(Pubblico qui, a beneficio dei miei “allievi”, la prima delle tracce del corso propedeutico alla filosofia che sto tenendo presso la biblioteca di Rescaldina. È un ciclo di sei lezioni – dunque la programmatica impossibilità di trattare esaurientemente uno qualsiasi dei pensatori, concetti o problemi della storia della filosofia. Diciamo che si tratta di un “aperitivo filosofico” per palati a digiuno, ma affamati e motivati dal desiderio di conoscere. Magari qualche lettore del blog, pur avendo ormai consumato parecchie cene, può trovarle utili o interessanti. Naturalmente saranno un po’ insapori e incolori, inevitabilmente “prosciugate” in favore della sintesi, oltre che prive del variegato gusto dell’oralità, delle digressioni, delle domande, del dialogo, dell’interazione tra le persone – insomma, più “lettera” che “spirito”).
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1.
Di fronte al “mostro sacro”.
Già solo a sentir nominare la parola “filosofia”, si è portati a pensare a qualcosa di troppo difficile (se non incomprensibile), di astratto (se non astruso), lontano dalla realtà, per pochi, inutile…
C’è del vero, ma anche del falso in questi “luoghi comuni” (e così ci abituiamo fin da subito ad una delle specialità filosofiche: i paradossi!).
Falso: in realtà non c’è nessun essere umano che non si faccia, almeno una volta nella vita, delle domande squisitamente filosofiche: perché sono qui? che senso ha la mia esistenza? da dove vengo? dove vado? che cos’è la morte? e così via. Io parto sempre dal presupposto che tutte le domande sono importanti (anche se, in verità, non tutte le risposte lo sono altrettanto). Però le domande filosofiche hanno una peculiarità particolare: esse non hanno a che fare con la quotidianità dell’esistenza o con i bisogni primari, bensì ricercano il senso – addirittura il senso “assoluto”, essenziale, fondamentale, ultimo – delle cose. Ma per far ciò…
Vero: fare filosofia richiede l’esperienza dello straniamento. Per filosofare è necessario cioè “astrarre”, nel senso di “allontanarsi” dal senso comune, dalla normalità, dalla quotidianità, dalle cose di tutti i giorni. Uscirne fin quasi a guardarle dall’esterno, come se non ci riguardassero in prima persona – quasi a volersi sollevare per i capelli come vorrebbe fare il Barone di Munchausen! Eppure capita a tutti di fare questa esperienza di “estraneazione”: bloccarsi all’improvviso, guardare il mondo e le persone, e soprattutto se stessi, e trovare tutto ciò “strano” – estraneo, incomprensibile, lontano, privo di senso.
Anche le esperienze emotive della noia, della paura, dell’angoscia generano questo strano disagio esistenziale che talvolta ci assale: eccoci giunti allora, senza volerlo, alle soglie della filosofia e del suo radicale domandare.
Proviamo ora ad osservare la parola: filosofia.
Forse la sua scomposizione etimologica ci metterà sull’avviso di che cosa ci nasconde. Essa viene dal greco:
philèin, philìa = amare, amore, amicizia
sophìa = sapienza
Dunque il filosofo è colui che ama la sapienza (lasciamo per ora tra parentesi di che tipo sia questa sapienza), ma non è detto che la possieda o che sia in grado di raggiungerla. Egli innanzitutto, come tutti gli innamorati, aspira, tende, desidera, brama, è attratto – la conoscenza filosofica è dunque un’esperienza che potremmo definire per certi aspetti erotica e seduttiva. Ma si può benissimo non essere riamati/ricambiati dalla persona che si ama. Il filo-sofo, come l’innamorato, non ha alcuna garanzia che l’oggetto amato risponda alla sua viscerale passione.
Veniamo ora all’oggetto: che tipo di sapienza è quella ricercata?
Dobbiamo innanzitutto guardare alla storia della filosofia e ai primi filosofi. Cominciamo con il definire per negazione l’oggetto filosofico, ciò che la filosofia desidera conoscere: non è mito, non è religione, non è credenza o fede, non è superstizione, non è tradizione. Tutte quelle immagini, quei miti, quelle credenze, quelle spiegazioni talvolta fantastiche sulle origini del mondo – l’insieme di “narrazioni” (che è poi il significato profondo della parola mythos) tramandate dal passato non soddisfano più.
La parola sophìa riguarda ora un campo nuovo del conoscere, qualcosa che deve essere ricercato con uno strumento di cui tutti siamo naturalmente dotati: la ragione, il lògos, il nous. La realtà è conoscibile in modo razionale. Questo è il requisito essenziale affinché possa nascere la scienza (epistème in greco): un sapere che inizalmente fa tutt’uno con la filosofia. Solo oggi noi parliamo di filosofia e di scienza, come di cose separate – ma in origine la sapienza è una sola, ed è quella che spiega il mondo attraverso la ragione.
Quel che si richiede al filosofo è dunque non soltanto la passione e la tensione verso il conoscere, ma l’ulteriore sforzo dell’autonomia di giudizio: ragionare con la propria testa, e non con quella del mito o del senso comune. Non accettare più le spiegazioni della tradizione, ma vagliarle e verificarle e, se non risultano razionali, respingerle come fantasia o superstizione. E per far ciò occorre innanzitutto saper osservare e fare esperienza del mondo, della natura, di quel che esiste.
Difficoltà: ma chi ci garantisce della adeguatezza di questa forma di sapere? chi ci dice che la nostra ragione sia davvero in grado di comprendere la realtà? e che la realtà si faccia leggere in modo razionale? Non può essere anche questa una cosa illusoria?
In effetti, nessuno ce lo può garantire, se non la ragione stessa. L’autonomia di giudizio comporta sempre dei rischi. Si viene così a stabilire un nuovo rapporto tra certezza e incertezza. Le “vecchie” forme di sapere tendevano a rassicurarci, a farci accettare il mondo così com’è, senza tante domande; la filosofia, al contrario, non garantisce il raggiungimento della certezza assoluta, e pretende che non si stia a guardare il mare dalla riva: solo buttandosi in acqua si può imparare a nuotare!
Ma lasciamo ora questa parte introduttiva per dare finalmente uno sguardo alle teorie dei primi filosofi…
2.
La prima triade filosofica compare in Asia Minore, tra il VII e il VI secolo a.C., in un ambiente cittadino, “borghese” e dinamico (che ci suggerisce anche una relazione importante tra conoscenza e società): Talete, Anassimandro, Anassimene, la cosiddetta scuola di Mileto. Questi primi filosofi-scienziati sono alla ricerca dell’arché. Cioè: della causa originaria, del principio fondamentale, della vera sorgente della realtà, della legge unitaria che la regola e la ordina.
Alcuni elementi emergono prepotenti in queste teorie: la totalità, l’unità del cosmo – possiamo anche parlare di cosmologie – l’idea cioè di una physis (natura) unitaria e autogovernata, senza alcun intervento esterno o divino.
L’acqua per Talete, l’àpeiron per Anassimandro, l’aria per Anassimene costituiscono l’arché. Come si può notare si tratta di principi diversi tra di loro, su cui tre filosofi della medesima “scuola” e città evidentemente non concordano. Ma quel che ci si aspetta dai filosofi non è tanto l’accordo, quanto la discussione pubblica e ragionata delle loro teorie: prevarrà la teoria che sarà più convincente sul piano razionale. La cosa più interessante è che tutti potranno effettuare questo controllo e partecipare alla discussione.
Mi soffermo brevemente sul concetto di àpeiron (“infinito”, o meglio “indeterminato”) di Anassimandro. Si afferma qui, per la prima volta, un principio astratto, non legato a nessuna sostanza particolare (come potevano essere l’aria o l’acqua, pur essenziali per la nascita e lo sviluppo della vita): dal caos originario, dall’indeterminato si originano tutte le cose esistenti (dunque determinate, con caratteristiche, forme e confini precisi), che sono destinate dalla loro stessa condizione di enti finiti e determinati a tornare nello stesso caos da cui provenivano. Emerge una concezione tipica della filosofia presocratica (precedente a Socrate): quella che mette al centro il concetti di “ciclo”, di “rotazione” e di “divenire” degli “enti” (cioè di tutte le cose che sono). Non solo: la nascita e l’apparizione di un nuovo ente, la sua venuta al mondo, richiede che un altro ente gli faccia spazio e che venga “cacciato” dalla sfera dell’esistenza. Ma il nuovo ente subirà necessariamente la stessa sorte del precedente.
Conflittualità che ritroviamo in modo potente in Eraclito: famoso per l’espressione ta panta rèi (“tutto scorre”, frase che però non troviamo nei suoi frammenti) e per alcune teorie fondamentali per tutta la storia della filosofia. Le accenno brevemente: pòlemos (la guerra, il conflitto) è padre di tutte le cose; il divenire è il carattere essenziale della realtà (famosa la metafora che “non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”); ma, ancora più importante, è la teoria dell’unità degli opposti come legge fondamentale (lògos) del cosmo. La vita non esiste senza la morte, il giorno senza la notte, la guerra senza la pace, il pari senza il dispari, l’essere senza il nulla: ciascun opposto richiama l’altro, e solo la loro unità garantisce “l’armonia del tutto”.
Parmenide introduce nel pensiero filosofico una frattura radicale: nasce l’ontologia, la scienza dell’essere. Cioè quella parte essenziale della filosofia che si fa la domanda delle domande: che cos’è l’essere? perché c’è anziché non esserci? che senso ha? Con “essere” si deve intendere il concetto più ampio che la nostra mente sia in grado di pensare – poiché non c’è nulla al di fuori di questo concetto, e se ci fosse sarebbe sempre “essere”.
Parmenide pensa che esistano due vie per conoscere: la via della verità (che è quella filosofica, e, soprattutto, ontologica) e la via dell’opinione (cioè quella del senso comune, della “doxa“, del “si dice” senza esser sicuri di quel che si dice). Egli contrappone in questo modo verità e apparenza, ragione e sensibilità, unità logica e molteplicità/divenire delle cose. L’unica verità ammissibile diventa quella che dice che “l’essere è” e che il “non essere non è” – che è una verità logica, inattaccabile e incontrovertibile. Poiché ogni singola cosa esiste – “è” -, essa non può non essere – ma questo significa che essa non può nemmeno divenire (altrimenti prima e dopo non sarebbe), e non può nemmeno essere quella singola cosa tra le altre cose (perché allora ci sarebbe qualcosa fuori dal suo essere). Insomma: un vero e proprio rebus logico, da far perdere la ragione!
Sono celebri i paradossi di Zenone, allievo di Parmenide, contro la molteplicità e il movimento (specie quello di “Achille e la tartaruga”: Achille non raggiungerà mai la tartaruga partita con un certo margine di vantaggio, perché questa avrà sempre percorso un tratto – progressivo all’infinito – prima che l’eroe riesca a raggiungerla). Possiamo dire che con la scuola di Parmenide (detta anche di Elea, dal nome della sua città, in Magna Grecia, da cui “eleatismo”) si ha la nascita ufficiale del ragionamento logico.
Ma torniamo al nostro “duello” tra divenire e immutabilità dell’essere. Come viene risolta questa opposizione così drammatica tra mondo logico e mondo sensibile, tra ragionamento e percezione, dai filosofi successivi?
La linea di pensiero che si va affermando è quella di pensare ad una realtà a due livelli, con un primo livello di elementi immutabili ed eterni, ma plurali, che interagendo tra di loro danno luogo al secondo livello, costituito dalla realtà visibile e sensibile, così come si presenta alla nostra esperienza percettiva.
Esporrò brevemente le teorie di alcuni di questi pensatori, definiti dagli storici della filosofia “pluralisti”, e autori di soluzioni a mio parere molto eleganti.
Empedocle. Il primo livello è costituito dalle quattro radici (aria, acqua, fuoco, aria) e dalle due forze opposte di odio/amore (che potremmo tradurre con attrazione/repulsione). Queste forze mescolando, unendo e dividendo i 4 elementi materiali, danno luogo alla realtà fisico-naturale. E, insieme, al succedersi dei cicli cosmici – dato che per i greci il concetto di “creazione” è inammissibile, la realtà è eterna e nulla può essere creato dal nulla o distrutto.
Anassagora. Con questo pensatore la filosofia fa il suo ingresso ad Atene (non proprio trionfale, visto che verrà subito cacciata con l’accusa di empietà e materialismo). Per lui sono i semi da una parte (omeomerie come le chiamerà Aristotele, o qualità sensibili) e il nous (intelligenza) dall’altra, a costituire i fondamenti della realtà. Ogni seme (che potremmo avvicinare agli elementi della tavola chimica o, per essere più precisi, alle infinite qualità di cui i corpi sono costituiti: carne, sangue, peli, materia vegetale, acqua, minerali, pietra, aria, calore, ecc.) è presente in proporzione diversa in ogni cosa. Affinché una cosa sia fatta di carne, ad esempio, deve prevalere in essa il seme della carne. Ma la grande novità nel pensiero di Anassagora sta nel concetto di nous: per la prima volta un principio intelligente compare in una teoria scientifica. Rimane dubbio se questa intelligenza comporti anche un disegno o un fine nell’organizzazione del cosmo e della natura.
Democrito. Nasce con questo pensatore una spiegazione di tipo radicalmente materialistico. La realtà è fatta di atomi (particelle non ulteriormente divisibili: a-tòmos, è ciò che non può essere diviso), e questi mescolandosi danno luogo alle cose sensibili. Il loro riunirsi fa nascere i corpi mentre il loro dividersi li fa morire – ma ciò che li muove è pura forza meccanica. Gli atomi sono eterni, e dunque tutte le cose si trasformano incessantemente. Democrito ammette anche l’esistenza del vuoto, senza il quale il movimento degli atomi non potrebbe avvenire. Nel cosmo non c’è nessuna intelligenza o finalità, tutto avviene secondo la legge della necessità. Per la prima volta compaiono i concetti scientifici di necessità meccanica e di determinismo.
3.
Per concludere: c’è qualcosa di queste teorie che ci può ancora interessare, al di là del loro significato storico? Rispondere “sì, tutte quante”, non sarebbe molto onesto. L’acqua o l’aria o il fuoco (nel caso di Eraclito) come arché, ci appaiono abbastanza improbabili. Anche l’indeterminato di Anassimandro è un concetto al quanto generico. Per non parlare di quella teoria piuttosto strana dei 4 elementi e dei principi di attrazione e repulsione (anche se… la legge di gravitazione universale, o le attuali teorie sull’espansione dell’universo non utilizzano concetti così differenti).
Cominciamo allora a vedere come alcuni concetti e categorie siano in realtà ben vivi e presenti nei nostri discorsi: la matematizzazione del mondo di Pitagora (di cui purtroppo non riusciremo a dir nulla); il determinismo di Democrito o l’alternativa finalistica di Anassagora; il chiedersi se c’è una legge generale che governi il cosmo; ma ancor più la questione delle questioni: il conflitto tra sensibilità e ragione (che poi diventerà quella tra corpo e anima, e oggi tra mente e cervello); oppure tra doxa e scienza…
Ma persino una filosofia così lontana e austera dalla vita quotidiana qual è quella di Parmenide, con la sua esclusiva “via della verità”, può risultare ancora attuale: chiedersi “che cosa è l’essere”, perché c’è anziché non esserci, che significato ha – e dunque qual è il nostro stesso significato, ammesso che esista – sono domande che dopo 2500 anni possono benissimo risuonare ancora nella nostra mente. Inutile scandalizzarcene o pensare che siano una perdita di tempo: esse nascono, perché è un bisogno costitutivo degli umani, perché noi siamo degli “animali metafisici”. Si vive benissimo anche senza – ma il farsi domande, talvolta così astratte, è una peculiarità della nostra specie.
Ma di questo riparleremo…
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Bibliografia recente:
J. Warren, I presocratici, Einaudi 2009
G. Gangi, I Presocratici: l’anteprima filosofico, Edizioni clandestine 2010
Approfondimenti nel blog: sullo straniamento, su Anassimandro, su Anassimene, su Eraclito, su Parmenide, su Empedocle.
Continua con questi “aperitivi”…come si dice, l’appetito vien mangiando. Sei lezioni? perche’ non di piu’?
Cmq grazie sempre…