2) la propensione futurocentrica: in un tempo dominato dalla dittatura ed onnipotenza del presente (e di tutte le sue secretate contraddizioni), sarà bene riprendere di Marx  proprio la concezione filosofica della storia – una filosofia della storia sbilanciata nel futuro e liberata però dagli elementi necessitanti e deterministici. La storia come dynamis, processo e fucina di possibilità (una sorta di campo aperto dell’utopia, da intendersi come progetto e speranza, e non come ordine pre-costituito e suscettibile di diventare piuttosto una distopia o un’utopia chiusa, così com’è avvenuto nel Novecento);
3) di grandissima attualità è la teoria marxiana dell’individualità, tutt’altro che da intendersi come prefigurazione di una società egualitaria e livellata: mentre è semmai la società capitalistica a volere degli individui ruolizzati ed omologati, anonimi e sostituibili pezzi del sistema, braccia e menti asservite da mercificare fino all’ultima cellula o neurone. Marx ha sempre pensato alla società post-capitalistica come al “regno della libertà”, da intendersi come realizzazione possibile dell’onnilateralità, all’interno di un vero e proprio sistema cooperativo.

Tutto ciò non ci deve però indurre ad eccessive semplificazioni: le zone d’ombra, proprio perché tali, cioè difficoltà del pensiero e del suo rapporto dialettico con la realtà in divenire, non possono essere gettate o nascoste sotto il tappeto, e neppure si può attribuire a Marx di averle colpevolmente omesse (anche perché sono tutte lì, visibili all’interno del suo cantiere), né tantomeno di essere state (insieme al suo autore) i responsabili dei disastri a venire; d’altro canto nemmeno i punti di forza possono essere assunti come dei dogmi: fin troppo si è commesso questo tragico errore in passato, oltretutto in uno spirito che designerei tranquillamente come antimarxiano.
Immane e da far tremare le vene (non solo dei polsi) è il lavoro critico da fare, in un’epoca come questa che, come ci ricorda Fusaro, vede un’unica religione imperante – il monoteismo del mercato -, una fede in grado come in nessun altro sistema totalitario di indurre bisogni e desideri (basti pensare a quel capolavoro antropologico-consumistico, a metà tra la coazione e la persuasione, che è stata la gigantesca operazione di infilarci in ogni tasca, e in ogni cervello, il telefono cellulare e i suoi futuribili succedanei!).
Per concludere, mi pare che la vera grande contraddizione (e assurdità) del Capitale stia tutta lì, sotto i nostri occhi (basterebbe volerla guardare: il noto, com’è noto, proprio perché noto, non è conosciuto! – diceva Hegel): liberare ogni cosa (ente, vivente, umano) da lacci e lacciuoli, sradicarla, scioglierla da ogni legame e renderla disponibile alla valorizzazione, enfatizzando insieme lo spirito prometeico che alberga in buona parte della nostra specie (elemento ideologico di cui, a mio parere, un Marx forse troppo hegeliano non ha saputo o non ha potuto liberarsi), producendo però l’illusione della naturalità, del così è e non può essere diversamente.
Essere marxiani oggi significa rispondere che: a) non tutto è metabolizzabile dal Capitale, b) quel non poter essere diversamente è falso in maniera plateale.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

8 pensieri riguardo “Marxiani”

  1. E’ splendido il lavoro di Fusaro.
    Mi spiace di non esser riuscito ad esser presente al circolone – credo che, accanto a Marx, bisognerebbe inventarsi tanti “Bentornato!”, da Voltaire e Rousseau, a Mazzini e Cattaneo (che non è affatto il protoleghista che fanno credere, bensì il primo grande intellettuale progressista “impegnato”, come si diceva un tempo, dell’800), da Gobetti e Gramsci a Rosselli e Salvemini, fino ai grandi russi come Herzen, Bakunin e Kropotkin…
    L’atttuale videotirannide ha bisogno che sio faccia tabula rasa non solo del marxismo, ma di tutto il pensiero critico in ordine alla realtà dominante…

    Questa è l’epoca in cui, morto Bobbio, sembra che i massimi pensatori siano Bondi e Paolo Del Debbio…

  2. @Enrico: al nome Del Debbio potrei avere un mancamento…
    Hai perfettamente ragione, quelli che citi sono tutt’altro che autori morti, la verità è che fanno paura e cercano di metterli a morte.
    Spero solo che si riescano a mantenere accese le braci in questa lunga e gelida notte della cultura, prima che arrivi il mattino…

    @Paola D.: qualcuno, nonostante il clima pasquale, è ancora in circolazione…
    Comunque buone vacanze!

  3. Dimenticavo di dire che quella sera metà del pubblico era costituito da giovani sui 18-20 anni (alcuni probabilmente studenti in vista della maturità).
    L’auspicio è che in futuro si possa leggere Marx (e non solo lui) senza gli ingombranti macigni del Novecento addosso – e magari proprio chi è nato al volgere del millennio ne saprà cogliere maggiori frutti.

  4. Bellissima recensione del libro di Fusaro, che non ho ancora letto e spero di riuscire a leggere a breve.

    La domanda che mi sorge spontanea è quale rilettura può essere possibile di Marx?
    Ora, non che le opere filosofiche debbano considerarsi statue immutabili in cui lo spirito e l’essenza stessa non possa evolversi in rapporto al contesto storico (specialmente quando parliamo di Marx, o della DIAMAT di engels), tuttavia mi sorge il dubbio di quanto sia lecito re-interpretare Marx.
    L’abolizionismo, il silenzio sul pensiero marxiano, confuso con la tendenza marxista indubbiamente per l’ignoranza in materia è un’aberrazione filosofica, senz’altro.
    Tuttavia, circa quel “Bentornato” mi sorge una perplessità.
    In fondo, già nelle opere giovanili di cui Tony Negri ha dato ampia interpretazione, Marx e, ancor più la DIAMAT di Engels, avevano il cosidetto merito di portare l’immanenza e la visione prettamente materialistica in una dialettica più concettosa che concettuale come quella della Destra hegeliana e, per Marx anche di gran parte della Sinistra.
    In altre parole, l’ideologia che misura la propria validità e la propria espressione non nel Concetto, ma nella storia, non nell’atemporalità quieta, ma nel dinamismo dell’evolversi storico.
    Ora, storicamente è innegabile che la realizzazione del pensiero marxiano, che in Lenin e paradossalmente direi anche in Stalin, ha raggiunto la sua massima espressione, è fallita.
    Dunque scacco matto,direi.
    Il Capitale è un testo che certamente deve essere scoperto dalle nuove generazioni, ma re-interpretarlo, a mio parere è tradire il messaggio marxiano.
    In fondo, Marx stesso dichiarava la violenza, la potenza e l’impossibilità di giungere a compromessi del suo messaggio.
    Il decorso storico vi è stato, e il Marxismo si è rivelato inadatto ad assurgere ad ideologia storica, anzi, innegabilmente pericoloso.
    Inutiel è, a mio avviso, dire che Lenin o Stalin hanno travisato il messaggio marxiano, perchè ad un’attenta lettura, sgombra di pregiudizi Lenin appare un fedele esecutore materiale delle dottrine di marx.
    Come se il primo fosse la causa efficente e il secondo quella formale.
    Marx il grosso blocco di marmo di carrara, Lenin il Michelangelo della situazione. Innegabilmente tra un blocco di marmo e il David la differenza c’è. Ma non per la lavorazione il marmo è divenuto di minore o migliore qualità. Probabilmento Michelangelo se avesse lavorato col legno non avrebbe ottenuto lo stesso effetto.
    Ecco perchè suppongo non vi sia la possibilità di re-interpretare Marx, le sue aporie, i suoi interrogativi senza tradirlo.
    Meglio lasciarlo un grande, fiero sconfitto della storia, che scende a interpretazione a mezzi termini che la sua filosofia non consente.
    Non penso sia Marx la risposta al capitalismo perchè molti punti deboli e falle si insinuano nel suo sistema e come è poi stato, lo fanno naufragare.
    Lo studio di Marx è un elemento imprescindibile nella formazione filosofica di un ragazzo, a mio avviso, tuttavia la re-intepretazione è un alto tradimento.

    Scusate la forma poco curata ma volevo solo esporre questa mia idea 🙂
    Sarei grato se faceste anche una visita sul mio blog, l’ho aperto da poco è ancora da definire, ma mi farebbe piacere avere un parere.

    Gigaro.

  5. @Gigaro:
    le tue osservazioni sono interessanti e in parte condivisibili, ma non ho capito l’argomento portante, e cioè perché mai non bisognerebbe oggi re-interpretare Marx, ovvero interpretarlo tout court, così come si fa con ogni pensatore, con ogni testo, con ogni teoria – a meno di non avere una concezione museale del pensiero, cosa che mi pare tu stesso escludi.
    Marx non è “la risposta” al capitalismo (non credo lo fosse nemmeno alla sua epoca), ma certo è il pensatore che ha posto nel modo più radicale la questione del rapporto tra “quel che facciamo” e “quel che pensiamo” e delle reciproche e speculari distorsioni di questi due aspetti della vita umana. Oltre ad avere auspicato più di ogni altro pensatore l’uscita da una società e un’umanità scissa, “naturalmente” condannata all’ingiustizia e all’alienazione.
    Dopo di che “interpretare” vuol anche dire decidere di tenere alcune cose e di consegnarne altre alla memoria storica (o tranquillamente all’oblio).
    Marx si presta più di altri pensatori ad essere “usato” nel presente (e spero ancor più nel futuro) perché il suo, come sottolinea il giovanissimo “interprete” Fusaro, è un cantiere aperto.

    p.s. Ho visitato il tuo blog, ma credo tu abbia scritto ed esplicitato ancora poco per farmene un’opinione precisa (per quanto possa contare).
    Comunque benvenuto nella blogosfera e buon lavoro!

  6. Grazie di aver visitato il mio blog, spero che tornerai presto non appena avrò pubblicato qualcos altro.

    Il mio commento non era una critica al pensiero marxiano e non intendeva scardinare una possibilità di una nuova interpretazione di Marx.
    Tuttavia, credo che, mentre una interpretazione sempre nuova e attenta del suo pensiero sia un lavoro filosoficamente ineccepibile, una re-interpretazione presenta un’indubbia aporia (o quantomeno una grossa difficoltà cui far fronte).
    Il problema che a mio avviso si pone di fronte a Marx è che non ci si trova dinanzi a un pensatore, a una teoria o a un pensiero (che come giustamente dicevi possono essere reinterpretati tout court), ma di fonte a un pezzo di storia. In altri termini, credo che il più grande merito di Marx sia stato, insieme alla Diamat di Engels, quello di “salvare della filosofia idealistica tedesca la dialettica cosciente e traferirla nella concezione materialistica della Natura e della Storia”, come rivendica con orgoglio Engels. Ma questo è anche il più grande limite (o peculiarità, a seconda della prospettiva) di tutta la Diamat e del pensiero Marxiano.
    Marx è il primo a non fare una storia della filosofia, e nemmeno la “canonica” filosofia della storia, criticata nella “Sacra famiglia”.
    Marx fa della filosofia la Storia con la S maiuscola. Questa frase letta all’incontrario, vuol dire che la Storia deve essere fatta dalla filosofia, che il pensatore deve smettere di pensare, come San Bruno e l’allegra compagnia della Sinistra hegeliana, e incominciare ad agire concretamente nella Storia.
    Se eguagliamo le due frasi Filosofia che fa la storia e storia fatta dalla filosofia, logicamente otteniamo un movimento tautologico per cui la Filosofia è la Storia stessa. Per questo dico che, a mio avviso, Marx e il suo pensiero sono un pezzo di storia che dovrebbe essere interpretato come tale.
    Re-intepretarlo, quale cantiere aperto, è senz’altro una prospettiva eccitante e molto condivisibile, tuttavia mi fa sorgere il dubbio di un tradimento, anche se appena ravvisabile del pensiero marxiano stesso.
    Ovvero, si può reintepretare una teoria che è strettamente legata alla sua Storia?
    Se Marx è il Comunismo nell’accezione prettamente storica e nello sviluppo materialisticamente dialettico di quest’ultimo, si può reinterpretarlo teoricamente, senza incappare nel rischio di una Santificazione di Marx? (mi riferisco alla Sacra Famiglia in cui lo stesso Marx depreca Bruno Bauer, Stirner e tutta la Sinistra hegeliana).

    Ecco, dunque, che a mio avviso in questo consiste la più grande difficoltà (e forse aporia) di una re-interpretazione di Marx, a fatti impossibile, teoricamente rischiosa, perchè potrebbe scalfire quel saldo materialismo dialettico che Engels rivendicava come conquista più importante e che Marx poneva come discrimine assoluto tra la Sacra Famiglia e l’azione pratica.

    Ho voluto esplicitarti meglio quello che forse nel mio primo intervento non si comprendeva appieno, sarò felice di avere ben presto una risposta da parte tua.

    Grazie ancora della visita, appena puoi ripassa sul mio blog e quando lo riterrai opportuno postami un commento, sono molto interessato a giudizi e critiche a riguardo.

    Gigaro

  7. @Gigaro: credo che il problema da te sollevato, se ho compreso correttamente, sia davvero cruciale, proprio perché ha a che fare con la Teoria marxiana della storia (da te giustamente ricondotta alla filosofia tout court), o, per meglio dire, alla filosofia della storia. Chiedersi cioè se in Marx sia o meno presente una filosofia della storia (e io credo che ci sia) costituisce un nodo ineludibile – l’altro lato è come ciò vada inteso alla luce del presente (e delle sconfitte del comunismo storico realizzato, che, per quanto più marxiste o “engelsiane” che marxiane, non possono certo restare scisse dalla loro principale fonte teorica).
    Delle due l’una: o la filosofia della storia è da intendersi in modo tradizionale, come un realizzarsi “necessitante”, secondo logiche deterministiche (dato il capitale e le sue contraddizioni non può non seguirne il crollo e l’avvento della società senza classi), oppure come uno strumento dialettico di interpretazione delle dinamiche sociali e dei conflitti, che lascia però spazio all’indeterminazione dell’agire politico, della prassi. Insomma è una vecchia storia: se l’avvento del comunismo è necessario (ma evidentemente, data l’empiria, non lo è affatto) perché mai bisognerebbe agire ed impegnarsi nel processo di trasformazione?
    D’altro canto, la risposta che è stata data, e cioè che i tempi della rivoluzione sovrastano quelli dei destini individuali, mi sembra poco convincente. O meglio: il rivendicare l’impersonale (ed hegeliana) logica della storia si scontra inevitabilmente con l’investimento volontaristico ed individuale che è tipico della prassi politica e dei movimenti contemporanei.
    Su questo piano manterrei valide le prospettive di “apertura” e di proiezione futurocentrica della teoria marxiana della storia (lasciando cadere gli elementi deterministici, per non parlare di quelli “profetici”): la storia come autodeterminazione i cui processi non sono naturalisticamente dati; il comunismo e il regno della “libertà” come processo, movimento, “tendere verso”, il cui risultato non è affatto garantito; l’utopia della società senza classi come “utopia aperta”, concetto-progetto, come amava dire il mio caro amico e docente “marxiano eretico” Luciano Parinetto.

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