L’opacità della politica

“Se un’inversione di rotta è possibile immaginare […] essa non potrà provenire né dalla mano invisibile delle derive impersonali dell’economia, né da quella visibile di una qualche avanguardia dotata di un’adeguata tecnologia del potere, bensì dalla scelta consapevole di un numero ampio d’individui liberamente cooperanti nel compito impervio di vivere qui e ora – non di “progettare”, né tantomeno di “costruire”, ma di praticare – rapporti sociali radicalmente diversi”. (M. Revelli, Oltre il Novecento).

Ovunque io guardi alla situazione della politica oggi in Italia, mi viene in mente un solo aggettivo: opaco. E’ opaca la maggioranza degli elettori: eternamente moderata, impaurita, rancorosa, piccolo-borghese, e, all’occasione, un po’ fascistoide (d’altra parte la sinistra non è mai stata maggioritaria in questo paese – s’intenda poi con “sinistra” quel che si vuole). A tal proposito è quantomai opaca la differenziazione destra/sinistra, con quella non meglio identificata convergenza al centro. Si è inoltre costituito un ampio schieramento astensionistico (il primo vero partito), anch’esso opaco, che sembra non preoccupare molto il potere – sarà che il vuoto in politica non può esistere.
Sul fronte delle espressioni della sfera pubblica, delle tendenze della società civile e del significato del voto, c’è poi un movimento che si va configurando (un po’ dipietrista, un po’ grillino, un po’ viola, un po’ qualcos’altro: anche qui i confini sono quantomai opachi), come una sorta di lega orizzontale di cittadini, in gran parte giovani, che usa la rete per organizzarsi e che, almeno nelle intenzioni, vorrebbe contrapporre all’opacità classica dei partiti e dei meccanismi istituzionali e di potere, alcuni radicali correttivi nel nome della trasparenza.
Mi pare che tale fronte, sicuramente non omogeneo e certamente minoritario, ma a cui credo occorra prestare attenzione, ricalchi la nuova modalità dell’attività politica così come il sociologo Marco Revelli l’aveva sintetizzata nella frase che ho riportato in apertura: non più progetti di lungo respiro, militanza partitica o ideologica, utopie da realizzare, ma, viceversa, cose da fare qui e ora ai fini di una pratica sociale meno opaca e più controllabile dal basso.
Vedo in sostanza che nel laboratorio politico italiano si vanno confrontando due principali modelli possibili: il primo, ampiamente maggioritario e in bilico tra passato e presente, fortemente ideologizzato, che raccoglie un fronte tradizionale e popolare – il leghismo, alleato del berlusconismo, nati entrambi da un vuoto, subito riempito da una nuova “etica” del lavoro e del denaro condita dal sogno iperconsumistico, e confluenti contraddittoriamente in un blocco sociale (anch’esso) quantomai opaco; l’altro modello, minoritario e frammentato, carsico com’è tipico dei movimenti, dal 2000/2001 (grosso modo da Genova) tenta di battere strade alternative di democrazia diretta, dal basso, autoorganizzandosi e cercando faticosamente di rappresentare l’irrappresentabile, e cioè la moltitudine frastagliata dei cittadini, che però in quanto tali non possono che essere i protagonisti diretti e i controllori di ciò che li riguarda, senza più deleghe in bianco ai partiti tradizionali.
In tutto questo sommovimento c’è un grande assente: la sinistra, ormai orfana di un’ideologia forte della trasformazione, conflittuale più a parole che nei fatti nella sua parte minoritaria (e conflittuale soprattutto al suo interno, in una gara settaria al cupio dissolvi); liberaleggiante in maniera piuttosto inutile nella sua area maggioritaria (quel partito senz’anima e senza né arte né parte che è stato il transeunte e leggermente insostenibile PDS-DS-PD).
Al centro di tutto ciò la figura (ormai consunta) dell’antico militante, dalle cui ceneri fatica a nascere qualcosa di definito, ma che dovrebbe o potrebbe somigliare ad un cittadino nuovo di zecca, equo, solidale e globale; informato, consapevole, attivo; radicato sul territorio e nel contempo cosmopolitico; volto alla gestione razionale della cosa pubblica e del quotidiano più che ai voli pindarici nel futuro; che ritiene la politica al servizio dei cittadini e non viceversa; che mette al centro la “cosa pubblica”, l’acqua, le risorse, l’ambiente, i servizi, la rete, la ricerca; che parte da sé e dai bisogni anziché dalle idee precostituite; e così via.
A parole questa nuova figura sembra molto promettente, ma: a) bisognerà vedere alla prova dei fatti se tale schema di militante volontario (e non as-soldato) potrà funzionare; b) l’armata nemica è potente e sovrastante sia in termini di numeri che di mezzi; c) rimango ancora perplesso sulla possibilità che una forma politica possa funzionare senza un progetto di lungo periodo che la ispiri.
Marco Revelli, nel testo citato sopra (e che all’epoca aveva suscitato un aspro dibattito, ma che può ora essere letto in prospettiva a distanza di quasi un decennio), vedeva il problema dell’uscita dal Novecento come una sorta di uscita asfittica in una stanza chiusa – un passaggio dalla figura dell’homo faber prometeico a quella dell’uomo flessibile con il pericolo di una sussunzione integrale (comprendente la “nuda vita”) alle tecniche di potere e al capitale. Non è qui il luogo per approfondire questi temi, quel che mi preme è solo riconnettere quell’analisi sociopolitica a tutto campo – il campo di un secolo – a quel che sembra profilarsi ora in termini di attività politica: la nuova figura del militante non è più quella del “soldato” ma del “civile”; non più Gulliver ma lillipuziano; non sa più che fare, ma sa bene che cosa non si può più fare. Egli non vuole più edificare, ma vivere e praticare modelli relazionali. E’ la figura del volontario a costituire una delle possibili “uscite di sicurezza” dal Novecento, su cui forse in Italia ci stiamo attardando più che in altri paesi.
In una situazione così confusa (opaca!) come la presente, schematizzare potrebbe risultare insieme utile e fuorviante, ma forse la riconduzione di quanto detto sopra alla dicotomia spinoziana tra popolo e moltitudine (ri-letta in Italia da Toni Negri, Paolo Virno, Ciccarelli, Del Lucchese e altri) ci fa comprendere qualcosa di più. Di certo ci sono in gioco la sorte della politica e della rappresentanza, il senso del vivere comune e dell’aggregazione sociale, in un’epoca attraversata da spinte centrifughe e disaggreganti (la globalizzazione neoliberista) e controspinte identitarie.
Per tornare al nostro (un po’ provinciale) paese, si stanno fronteggiando modelli alternativi (e poco conciliabili) di cittadinanza ed appartenenza ad una comunità: un radicamento esclusivista, individualista ed ossessivo contro un profilo sociale più aperto e orizzontale tutto da inventare. La difficoltà è che il secondo modello prevede cittadini (in gran parte) coscienti, informati, raziocinanti, lungimiranti, pensanti e calcolanti… insomma l’utopia platonica dei re-filosofi applicata all’intera cittadinanza.  Una sorta di (impossibile) comunità filosofica realizzata, con la filosofia e i suoi metodi dialogici e di ricerca che informano la vita politica – quanto di più lontano dalla livorosa ed egoistica comunità padana o dei teleconsumatori, dalla gggente, o anche da quelle che un tempo venivano definite “classi popolari”. E a voler ben vedere anche questo è categorizzabile in termini di “moltitudine”.
Insomma, se mi guardo attorno quasi tutte le superfici (specchi compresi) mi appaiono quantomai opache…

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Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

12 pensieri riguardo “L’opacità della politica”

  1. Quello che vedo è, sintetizzato in un unico termine, conformismo. Chiamamoli grillini, chiamamoli popolo viola, chiamomoli dipietrini, a me sembrano assolutamente conformati al pensiero dominante. E d’altra parte, come potrebbe essere diversamente? Come si potrebbe resistere al martellamento mediatico, se non esiste una sede collettiva dove un differente messaggio può trovare spazio e veicolo? Per questo, non posso condividere quanto afferma Revelli: siamo figli di questa società, e qualunque innovazione che tale appare a noi contemporanei ad un’analisi minimamente più attenta risulta un ulteriore rimescolamento della brodaglia in cui siamo immersi fino ai capelli. No, non vedo gruppi alternativi, vedo tanta confusione. Rimango fermamente dell’opinione che il pensiero umano per svilupparsi, per subire un processo evolutivo, richiede uno sforzo consapevole e per certi versi artificiale, perchè quanto avviene invece spontaneamente lo vediamo tutti i giorni: è proprio il nostro sociale quotidiano, checchè lo si denonimi.

  2. @ Vincenzo: “Rimango fermamente dell’opinione che il pensiero umano per svilupparsi, per subire un processo evolutivo, richiede uno sforzo consapevole e per certi versi artificiale”
    E quale sarebbe questo “sforzo artificiale” un COLPO DI STATO o la bomba atomica?

  3. Paola, ma che domanda formuli? Uno sforzo, un processo artificiale, significa consapevole, significa che qualcuno ha la capacità di elaborare un pensiero nuovo, una nuova visione delle cose, un nuovo discorso, e su questo pensiero trova consensi, persone che condividono questa visione delle cose, e si costituisce così un gruppo che deicde di fare politica.
    Voglio insomma dire che all’inizio c’è un’idea, e dall’idea e dalla sua elaborazione parte un progetto chiaro nelle premesse e nelle finalità. Ora, guardandomi attorno, trovo il movimento viola, nato su quale idea di grazia? Quale sarebbero le tesi che contraddiscono questo movimento? E’, udite udite, il movimento nato dal web. Ma il web può mai considerarsi un movimento? Cosa potrà mai fare questa gente espressa dal web che rimacinare le idde che su esso corrono, e che sono le idee dominanti nella società.
    Se si vuole cambiare il mondo, bisogna partire da un’alterità, ma l’alterità non può, direi per definizione, essere frutto spontaneo dello stesso mondo che intende cambiare. E’ come insegnare l’inglese, non si può partire dall’italiano. Le due lingue hanno cose in comune, senza dubbio, ma tuttavia chi vuole imparare l’inglese deve come scelta preliminare studiare un altro linguaggio, non si può stando in Italia imparare spontaneamente l’inglese, sembra una cosa ovvia, e difatti credevo di aver detto una cosa fin troppo ovvia, ma a quanto pare a volte è proprio difficile capirsi.

  4. @Vincenzo:
    ho soltanto un dubbio sul concetto di “alterità” da te formulato (e che ti chiederei di chiarire) – che oltretutto ha sempre figurato negli slogans dei movimenti rivoluzionari, fino al recente movimento “no global” (non so quanto rivoluzionario), ma che certo parlava di un “altro” mondo possibile. Il punto dolente è in che rapporto tale “alterità” si pone con il mondo dato: è un “altro” potenziale o un “altro” che sta da un’altra parte (e dove?).
    Lo stesso dubbio ce l’ho in rapporto al termine “spontaneo”, anche perché il suo reciproco necessariamente chiamato in causa è, se non erro, “forzato, obbligatorio”.
    Ad ogni modo le rotture e le crisi avvengono sempre con quel che c’è e le relative contraddizioni – il problema, finora, è sempre stato il loro esito.

    (del movimento “viola” non saprei dire, forse è solo un colore legato a una stagione, e dunque transeunte, oppure prefigura qualcos’altro, staremo a vedere, i miei dubbi in proposito li ho già espressi).

  5. @MD
    Il punto credo non stia nel fatto che inevitabilmente il futuro non può non avere un aggancio nel presente, ma piuttosto nella novità dell’elaborazione, che non può che avvenire teoricamente e da parte di un numero limitato di soggetti. Potrei fare l’esempio del marxismo, rielaborazione più o meno libera, molteplice, controversa a partire dagli scritti di Karl Marx, e da una serie di pensatori che seguirono. Non è stato così a suo tempo per l’Illuminismo? Non è ovvio che un nuovo sguardo sul mondo debba derivare necessariamente da una elaborazione teorica, sia un’intuizione individuale che trova terreno fertile nel proprio presente o in un’epoca successiva? L’alterità è questa pretesa perseguita fermamente e con grande sofferenza di riinterpretare quello che sta sempre davanti ai nostri occhi, e che improvvisamente assume un aspetto nuovo, impensabile fino ad un istante prima.
    Per questo, sottolineo che non si tratta di un’evoluzione spontanea, direi contrapposto a deliberata, cioè conseguente a una scelta volontaria e deliberata. Insomma, non credo che sia il conforto reciproco derivante dal confronto sul web che possa cambiare in sè l’esistente. Poi, evidentemente anche il pensatore più originale è anch’egli figlio dei propri tempi e legge ciò che è già stato scritto, ma si impone questa alterità, riconoscendosi soggettivamente altro dal modo comune di pensare. Se leggo i vari blog che mi si propongono, essi esprimono essenzialmente una visione consueta delle cose, certo di parte, ma di una parte comunque ampiamente rappresentata.

  6. Dovrei forse aggiungere che è proprio dell’ideologia dominante questa esaltazione della spontaneità. Si è diffusa ad esempio tra i giovani questa concezione delle buone maniere come ipocrisia. Perchè rivolgere un cortese saluto a una persona di cui in verità non ti frega niente? Se lo fai, una volta venivi considerato educato, ora sei ipocrita. Sparisce così surrettiziamente il rispetto degli altri in quanto uomini, mentre si predica l’uguale dignità degli individui come un fatto scontato, piuttosto che come un obbligo che dobbiamo perseguire con una disciplina costante.
    Questo è solo un esempio di come il concetto di disciplina goda oggi di una pessima fama, come se disciplina significasse conformismo, mentre al contrario significa capacità di imporsi (autodisciplina) e di farsi imporre dei compiti in virtù di una scelta consapevole (rapporto maestro-discepolo ad esempio).
    Questa esaltazione della spontaneità funziona appunto come una sollecitazione ai nostri aspetti più istintuali e, ciò che è più grave, alle sub-culture che la incentivano in un contesto tecnologico in cui l’istinto diventa un elemento distruttivo.
    Per questo, sottolineo l’elemento volontaristico e la disciplina che lo deve sorreggere da una parte, e la globalità del progetto dall’altro. Mai come oggi c’è bisogno di un’avanguardia consapevole, e non semplicemente di persone in grado di vivere in maniera magari realmente alternativa, ma incapaci nel contempo di fare di queste esperienze uno stadio di un progetto più complessivo, piuttosto che concepire la propria personale esperienza come una casamatta all’interno di una società che si rifiuta. L’ambizione di cambiare il mondo, tutto il mondo, deve esserci dall’inizio, oppure non ci sarà mai, o almeno nascerà quando un altro soggetto cambierà egli il significato di quella stessa esperienza.

  7. @Vincenzo:”Sparisce così surrettiziamente il rispetto degli altri in quanto uomini, mentre si predica l’uguale dignità degli individui come un fatto scontato, piuttosto che come un obbligo che dobbiamo perseguire con una disciplina costante.”
    Effettivamente, nel contesto che tu descrivi,i valori di disciplina e rispetto assumono un significato diverso rispetto a quello ampiamente diffuso in Sicilia (e nell’Italia meridionale) di rispetto imposto con la forza e con la paura e di disciplina intesa non come “auto-disciplina”, che è secondo me l’obiettivo principale che si dovrebbe perseguire. Per ottenere questo scopo, secondo me, non è necessaria nessuna azione volontaristica diretta da parte di nessuna “avanguardia consapevole” , ma basterebbe semplicemente l’esempio, l’esempio di chi ci governa, di chi ci dirige, di chi ci guida. A tale scopo,qualunque movimento che si proponga di mettere in evidenza le incongruenze della nostra classe dirigente, dovrebbe essere bene accetto, perchè, lungi da essere un’azione risolutiva, favorisce la presa di coscienza da parte dei giovani, che è un processo lungo, ma secondo me già in atto. La famiglia ( non parliamo della scuola…)occupa, nell’innescare questo processo, uno spazio importantissimo, perchè coniuga il sentimento del rispetto con altri fattori emozionali che in un’istituzione pubblica deputata all’educazione del piccoli, potrebbe non esserci, e quindi diventerebbe necessariamente “militaresca”; ed ecco perchè io non sono d’accordo sul fatto che tu, nel tuo libro proponi un superamento dell’istituzione famiglia in nome di una libertà di autorealizzazione che le donne non avranno mai.

  8. Opaco in un certo senso può essere una conseguenza di Sporco no?
    Io penso che quello possa essere alla base di tutto alla fine. Il problema è che nessuno, noi compresi, si sta degnando di pulirlo quello Sporco.

  9. @Il Rivoluzionario:
    “Sporco”, però, è una categoria poco politica – a meno che tu non intenda la corruzione o l’immoralità (che pure sono cose diverse – la seconda poi piuttosto opinabile).
    La storia (e l’idea o anche l’ideologia) delle “mani pulite”, per lo meno in Italia, non mi sembra abbia dato molti frutti.
    Io punterei piuttosto l’attenzione su quel che si deve intendere con “bene comune” e “convivenza sociale”. Forse la politica dovrebbe essere rifondata a partire da un ripensamento di quelle categorie.

  10. @md
    Io intendevo proprio in parte la corruzione.
    Che poi in generale la Politica sta mancando in Italia. In un certo senso la Politica non esiste proprio.
    Politica letteralmente è ‘Arte di governare le società’, io sto vedendo solo tentativi di gettare fango sui Partiti Rivali, mettendo quasi in secondo piano ciò che vuole fare il proprio Partito.

  11. @Il Rivoluzionario:
    sì, forse hai ragione, “gettar fango” e chiacchiericcio è innanzitutto ciò che caratterizza la politica oggi – ma perché si è persa la nozione del bene comune, insieme alla dinamica progressiva del conflitto sociale (quanto di più lontano ci sia dalla rivalità fangosa dell’odierno…).
    Dopo di che, io sono piuttosto utopico, e vorrei declinare quell'”arte di governare le società” nel loro autogoverno e, insieme, nell’autogoverno di ciascuno.

  12. Ho seguito con attenzione i vostri vari scambi di opinione: tutti interessanti ed animati certamente da una “voglia di pulito” ovvero di “lucido” contrapposto ad “opaco”. In particolare il pensiero di Vincenzo meriterebbe un approfondimento; un dibattito aperto. Non vorrei sembrare banale ma il vecchi adagio secondo il quale “un popolo fa i governanti che si merita” mai come in questo buio periodo storico è vero. E l’astensionismo che rappresenta oramai il 1° partito italiano lo
    dimostra ampiamente: mi dissocio ma….non partecipo!

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