Forma e contenuto non sono mai entità scisse. La forma è forma di qualcosa, non può essere un guscio vuoto e autoreferenziale. Così come il contenuto, la “sostanza”, si presenta attraverso una sua modalità formale. Naturalmente bisognerebbe prima intendersi sulla definizione di entrambi i concetti.
A un di presso succede con il contenuto del messaggio e il suo mezzo di trasmissione, come acutamente ci avverte il sociologo della comunicazione McLuhan, che aveva coniato la geniale formula “il medium è il messaggio”.
Si è più volte discusso in questo blog (qui e qui, ad esempio) della forma problematica della riflessione filosofica, relativamente ai nuovi (e potenti) mezzi forniti dalla rete. Non c’è dubbio che il linguaggio, la scrittura, l’argomentare e la discussione non sono mezzi neutrali attraverso cui i contenuti fluiscono, e che le nuove forme digitali finiscono per retroagire ed influenzare quegli stessi contenuti. Forma e contenuto, mezzo e messaggio sono, appunto, strettamente correlati. Con una ulteriore complicazione: che tutti quei mezzi si duplicano, rimescolano e confondono oggi in una babele indefinita e in perenne divenire.
Ora io non so che cosa penserebbero i filosofi (o meglio, secondo la sottile distinzione platonica ricordataci da Giorgio Colli, i “sapienti”) degli inizi del pensiero filosofico – un inizio quantomai orale e dialettico, fatto di discussione viva, di voci e di presenze immediate – che cosa penserebbero, dicevo, delle nuove forme di trasmissione del sapere (o forse, più spesso, della doxa) – blog, social network, chat e quant’altro. So però che la filosofia non può non essere hegelianamente figlia del suo tempo, e dunque da questo contaminata e attraversata in ogni sua manifestazione.
Queste frammentarie (e solo accennate) premesse per dire due cose:
a) in generale: l’esperienza di una chat filosofica – che vorrei scherzosamente ribattezzare chatsofia – con quella strana mescolanza di fulmineità e mediazione della scrittura, è ancora un fenomeno confuso e poco comprensibile (almeno per me);
b) in particolare: il testo pubblicato qui sotto – il dialogo con Davide F., giovane studente di filosofia all’università di Roma, che ringrazio per l’involontario esperimento – ha sortito a posteriori in entrambi i dialoganti una sorta di effetto straniante. Il mio interlocutore ha infatti così commentato, quando lo ha riletto ieri (prima della pubblicazione e a distanza di alcuni giorni): “ma eravamo su binari diversi!”. Al che non posso che rispondere che sì, è vero, il fraintendimento (o il rischio del monologo) è sempre in agguato quando si discute – sia che ci si conosca bene e da una vita, sia che non ci si conosca affatto (come nel caso qui esposto), se non attraverso il contatto digitale di una chat.
Ecco perché, nonostante i contenuti alti della nostra discussione (ontologia, antropocentrismo, Jonas, Spinoza, vita, morte e quant’altro), ciò che salta in primo piano è la forma – contravvenendo o problematizzando quanto avevo dichiarato in apertura.
Ma la filosofia è l’arte di dialettizzare, scucire e ricucire, andare a vedere cosa si nasconde dietro l’apparenza – fino a ricercare spasmodicamente il motivo stesso del proprio ricercare, dubitando del proprio dubitare, e restituendo forma ai contenuti cangianti, o senso alle apparenze. Ecco perché ci si deve innanzitutto chiedere il motivo di quel doppio binario. Ed ecco perché non cessa di sorprendermi – e di sorprendere Davide, che vorrebbe, come dice in conclusione, “studiare tutta la vita e scrivere”. Ciò non toglie che, per quanto vorticosamente inviati a colpi di click e confezionati in pacchetti digitali talvolta sovrapposti, possano risultare interessanti anche i contenuti…
(Come facilmente si capirà, gli interventi di Davide sono in corsivo; mi sono limitato ad aggiustare la punteggiatura e a correggere gli inevitabili errori di scrittura tipici di una chat, al fine di rendere leggibile il testo).
D. …comunque ho trovato su che fare la tesi.
M. Cioè?
Necessità dell’antropocentrismo nella ricerca scientifica: riprendo il saggio “Dio e’ un matematico?” di Jonas e lo integro con parti di Damasio e Merlau-Ponty.
Però! In che senso necessità?
Nel senso che bisogna piantare di menarsela con la storia della scienza oggettiva…
E su questo ti seguo…
…o adottare il modello cognitivista nell’epistemologia scindendo mente e corpo, oppure dicendo che la mente non è altro che il cervello.
Ok ok, ti seguo su tutto, ma ho grossi problemi con l’antropocentrismo.
Beh ovviamente non si parla di antropocentrismo…
Come sei messo con Spinoza?
L’ho affrontato l’anno scorso in Storia del pensiero biologico e mi era piaciuto parecchio. Il suo ad esempio e’ un sistema coerente; un monismo che non è né un monismo materialista, quindi incompleto per definizione (che elimina senza spiegazione una res), né un monismo idealista. Infatti avevo intenzione di inserire qualche cosa nella tesi dato che mi laureo proprio con quel professore…
Quindi conoscerai già il testo di Damasio su di lui.
Sì. Comunque “antropocentrismo” e’ inteso come lo intende Jonas, ossia la consapevolezza che la conoscenza è sempre mediata dal corpo e che la mente è un nome collettivo che racchiude diverse capacità corporee; in questo senso: ossia non considerarci entità conoscitive meramente mentali.
Deleuze-Spinoza: ottime le sue lezioni “Cosa può un corpo?”. Da un altro punto di vista non si può naturalmente uscire dall’antropocentrismo, sarebbe pur sempre una finzione. Ma faccio mia la lezione spinozista di non considerarci “un impero nell’impero” : “La maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e sul modo di vivere degli uomini, sembra che trattino non di cose naturali, che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose che sono al di fuori della natura. Sembra anzi che concepiscano l’uomo nella natura come un impero nell’impero”. Piano orizzontale ed immanenza sono le mie parole d’ordine!
Beh ma una prospettiva antropocentrica significa più che altro conoscenza mediata tramite l’apparato corporeo umano.
Sì, da un punto di vista cognitivo; ma noi tendiamo sempre a saltare a strane conclusioni, tipo che l’universo è apparecchiato per noi.
Io ho un altro punto di vista: da un criterio squisitamente umano non possiamo che considerarci le creature con piu possibilità sinora conosciute: possibilità fisiche, mentali ecc.
Questo ci dà il dovere…
Sì, ma è pur sempre una nostra opinione su noi stessi.
… il dovere di essere responsabili nei confronti degli altri esseri e del globo stesso, e di non sfasciarlo.
Hai toccato il nodo più delicato, ecco perché trovo Spinoza cruciale, per avere connesso ontologia ed etica. Il suo testo più importante…
Il problema vero di Spinoza…
…si intitola “Etica”.
…e’ che nel suo monismo cade la differenza tra cio che è vivo e ciò che non lo è.
Beh, da un punto di vista ontologico in effetti perché mai dovrebbe esserci una differenza? Ogni ente persevera nel suo essere…
Se da un punto di vista ontologico non ci fosse differenza noi conosceremmo un’informazione in più di un ipotetico dio onnipotente: cioè essere vivi ed avere un corpo.
Non ho capito.
Un dio che avesse immediata conoscenza di tutto dal punto di vista ontologico non coglierebbe la differenza tra ciò che è vivo e ciò che non è vivo.
Beh, ma infatti questa è una differenza che cogliamo (o meglio costruiamo) noi e per Spinoza forse non ha l’importanza che ha per noi: ogni corpo è un corpo fatto di moltissimi corpi.
Sì, ma la domanda cruciale è: dove comincia la vita? ossia anche dire che non c’è differenza è un assunzione metafisica.
Così come dire che c’è.
Si può costruire ugualmente un monismo pur evidenziando la discontinuità tra vita e non vita.
Quel che però a me preme di più non è il “monismo”, o meglio… mi interessa ragionare in termini di immanenza, cioè non stabilire gerarchie infondate (o fondate solo sulla nostra immaginazione): una zecca, un minerale, un umano stanno sullo stesso piano, che non vuol dire che non siano differenti.
Il problema vero è che questa cosa è impossibile: siamo organismi umani che ragionano con cervello umano, se si può parlare di una gerarchia dell’essere o delle cause ci è suggerita dal corpo.
Io penso che sia la nostra immaginazione a suggerirci gerarchie: il corpo fa il suo mestiere di corpo, al pari degli altri.
Allora poniamo un evento x a livello diciamo ontologico; le cause dell’evento x sono tutte equivalenti, l’evento poteva essere diverso solo se una delle cause era diversa. Il problema è capire quando un qualcosa comincia a diventare causa: Napoleone perse in Russia per il gran freddo, tra le altre cose, però una temperatura di 20 gradi centigradi non credo verrà mai annoverata tra le cause di una disfatta di un condottiero, né tra le cause di un’eventuale vittoria, eppure a livello ontologico dovrebbe valere la massima che tutte le cause sono equivalenti.
Sono tutte cause in quantità diversa.
Per un uomo alcune influiscono altre no, o meglio alcune hanno prevalenza su altre.
Questo perché siamo stati noi a selezionarle, catalogarle, gerarchizzarle, ma pensale come un unico flusso indistinguibile.
Sì, ma il criterio non e’ casuale, che è comunque un nostro pensiero beninteso, anzi e’ suggerito dalle risposte del corpo.
Del nostro corpo, certo. Forse però è bene chiarire che quando parlavo di gerarchie…
Appunto per questo dico che la conoscenza non potrà che essere sempre e comunque umana in senso forte: alcuni termini come libertà e necessità non credo avrebbero molto senso se materialmente non avvertissimo una resistenza esercitata dagli oggetti sul nostro corpo o un impedimento.
Certo, ma questo non può che portarci a conclusioni materialistiche, “monistiche”, immanentistiche e soprattutto antifinalistiche.
Beh no, perché io non nego l’interiorità, anzi la differenza tra il vivo e il non vivo per me sta nella dimensione interiore.
Vivo uguale non materia? forse è bene intendersi anche sul concetto di materia che per me è praticamente tutto ciò che è: la physis greca.
Vivo: materia mossa da almeno un fine che sia anche la mera autoconservazione
Ma non è un fine.
Giusto, sarebbe circolare.
Sì.
Allora vediamo una formulazione piu convincente… e’ di quelle cose chiare nella mente ma non abbastanza… creatura che mantiene un’unità nonostante la sua struttura sia in continuo mutamento… un uomo e’ un individuo nonostante ogni sua singola cellula si trasformi costantemente grazie al metabolismo.
Un individuo fatto di individui, le cellule sono individui, la vita è un enorme individuo.
E’ un bel problema, questa definizione sembra funzionare per le macrostrutture ma non per il resto, la mia intendo…
Ma c’è qualcosa che non sia all’interno di una macrostruttura?
Il problema di Spinoza a questo punto non è la vita, è la morte.
Aaaahhhh!
O meglio, la dicotomia morte/vita.
Punto delicato che lui evita accuratamente.
Forse il mio problema più che altro…
Ah ah! Beh, se intendiamo la vita come macroindividuo, la morte per certi aspetti non esiste, sono mutamenti interni ad una struttura che si autoalimenta. Spinoza se la svigna…
Il problema vero…
…lui dice che basta non pensare alla morte.
…è che io riconosco una differenza tra vita e morte, e qua gasandomi un po’ dico: ha valore metafisico “io” come essere vivente (ancora un passo e divento Aristotele!).
Ah ah! su questo magari discutiamo in un’altra occasione, anzi te lo propongo proprio come oggetto della nostra prossima discussione.
Ma fare il “filosofo” di questi tempi è una cosa impossibile? La mia massima aspirazione sarebbe studiare tutta la vita e scrivere, devo trovarmi un’ereditiera?
mi piace l’idea di una chatsofia, non sono certo docente di filosofia, perciò non sarei di aiuto a nessuno di voi… ma ho tanta vita da comunicare all’orlo dei miei 32 anni che credo un po’ di filosofia mi aiuterebbe a riflettere sulle tante vicende di me del mondo delll’essere, del divenire… senza trarne cocnclusioni perchè alla fine all’alba del disincanto del nostro millanio tutto è vano… ma chissà. forse un o’ della mia esperienza potrebbe raddrizzare ceri pensieri o forse è solo una goccia nel mare delle miserie di cui facciamo parte