“… e nel farsi comandare
ha trovato la sua nuova libertà”
(G. Gaber)
“Portare alla luce quell’Ingovernabile, che è l’inizio e, insieme, il punto di fuga di ogni politica” – con tale auspicio Giorgio Agamben conclude la sua lezione-saggio intitolata Che cos’è un dispositivo? Non posso qui dilungarmi nell’analisi (di tipo genealogico) del concetto di dispositivo, utilizzato da Foucault fin dagli anni ’70, alle cui spalle c’è il concetto hegeliano di positività e, prima ancora, la latina dispositio e l’oikonomia teologica – anzi, premetto subito che questo risulterà forse un post piuttosto denso ed ellittico, ma qualche esempio addotto qua e là potrà renderlo più comprensibile (ad ogni modo, il testo di Agamben è stato pubblicato nel 2006 da Nottetempo nella collana “I sassi“, quella serie di libretti a 2-3 euro che ricorda un po’ i vecchi e geniali Millelire di Stampalternativa).
Intanto comincio con il riassumere brevemente il significato di dispositivo – prima con le parole di Agamben: “qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi”; – e poi con la mia personale sintesi: il già-dato-e-prodotto tendenzialmente automatico e meccanizzato della rete sociale (una vera e propria ontologia sociale, così come esiste un già-dato dell’elemento biologico) che non solo avviluppa gli individui, ma che soprattutto ne produce (o destruttura) le soggettività. A tal proposito Agamben ipotizza addirittura una partizione ontologica tra due vere e proprie classi: gli esseri viventi e i dispositivi. Nel mezzo i soggetti, quali prodotti del “corpo a corpo” tra le due classi.
Ma del discorso di Agamben vorrei riprendere altri due punti: uno metodologico e teoretico, l’altro esemplificativo.
Il punto teorico riguarda la produttività ermeneutica (interpretativa) di una teoria o di un concetto presenti in un testo o in un autore: c’è un momento in cui l’ermeneuta (il lettore-interprete) si appropria di quella teoria o di quel concetto, “esportandoli” nella propria visione (era quella che Feuerbach definiva Entwicklungsfähigkeit, cioè “capacità di sviluppo”). Così come Agamben fa con Foucault, vorrei fare anch’io (molto più modestamente) con lui. E qui mi servo dell’esempio per chiarire un po’ meglio il significato di dispositivo (quantomeno per illustrarlo e tentare di catturarlo): l’avere irretito in breve tempo la popolazione del pianeta con i telefoni cellulari prima, e con le reti e i social network poi, è una manifestazione visibile di ciò che si debba intendere con il termine dispositivo.
Naturalmente gli oggetti (i telefoni, i computer, i server, gli ipad, ecc.) sono solo meccanismi, parti tangibili di un sistema – ma è a livello mentale, o meglio antropologico, che il dispositivo agisce e dispiega tutta la sua potenza. In larghezza e profondità, fino a coprire tutti i corpi e le menti, e a produrne e riprodurne le rappresentazioni, i desideri, l’immaginario. Non si tratta nemmeno di controllo sociale o di potere diffuso (certo, ci sono anche questi aspetti), ma di automatica adesione al dato. Il dispositivo agisce cioè come il linguaggio: delinea il modo di essere (profondo, ontologico-sociale) di ciascun individuo. E’ una vera e propria strategia produttiva di significati e di comportamenti sociali (occorrerebbe qui chiarire anche il senso del termine strategia, apparentabile senz’altro al dis-porre – dispònere – su cui dispositivo è costruito: e cioè, porre con un certo ordine e secondo un dato disegno o fine; nel caso della strategia tale disegno o fine è sempre a lungo termine e di ampio respiro).
Complico un poco il discorso introducendo due concetti affini (a mio parere) a quello di dispositivo: automatismo e abitudine. Damasio utilizza il primo a proposito dell’omeostasi, cioè di quel complesso di “dispositivi naturali e automatici” che regolano gli “equilibri metabolici, appetiti, emozioni”, ciò che costituisce “l’accesso alle soluzioni automatiche per risolvere i problemi fondamentali della vita” da parte di tutti gli esseri viventi (sto citando il testo Alla ricerca di Spinoza, p. 202; dove trovo significativo che il termine utilizzato sia proprio dispositivo, per quanto non abbia qui una valenza filosofica).
Mentre Hegel, in tutt’altro contesto, conduce una vera e propria (quanto insospettabile) apologia dell’abitudine: cioè di tutti quei comportamenti automatici e meccanici del corpo senza i quali l’anima (cioè la punta più avanzata del corpo) non potrebbe crescere, espandersi e, soprattutto, accedere al processo spirituale di liberazione e di costruzione di un proprio mondo (si veda a tal proposito il paragrafo 410 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, dove viene tra l’altro detto: “Dell’abitudine si suol parlare in modo dispregiativo, ed essa vien presa come qualcosa di non vivente […] ed è per l’appunto l’abitudine della vita ciò che produce la morte, o, se si parla del tutto astrattamente, è la morte stessa. Ma, insieme, essa è la cosa più essenziale all’esistenza di ogni spiritualità”).
Si viene qui profilando, cucendo insieme questi concetti diversi ma contigui (e tramite la libertà ermeneutica teorizzata da Agamben di cui mi servo a piene mani), una solida teoria del dispositivo come di una istituzione teorico-pratica – una vera e propria seconda natura – che irretisce ed anzi costituisce i soggetti e le loro relazioni. Naturalmente ogni dispositivo fa sempre capo ad una dinamica di potere: non c’è potere senza dispositivo e viceversa.
Il paradosso è che nonostante il proliferare di dispositivi (di nuovo la rete telefonica ed informatica è un esempio calzante, ma il crescente controllo biopolitico è un altro fronte importante), il potere ha sempre paura del suddito-terrorista: “Quanto più – scrive Agamben – i dispositivi si fanno pervasivi e disseminano il loro potere in ogni ambito della vita, tanto più il governo si trova di fronte un elemento inafferrabile, che sembra sfuggire alla sua presa quanto più si sottomette docilmente ad essa”. E, paradosso all’ennesima potenza, è proprio il bloom, il suddito docile ed obbediente, che esegue fin nei minimi dettagli tutto quello che gli viene suggerito o comandato dai dispositivi, la figura che preoccupa di più il potere.
Ma come profanare i dispositivi, come “restituire all’uso comune” – o al mondo della vita – gli oggetti catturati e separati (irretiti) ed avulsi dalla loro destinazione originaria? (Anche se va rilevato che il concetto di “originario”, così come quello affine di “naturale”, sia quantomai ambiguo). Cioè: è possibile rompere un dispositivo senza doverne costruire un altro più potente? Se già la vita, come sembra emergere dall’analisi di Damasio, è organizzata tramite l’azione di dispositivi (auspicati ed elogiati da Hegel), dove si trova in essa l’elemento di rottura? La stessa politica non è forse un dispositivo? In che senso bisogna far emergere “l’ingovernabile”? Come si traduce sul fronte della prassi questo discorso? Tanto più che pare non funzionare nemmeno la distinzione tra un uso buono ed uno cattivo dei dispositivi, poiché sono i soggetti ad essere prodotti o, nel caso della nostra epoca, vieppiù destrutturati (desoggettivizzati) dai dispositivi: l’io che userebbe correttamente un certo strumento è già preconfigurato nei suoi comportamenti dallo strumento stesso (dalla strategia che vi sta dietro), e dunque l’eventuale eticità dell’uso è già decisa a prescindere dalla sua volontà o intenzione.
Forse la risposta sta proprio nella corporalità – che Hegel vorrebbe ricacciare indietro, disciplinare e chiudere nella dinamica automatizzata dell’abitudine, affinché lo “spirito” possa dispiegare il volo. Mentre Damasio (alleato in questo caso di Spinoza) ritiene invece che proprio il corpo (nonostante, o forse grazie alla sua strategia omeostatica e stabilizzatrice) può insegnarci qualcosa. Il corpo, i corpi, le forme di vita non sono mai del tutto disciplinabili dall’esterno. Proprio perché tendono per loro natura ad autodisciplinarsi – e dunque a mettere in discussione quei dispositivi che finiscono per minarne potenza e possibilità: “ciò significa che la strategia che dobbiamo adottare nel nostro corpo a corpo coi dispositivi – scrive Agamben – non può essere semplice. Poiché si tratta di liberare ciò che è stato catturato e separato attraverso i dispositivi per restituirlo a un possibile uso comune”. E ciò è possibile fare profanando ciò che è stato sacralizzato (cioè scisso) – dalle varie religioni ieri, dall’unica religione del capitale oggi.
Ciò non significa che possiamo vivere tout court senza dispositivi (così come è impossibile fare a meno di comodi automatismi e di sane abitudini, che anzi la vita persegue nel proprio corso inarrestabile), ma certo esistono nei corpi (quali centri volitivi, insieme desideranti e pensanti) tali e tante risorse e sorprendenti energie, che prima o poi finiscono per incrinare le cappe dispotiche che vorrebbero conculcarli. Il corpo a corpo, cioè, tra vita e dispositivi, soggetti e potere, resta quanto mai irrisolto e (per fortuna) indecidibile a priori (nonostante stia proprio nell’a priori la potenza dei dispositivi) – e dunque, mi verrebbe da dire, dialetticamente aperto alla possibilità della rivoluzione.
Mah, non mi parrebbe che il concetto di dispositivo ci aiuti a una migliore comprensione. Da una parte, mi sembrerebbe che si potrebbe continuare a servirsi del concetto di cultura, dall’altro sembrerebbe da ciò che scrivi che dispositivo voglia essere un concetto sempre molto ampio, ma comunque più delimitato.
Apparentemente, dispositivo è collegato ad automatismo. Del resto, dispositivo viene da disporre, e si dispone di qualcosa quando se ne ha completa padronanza.
Proprio però l’utilizzo del concetto di automatico sembra introdurre un elemento di arbitrarietà: chi insomma può univocamente definire quale parte della cultura si traduce in influenza su comportamenti automatici e quale no? Chi potrebbe a rigore sottrarre la stessa riflessione filosofica ad un meccanismo automatico?
Queste sono le mie personali perplessità rispetto ad un argomento che, credo si capisca, ignoravo prima di leggere il post.
@Vincenzo: la potenza del dispositivo sta proprio nel puntare sul suo duplice elemento: strategico-disciplinare (da parte di chi lo usa scientemente) e di accettazione automatica (come se si trattasse di una necessità data e naturale) da parte di che ne è usato (un po’ meno scientemente). Certo che il dispositivo (come il linguaggio) è un dato culturale, ma ha una sua specificità che nel termine “cultura” (troppo generico e onnicomprensivo) si perderebbe. In effetti per verificarne meglio il senso (e l’eventuale utilità ai fini della comprensione dei fenomeni sociali ed antropologici) bisognerebbe innanzitutto rifarsi ai testi di Foucault e alla sua analisi socio-istituzionale. Anche se a me premeva qui di più, a partire dall’interpretazione che ne dà Agamben, verificarne l’eventuale utilità per la comprensione di alcuni fenomeni “reticolari” (quali, appunto, quelli relativi alla diffusione degli strumenti di comunicazione, e soprattutto in-formazione, sociale).
Ma il punto è proprio questo: è possibile all’interno della cultura definire univocamente cosa sia dispositivo e cosa non lo sia? Mettiamo ad esempio una religione: è dispositivo o non lo è? Perchè a me pare che le religioni siano in grado di determinare dei fiormidabili automatismi.
Forse, scavando scavando, alla fine si dovrà ammettere che non c’è elemento culturale che non abbia questa capacità, perchè davvero mi pare che la natura sociale dell’uomo provochi questa conseguenza dell’apprendimento.
Sarà un punto di vista errato il mio, ho equivocato qualcosa sul significato che Foucalt assegna a dispositivo?
“Ciò non significa che… e dunque, mi verrebbe da dire, dialetticamente aperto alla possibilità della rivoluzione.”
Trovo le tue ultime righe, dopo un dotto, scientifico articolo, talmente “umane” da essere liriche. Belle. Molto belle!
@Vincenzo: pare che Foucault non abbia dato una definizione precisa di dispositivo, pur utilizzandolo spesso nei suoi scritti degli anni ’70. Ma trascrivo qui sotto qualcosa che a una definizione si avvicina, così come riportato da Agamben:
“Ciò che io cerco di individuare con questo nome è, innanzitutto, un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve; tanto del detto che del non-detto, ecco gli elementi del dispositivo. Il dispositivo è la rete che si stabilisce tra questi elementi…. il dispositivo ha dunque una funzione eminentemente strategica […] Il dispositivo è appunto questo: un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati”.
Rete e strategia paiono qui essere due termini essenziali.
In ultima analisi “dispositivo” è una qualunque “tecnologia del potere” volta a controllare le forme di vita, ad assoggettarle – o, meglio, a produrre (modificare o distruggere) soggettività.
@Pensierodud: grazie!
La società umana stessa è un dispositivo. Un corpus più o meno coeso con le sue regole e i suoi automatismi. E perché, il mercato, non è forse un dispositivo?. La società è allora forse un dispositivo che contiene al suo interno altri dispositivi? Probabilmente. Ma allora mi chiedo: è possibile per un uomo essere tale al di fuori di un qualsiasi dispositivo? Non è per caso, l’appartenere ad un dispositivo, condizione imprescindibile per qualsiasi condizione umana?
Credo di si.
Non credo però che qualcuno si sia messo a tavolino per progettare un mondo in cui gli esseri umani debbano essere assoggettati tramite l’uso dei telefonini o dei social network. Più semplicemente, le cose si sono sviluppate così (tanto è vero che ripetutamente i vari governi hanno tentato di imbrigliare o regolamentare la rete, segno evidente del fatto che la rete sfugge – o almeno è sfuggita finora – al controllo). E siccome è naturale per l’uomo la propensione al dispositivo, ecco che, quasi senza accorgersene, nel dispositivo ci si è ritrovato. Essere nel dispositivo è condizione indispensabile per la vita, ed esserne al di fuori, è essere un po’ al di fuori della vita. In un certo senso vita e dispositivo coincidono, anche se in alcuni individui, in particolare quelli che non si sono completamente arresi al dispositivo, il corpo a corpo tra vita e dispositivo non cessa di perpetuarsi.
Ma ha senso continuare la lotta? Arrendersi al dispositivo non procurerebbe, forse, maggiori vantaggi? Adagiarsi, non potrebbe essere una fase intermedia, per riprendere poi con rinnovata energia la ricerca?
Il dispositivo è come un enorme corpo dotato di una potente forza di gravità. Si può tentare di spiccare il volo, ma prima o poi sempre sulla sua superficie bisogna tornare.
Una curiosa coincidenza:
Qualche post fa, nell’aforisma 39, ho lasciato un commento dando della filosofia la seguente definizione: un dispositivo atto a rendere relativi gli assoluti.
Strano che abbia adoperato la parola dispositivo, di solito non la uso.
E poi l’altro ieri trovo sul tuo blog questa riflessione sui dispositivi. Pura coincidenza?! O si tratta dell’azione di qualche misterioso dispositivo? A volte ho il sospetto che misteriosi dispositivi dispongano delle nostre energie..
Del resto, ciò che è essenziale, spesso è dietro le nostre spalle. Ed Eraclito (sempre lui..) non diceva forse che la natura ama nascondersi?
@Francesco: hai colto nel segno, soprattutto per quanto concerne alcuni punti deboli.
Vorrei solo osservare che indubbiamente non c’è una congiura alle spalle degli umani per ingabbiarli di volta in volta con fantasiosi dispositivi, reti e strategie (anche se il dubbio talvolta viene) – tanto più che il dispositivo è come il capitale (o la religione): aliena tutti quanti, sfruttati e sfruttatori. Tuttavia questo “tout comprendre” non può nemmeno diventare un “tout pardonner”: sfruttati e sfruttatori esistono e hanno una loro precisa demarcazione, e il fatto che il potere sia “diffuso” e introiettato dai soggetti non vuol dire che non ci siano carnefici, potenti e arricchiti sulla pelle di classi e popoli.
Mi pare che il concetto di “dispositivo” sveli piuttosto come tutto questo diventi sempre più raffinato e persino impalpabile. Cioè credo che il tentativo sia quello di governare, amministrare e sottoporre a controllo (fingendo che sia un autocontrollo, un che di condiviso) ogni cellula del nostro corpo. E’ quel che si chiama “biopolitica” (o meglio “biopotere”). Sottrarsi a questo controllo (che è una forma di sapere, di riappropriazione di conoscenze) è condizione essenziale per poter decidere (dis-porre) di sé, del proprio corpo e di ciò che accomuna questo sé agli altri.
quella foto là sopra mi faceva una tale tristezza .. non la potevo guardare.
Ma, a parte quella, dove trovi le foto? le foto dei dipinti ecc, perchè spesso mi sembra che sono protette dai diritti d’autore, e non so come fare.
ciao
@rozmilla: io uso liberamente quel che c’è in rete, segnalando la fonte, laddove reperibile (nel caso l’autore di una foto, ad esempio presa da flickr, ne abbia ristretto l’uso chiedo l’autorizzazione, ma è possibile selezionare nelle ricerche quelle il cui uso è libero, alle condizioni del creative commons).
In ogni caso, prevengo questioni con la seguente dicitura, che ho messo sul blogroll:
Le immagini pubblicate, quando non specificato, sono liberamente scaricate dalla rete; qualora il loro uso violasse eventuali diritti d’autore, si provvederà alla loro immediata rimozione.
Fino ad ora, dopo oltre 4 anni, non mi è però mai successo.
Secondo me, al di là della questione dei diritti d’autore e delle leggi che li regolano, la deontologia virtuale richiede soprattutto che si specifichi sempre la fonte e la paternità dei contenuti eventualmente utilizzati. Naturalmente il discorso cambia radicalmente quando se ne dovesse fare un uso commerciale, ma non è il nostro caso.