Noi vedremo come nel corso dell’Ottocento si avvia una integrale opera di de-assolutizzazione, de-mitizzazione, de-sacralizzazione di tutte le categorie consolidate del pensiero filosofico. Si viene cioè preparando in quel secolo l’età della crisi delle certezze che caratterizzerà il Novecento e che non pare essersi ancora conclusa. Ogni ordine va in pezzi e lo stesso rapporto soggetto-oggetto entra in crisi: non solo non c’è più un oggetto (una natura) ordinato e stabile, ma anche il soggetto (l’io cartesiano) comincia ad incrinarsi fino ad andare in frantumi. Tale grave crisi, che porterà al declino del concetto classico di verità (e che Nietzsche ha sintetizzato con la fortunata formula della “morte di Dio”), investirà tutti i campi: non solo la filosofia, ma anche il sapere scientifico, la rappresentazione della realtà, la società, la mentalità, la cultura e – in particolare nel Novecento – l’arte, la pittura, la musica…
E’ quella che Emanuele Severino ha definito in termini di “distruzione dell’epistème” (cioè del fondamento ultimo del sapere scientifico) o degli immutabili: tutto vacilla, e ogni teoria può (anzi deve) essere revocata in dubbio.
Vediamo ora di ricostruire brevemente la “genealogia” di questa crisi, che comincia proprio (un po’ paradossalmente) con il filosofo più sistematico che la storia della filosofia abbia mai conosciuto: Georg W.F. Hegel.
1. Hegel
La questione del rapporto soggetto/oggetto si fa centrale nella filosofia hegeliana, che la assume addirittura come chiave di lettura del mondo. Ma è la categoria di “spirito” – che possiamo tradurre anche come “storicità” – ad assumere un ruolo rilevante.
La sostanza – dice Hegel – va ora intesa come soggetto, e la verità è il divenire di se stessa: cioè, la natura (l’elemento oggettivo) ha in sé l’impulso a divenire soggetto, ad individualizzarsi, a spiritualizzarsi: e tale compito è tipico dell’essere umano. Come dire che la storia umana è un incessante movimento di ampliamento della coscienza, fino a diventare addirittura l’autocoscienza del mondo. Nell’uomo, secondo Hegel, l’idea (o la ragione) si realizza e si ri-conosce in quanto tale. Ma per farlo deve attraversare una lunga storia (fatta di conflitti, di drammi e di lacerazioni – cioè di incessanti movimenti dialettici, di affermazioni e negazioni) e attingere attraverso questa storia il proprio significato profondo. E’ come se la struttura logica del mondo si incarnasse nell’umanità e solo così fosse in grado di rivelarsi. Hegel sostiene infatti la razionalità del reale e, insieme, la realtà della ragione. Ma non è nella natura (ovvero nell’oggetto) a compiersi tutto ciò, quanto piuttosto nello spirito, nella storia politica, nella cultura, nella religione, nell’arte, nella filosofia. Il massimo di razionalità del mondo (il rivelarsi dell’idea in quanto idea) si ha solo nelle manifestazioni umane, e specialmente in quelle che riguardano la sfera spirituale più alta, al cui vertice sta naturalmente la filosofia.
2. Marx
Tale centralità del concetto di storia finisce dritto dritto nel pensiero di Marx, che se da una parte critica quella che lui chiama “teologia speculativa”, l’idealismo o l’eccessivo spiritualismo di Hegel, dall’altra – pur rimettendo sui suoi piedi la realtà capovolta (facendo quindi derivare le idee dalla materia e non viceversa: materialismo, non idealismo) – egli mantiene tuttavia la centralità hegeliana della storia (e insieme la sua concezione dialettica: cioè l’incessante conflittualità, l’antagonismo delle classi, ecc.).
Con Marx si fa un ulteriore passo avanti nella crescita della coscienza storica: le società umane non sono date naturalmente, ma sono frutto della storia umana, e dunque soggette a continui mutamenti. Lo “spirito” hegeliano diventa nell’analisi marxiana “lavoro” o “attività” generica (cioè attinente al genere umano, alla sua essenzialità). Gli esseri umani costruiscono il proprio mondo (materiale e, conseguentemente, spirituale) attraverso il lavoro. Nella società capitalistica il frutto di questa attività (ed anzi, l’attività stessa e tutte le facoltà umane) vengono rese estranee: l’alienazione comporta scissione, ingiustizia, perdita di senso, mercificazione, reificazione (cioè il diventar cosa di ciò che per essenza non può esserlo).
Ma se “i filosofi hanno finora interpretato il mondo, si tratta ora di trasformarlo”: cioè, per togliere tale alienazione (e le ingiustizie e scissioni che ne derivano) occorre agire: diventa centrale in Marx la categoria di prassi (e nella fattispecie di prassi rivoluzionaria).
Questo vuol dire che le società non hanno nulla di immutabile (o “naturale”, nel senso di dato una volta per tutte), e poiché sono il risultato dell’opera umana, possono essere trasformate.
3. Darwin
Ma è con Darwin (che non a caso Marx ebbe a elogiare) che si viene de-assolutizzando persino la categoria di natura. Crolla così un altro immutabile, poiché la vita (come la società umana) è a sua volta diveniente, muta ed ha una sua storia (anche se su tempi lunghissimi, “ere geologiche”).
Le conseguenze delle scoperte darwiniane sono enormi:
-innanzitutto scompare l’idea del “disegno” (divino o razionale che sia): la natura, pur seguendo determinate leggi, non ha uno scopo prefissato, ed in essa rientra anche il caso evolutivo;
-in secondo luogo – dopo Copernico e Galilei – l’uomo viene ancor più decentrato: non solo la Terra non è più al centro del cosmo, ma nemmeno l’uomo è al centro della natura, egli è un animale tra gli altri, soltanto una scimmia col cervello più grosso, nulla di più.
Ma si innesca qui uno straordinario paradosso su cui vorrei richiamare la vostra attenzione: il superamento di questa centralità umana non si risolve affatto in una sua umiliazione o in un abbassamento della cresta. Anzi, il fatto di non stare più su un piedistallo garantito, sembra piuttosto moltiplicare i suoi sforzi di espansione e di conquista: dall’Ottocento in poi la commistione di tecnica e capitalismo ha aumentato a dismisura la potenza delle società umane (a partire da quelle occidentali), fino a far diventare la specie Homo sapiens quella dominante (e potenzialmente più pericolosa) del pianeta.
Cosa che non sfuggirà, come vedremo, a Nietzsche.
4. Schopenhauer
Ma prima di Nietzsche occorre dare uno sguardo a Schopenhauer, un filosofo che viene di solito associato ad una forma universale di pessimismo.
Schopenhauer mi serve per introdurre l’immagine della rottura del “velo di Maya” (concezione derivata dalla filosofia indiana, in particolare dalle Upanishad) che sarà un tassello fondamentale del discorso che stiamo facendo, e che però si rivelerà chiaro solo al termine.
Schopenhauer si proclama seguace di Kant, e parte proprio dalla Critica della ragion pura e dalle teorie kantiane che riguardano la nostra conoscenza del mondo: spazio, tempo, causalità solo le categorie a priori che ci consentono di costruire il mondo, di rappresentarcelo: il mondo, dice Schopenhauer, è la nostra rappresentazione – anzi la mia rappresentazione.
Ma è solo dietro questa rappresentazione (dietro questo apparente ordine, che oltretutto ci consente di vivere e di organizzare la nostra esistenza), che si cela la verità – (corrispondente al noumeno kantiano, ciò che sfugge ad ogni rappresentazione conoscitiva). Secondo Schopenhauer è il nostro stesso corpo a rivelarcelo, dato che noi non siamo “alate teste d’angelo”, ma possediamo – anzi siamo – un corpo. E questo corpo, innanzitutto, vuole, desidera (si consideri qui la presenza di un filo che da Spinoza arriverà poi a fino a Freud, e nella cui tessitura concettuale si inserisce anche Schopenhauer). La volontà è ciò che regge il mondo (un po’ come il conatus spinoziano, se vi ricordate), ma qui Volontà è una forza metafisica vera e propria a cui ogni altra forza è riducibile. E questa volontà è cieca e irrazionale, non ha alcuno scopo se non quello di perseguire se stessa, di affermarsi come purà volontà di vivere – e facendo ciò essa divora i propri figli, non curandosi né degli individui e nemmeno delle varie specie che si succedono. Anche in Schopenhauer sembra affacciarsi la categoria di “lotta per l’esistenza”.
Dietro il velo di Maya (l’illusoria realtà) si nasconde una verità crudele e terribile – quella su cui anche Leopardi andava riflettendo nello stesso periodo.
5. Nietzsche
Friedrich Nietzsche parte da questa stessa concezione di Schopenhauer, togliendole però (un po’ come Marx aveva fatto con Hegel) ogni carattere metafisico e trascendente, e la fa diventare molto più terrestre ed immanente.
Nietzsche recupera anche alcune categorie filosofiche ed estetiche dei Greci, in particolare l’antica opposizione di apollineo e dionisiaco (che lui vede realizzata nella tragedia classica).
L’apollineo (l’ordine, la forma, l’armonia) tipico della civiltà occidentale ha di fatto operato una rimozione dell’aspetto dionisiaco della realtà – la vitalità, l’istinto, l’informe, l’irrazionale – con il risultato di società represse e mutilate, e di una verità dimezzata (anzi, del tutto falsificata).
Nietzsche denuncia il primato di Platone e dell’idealismo (il livello delle idee, dell’anima, della spiritualità) contro la verità dionisiaca: cioè la vitalità, l’impulso, la forza, l’istinto, il nostro essere innanzitutto terrestri (e non divini o ideali). E’ la corporeità (che in Freud sarà libido) a diventare così centrale. Ecco allora che deve essere criticata alla radice tutta la civiltà occidentale con la sua falsificazione dei valori e fuga dalla realtà (platonismo, cristianesimo, repressione degli istinti, morale gregaria e da schiavi, ecc.). Nietzsche predica un vero e proprio rovesciamento etico ed antropologico che comporta la morte di Dio (o se si vuole di tutti gli dèi e dei valori assoluti) e l’avvento del superuomo (übermensch, che sarebbe meglio tradurre con “oltreuomo”).
L’oltreuomo (l’uomo nuovo, che sorgerà dalle ceneri del vecchio “spiritualista” e “represso”), avrà il coraggio di dire sì alla vita (anche se questo vorrà dire conflitto e tragicità dell’esistenza), non si inventerà falsi dèi e miti, e si assumerà il compito di diventare il creatore di se stesso – cioè di tutti i significati: ogni cosa dipenderà dalla sua prospettiva, dal suo punto di vista, dall’interpretazione che vorrà darne. L’oltreuomo regge al nichilismo (che in realtà era l’essenza dei precedenti ordini metafisici, del tutto falsi e campati in aria, in quanto fughe dal mondo), perché egli è in grado di ricostruire tutti gli ordini e i significati possibili, a partire da sé, dalla propria vitalità e libertà assoluta. E dalla propria volontà di potenza: cioè dalla propria assoluta (e vertiginosa) possibilità e capacità di autodeterminarsi.
6. Conclusione
Non è un caso che abbia finora citato più volte Freud, che insieme a Marx e a Nietzsche (pur da posizioni e analisi diversissime) concorrono – come sostiene un filosofo francese contemporaneo, Paul Ricoeur – a distruggere e a mettere in una posizione di “sospetto” tutte le verità precedenti. Il velo di Maya (le illusioni di un ordine, di un mondo stabile e armonico, finalizzato, immutabile, “amichevole”) viene squarciato per sempre. E quel che c’è dietro ha un volto spesso inquietante o (per usare un termine caro a Freud) perturbante. L’antico mondo razionale e ordinato cede il passo ad una dose crescente di irrazionalità. La certezza cartesiana di poter conoscere il mondo (e persino se stessi) entra così in crisi.
Tuttavia questi tre pensatori (nessuno dei quali, non a caso, corrisponde alla figura classica del filosofo) assumono tutto ciò in chiave di radicalità conoscitiva, insieme distruttiva e ricostruttiva.
Marx intende porre la questione di una direzione razionale della storia e di una realizzazione onnilaterale dell’individualità umana (falsissima l’interpretazione di un Marx livellatore, laddove è semmai il capitalismo a livellare ed omologare).
Freud intende portare in primo piano “il lato oscuro”, e tentare di spiegare scientificamente l’inconscio, il mondo onirico e in particolare la sfera della sessualità che fino ad allora era stata del tutto trascurata e rimossa (compresa la libido infantile). Il problema della visione freudiana inciampa però nella relazione individuo/società: se l’individuo è infelice e nevrotico perché deve reprimere i propri istinti, d’altro canto il cosiddetto “disagio della civiltà” è pur sempre un prezzo ragionevole da pagare. La soluzione suggerita da un pur pessimista Freud è quella di una mediazione tra istinto individuale e potere.
Infine Nietzsche apre la strada di un radicale relativismo (o meglio, prospettivismo): un nuovo tipo antropologico (il superuomo) deve assumere su di sé interamente la propria condizione di totale solitudine cosmica, poiché nessun Dio lo potrà salvare. Egli deve così costruire da sé tutti i significati, a partire dalla propria condizione terrestre, che è pura volontà di potenza: nessuna natura, sostanza, assoluto, infinito (ma anche nessuna chiesa, stato, progresso, storia) sono in grado di offrire garanzie. Ora egli si trova in un immenso mare aperto di possibilità: “finalmente possiamo di nuovo scioglier le vele alle nostre navi” – scrive Nietzsche nella Gaia scienza – anche se ciò comporta il “muovere incontro a ogni pericolo“. Una libertà dunque pericolosa, incerta, non garantita – ma senza più le dande degli assoluti. L’essere umano è l’unico ab-solutus, sciolto ormai da ogni dipendenza o catena metafisica.
Bel post, indicativo direi!
Su Vongole & Merluzzi ci ci chiede invece se il “mito della psicoanalisi” può condurre all’individualismo!
Spero avrai modo e voglia di ricambiare la visita 😉
http://vongolemerluzzi.wordpress.com/2011/05/21/psicofornication/
ma certo lordbad!
La rappresentazione della rappresentazione