Leggendo il libro di ricordi di Emanuele Severino – che com’è giusto che sia mescola esistenza e filosofia, affetti e ragionamenti, biografia e ontologia – si ha tuttavia l’impressione di una schizofrenia di fondo. Uso il termine nel suo significato originario (“divisione della mente”), senza dunque alcuna connotazione psichiatrica, per sottolineare una vera e propria Trennung filosofica, una scissione che non è soltanto quella convenzionale tra l’io e il mondo, l’individuo e la società, la finitezza della mia mente e l’intero universo nel quale quella mente si sente sperduta, ma che attiene al discorso filosofico essenziale di Severino. Lo esemplifico con due metafore da lui utilizzate nel testo:
la prima allude all’altalenante condizione del sogno e della veglia nella quale ci troviamo immersi, un tema che da Eraclito a Calderon de la Barca ha una lunga tradizione, ma che in Severino pare caricarsi di una inaudita radicalità: il sogno (“la terra isolata dal destino”) essendo la nostra condizione fondamentale, da cui emerge la via della veglia (e dunque della verità), che solo in quanto porta alla luce il sapere che l’apparire di quell’apparire non è un sogno, può indicare il “destino”, cioè lo stare assolutamente incondizionato;
la seconda metafora, di ascendenza evangelica, è quella del campo dove crescono il loglio e il grano: lo spazio dell’uno o dell’altro delimita rispettivamente quel che è proprio dell'”esser uomo” (quell’uomo errante che è Emanuele Severino), e quel che invece è “testimonianza del destino”, un Io-destino infinitamente altro dall’io-Severino. Il merito che Severino pare attribuirsi è quello che nel “suo” campo (ma è “suo”? e che cos’è il campo? – è lui stesso a chiederselo) è via via andato crescendo il grano, confinando il loglio in spazi sempre più ristretti.
Insomma, da queste metafore appare chiaro come la scissione si sostanzi in una duplice figurazione dell’io, che una volta è quella dell’errare (del sogno, dell’errore, della follia, della fede), e un’altra è quella del destino della verità – in genere con tanto di maiuscole.
Naturalmente in questo scritto (che è autobiografico, quindi costitutivamente un errare della memoria e del sogno) prevale l’io “piccolo” – laddove negli scritti ontologici, quelli che seguono la scala ascendente (anche questa è metafora dell’autore) che parte da La struttura originaria e da Ritornare a Parmenide, per giungere, attraverso Il destino della necessità e La Gloria, ad Oltrepassare e alla preannunciata conclusione nell’imminente La morte e la terra, si fa avanti un Io in grande, qualcosa che ha a che fare con un altro livello e che pertanto abbandona il terreno dell’erranza.
Avevo già avanzato le mie perplessità su questa che considero una contraddizione di ogni discorso ontologico (qui e qui). Ma l’occasione di questo scritto di Severino ha rinfocolato il dubbio, che vorrei qui brevemente esporre.
L’incontrovertibilità dell’essere, del qualcosa-che-è e che non può non essere, e che pertanto è un eterno apparire non soggetto all’errore (e alla follia) del divenir-altro (e dunque del nulla); il principio di (non) contraddizione che, sia formalmente che concretamente, lo enuncia; la sua assertività veritativa; insomma, l’intera configurazione di questo discorso si fa innanzi agli umani con la caratteristica, appunto, del dis-correre: dello scorrere discorsivo, logico o psicologico che sia. Dunque, con le caratteristiche dell’io e della finitezza, del pensiero (tutt’altro che infinito) che lo pensa. Che un pensiero finito possa pensarne uno infinito (l’infinitezza in sé), rimane certo un argomento ontologico forte, che fa in fretta a rovesciarsi nell’esibizione di una infinitezza che è in grado di contenere il finito, e dunque di pensare anche l’io che lo pensa – cosicché noi saremmo dei pensanti a nostra volta pensati (è questa, tra l’altro, una delle possibili letture della teoria della mente di Spinoza).
È lo stesso Severino a chiederselo ad un certo punto: “Ma proprio perché il tema è questo dell’incontrovertibile, si può dire che è stata la «mia» riflessione a considerarlo? Può essere «di qualcuno» il pensiero che pensa l’incontrovertibile?“. Così come, in Oltrepassare, aveva scritto: “Non è il vedere umano ad accogliere in sé l’apparire del destino, ma è quest’ultimo a contenere in sé ogni vedere umano e anzi la radice stessa di siffatto vedere: l’isolamento della terra” (p. 149).
Non vorrei però perdermi (errando a mia volta) nei meandri della potente ontologia severiniana (non è qui il luogo), ma solo richiamare l’attenzione sulla duplicità che emerge proprio nel discorso autobiografico, dove l’io (finito e mortale) e l’Io del destino della necessità paiono opporsi senza alcuna possibilità di composizione. Severino risponderebbe che anche tale scissione e il desiderio (impossibile?) che venga risolta fanno parte dell’errare e della follia – e che dunque sono necessari. Avevo scherzosamente definito pellicola ontologica questa sorta di determinismo logico – una vera e propria ontologia a posteriori – secondo cui tutto quel che è ed accade, ed anche ciò che li vorrebbe negare, hanno una loro incontrovertibile necessità.
Ma se da un lato sono convinto del fatto che ogni ontologia implichi sempre una serie di conseguenze sulla vita individuale e sociale, e che dunque non sia affatto indifferente o qualcosa da confinare nel cielo della pura astrazione o del gergo filosofico, d’altro lato mi risulta più difficile capire dove voglia andare a parare Severino quando introduce nel suo “linguaggio pesante e duro” le metafore edificanti di un discorso che appare molto più salvifico , consolatorio e “religioso” di quanto non sia strettamente logico o filosofico: come quando viene detto che ogni cosa “non sarà annientata, ma sarà il fondovalle che, non più coperto dalle nubi, si mostra ai piedi della corona dei monti” illuminata dal sole. Cioè: anch’io penso che la concezione dell’essere sia fondativa di una civiltà e di un certo modo di intendere la vita, la morte, la società, il nostro stare al mondo, il modo di relazionarsi alle cose e agli altri viventi, ecc. E anch’io, con Severino, penso che vi sia un’alienazione ancora più profonda ed essenziale alle radici dell’alienazione capitalistica, della violenza e della “follia” dell’Occidente. La relazione tra ontologia da una parte, conseguenze etiche, politiche, antropologiche, sociali dall’altra, risulta chiarissima su questo fronte del discorso severiniano – quello da lui indicato come “isolamento della terra”.
Mi sfugge invece del tutto la medesima relazione sull’altro fronte (che, ovviamente, secondo Severino non può essere “medesima” e nemmeno parallela o contraria, così come “il destino della necessità” non ha la caratteristica né della fede né della sua negazione, non essendo né teistica né ateistica). Quando cioè il filosofo bresciano parla dell’esser destinati alla Gloria o alla Gioia, di che parla? Se quei concetti si riferiscono, com’è detto in Oltrepassare, rispettivamente, all'”autentico senso del tempo” e all'”eterno toglimento di ogni contraddizione”, o all'”oltrepassamento eterno e eternamente compiuto della totalità delle contraddizioni” – la loro configurazione pratica, al di là dell’efficacia delle metafore, si riduce miserevolmente a vacue quanto improbabili promesse salvifiche.
Mi si perdoni la franchezza ma – senza nulla togliere alla serietà e all’altezza concettuale di quei termini, e a tutto il discorso che vi viene costruito attorno (che, oltretutto, si trova anche in alcuni celebri passi dell’Etica spinoziana) – vi intravvedo un certo tasso di fumisteria soteriologica.
Quando ad esempio Severino, al termine del libro, spende una parola per gli uomini più sfortunati di lui, che hanno avuto molto meno, se non addirittura solo sofferenza e morte, il suo discorso logico ed incontrovertibile si tinge di un misticismo imbarazzante: “Costoro, quando apparirà la terra che salva, avranno molto di più di chi ha già avuto e riavrà quello che ha perso. «Venire ad avere qualcosa che prima non si aveva» significa, nel linguaggio del grano, che appare l’eterno che si è, e che prima non appariva; ed era quindi inevitabile che chi «non aveva» si sentisse infelice e morisse disperato. La grande bilancia d’oro della terra che salva farà giustizia, librando tutti nella Gioia, in cui e che eternamente siamo“.
Amen! mi verrebbe da commentare: insomma, molto più efficacemente delle promesse di Gesù Cristo o del profeta Mohamed, non sarà più un dio, come invocava Heidegger, ma un novello Parmenide a salvarci! Battute a parte, la debolezza di tutto il ragionamento sta nella contraddizione di cui parlavo sopra – che è poi frutto della “crepa” ontologica apertasi, e mai richiusa. Severino pensa sia necessario che tramonti; io – molto modestamente – penso di no. La “crepa nell’essere” durerà finché durerà il nostro errare umano. E si chiuderà, quando si chiuderà la nostra avventura.
Certo, si può benissimo dire che anche questo nostro errare, ognuno di noi con tutte le cose che il mondo contiene ed anche quelle che non contiene, siano eterni. E lo sono, nella misura in cui ogni cosa che è comparsa è stata qualcosa, e dunque un qualcosa che non può (più) non essere, che non è soggetta al nulla e al divenir-altro, e che (forse) doveva necessariamente essere (per quanto ne sappiamo). E che dunque fin da sempre non è soggetta alla morte (tutta l’ontologia severiniana sembra sempre più ridursi e precipitare nel problema della morte e nel suo configurarsi come la contraddizione essenziale). Ma il nostro saperlo, il nostro esserne coscienti, coincide con la linea del nostro apparire e tramontare. Al di fuori di questo orizzonte (finito e limitato) siamo ciechi, e non c’è sole sui monti che possa illuminare questo nostro fondovalle (o valle di lacrime). A meno che questa luce non venga da “fuori”, da un luogo radicalmente altro (e trascendente): ma tutto ciò assomiglia al buon vecchio dio della tradizione, e ai vari e connessi movimenti oppiacei di liberazione – che però anche l’ontologia dell’essere di Severino ha contribuito a far fuori, visto che la fede è condizione essenziale dell’errare. Dunque di che stiamo parlando?
Non sarebbe meglio astenersi dal far derivare dal discorso ontologico immediate quanto improbabili conseguenze pratiche? O, se (come risponderebbe Severino) non è così, non sarebbe meglio evitare di costruire metafore fuorvianti? O anche le metafore e il loro essere fuorvianti – l’insufficienza del linguaggio che addita la verità – sono forse generate dal “destino della necessità”? O magari dal fatto che ci troviamo ancora sul terreno dell’apparire, del sogno e dell’errare, ed allora tutto ciò – le magnifiche prospettive della “vita eterna”, cioè della “necessità che l’ “uomo” scopra all’infinito l’infinito che esso già da sempre e per sempre, eternamente è (l’uomo essendo, nella sua verità, il cerchio dell’apparire del destino, in cui si inoltra la terra, la quale è lo stesso scoprimento, all’infinito, dell’infinito che il finito è“, si veda Oltrepassare, p. 265) – e allora, dicevo, il punto di vista dell’eterno non può che apparirci ancora in maniera confusa?
Io però (il mio “io” in piccolo, immagino) posso solo supporre che il “destino” in grande se ne strafotta delle nostre miserevoli vicende – di cui, evidentemente, dobbiamo occuparci noi (un “noi” anch’esso in piccolo), nella misura in cui possiamo farlo. Prima che il “destino” in grande ci riassorba indifferentemente ed implacabilmente nella “quiete altissima” e nello “spazio immenso”, come annunciato dal mesto canto del leopardiano Gallo Silvestre.
quella che Severino tenta di indicare non è una “promessa” salvifica o “un’ipotesi” di redenzione, ma la necessaria conseguenza del non poter non essere da parte dell’essere (ogni essere). Se tutto il suo discorso si fonda (come mi sembra) sull’autonegazione della negazione dell’eternità di ogni ente (che appare o che non appare ancora o che non apparirà mai, secondo necessità) allora i termini “Gloria” e “Gioia” (per quanto possa irritare la loro assonanza cristiana) indicano la nostra destinazione all’eterno che siamo, anche dell'”io piccolo” in quanto errore oltrepassato (e non annientato). Doppia negazione della Morte, dunque…
@archer: hai detto bene, “quella che Severino tenta di indicare” –
una destinazione all’eterno affatto insipida, incolore ed inodore
La vita é sogno- Pedro Calderon de la Barca niente porta a
patologia –
Cosa ha fatto Freud se non catalogare le distorsioni dell’animo
umano – Le ha curate ma le ha guarite? No -Controllare la mente
umana e decidere Chi può vivere in società o no – Io non credo a questo-Forse un paziente che solo confuso aveva bisogno di parlare di ritrovarsi-Ma le distorsioni dell’animo umano non le ha
guarite-Si nasce buoni o cattivi,poi l’educazione si rivela importante
ma non cambia la natura umana nessuno può cambiarla-
Egill
Nei paesi mediterranei in cui il ruolo della donna e della famiglia
patriarcale sono cambiati per forza, senza adattamento-
Risultano invalidi parametri freudiani oggi-
Nei paesi nordici anche lì é avvenuto da molto tempo un cambiamento- Una schizofrenia sociale é evidente si sono adattati
diversamente i paesi nordici dai paesi mediterranei- La storia il
passato giocano un ruolo fondamentale- E’ diversa la reazione-
Egill
@Egill: scusa, ma mi sfugge il nesso… (tra l’altro mi sembrava d’aver chiarito che l’uso del termine “schizofrenia” non aveva alcuna valenza psichiatrica o psicoanalitica)
Si mi accorgo adesso-
Cancella li e comunque i due commenti di egill non validi-ERRATI-
Scusatemi tutti-
Egill
@Egill: ma no figurati – rimangono in ogni caso degli spunti per aprire altre questioni e future discussioni.
E comunque a pensarci bene la questione della “cura” delle patologie (quel che Severino chiama “rimedio”) non può non avere anche un risvolto ontologico. Anzi, nel discorso di Severino tutte le questioni – tutto l’errare umano, compreso il suo “psicologizzare” – vengono ricondotte alla questione essenziale, al loro fondamento ontologico.
Io devo prima dire grazie per il tuo modo gentile non ho provato
inadeguatezza- Non é un accessorio per te la conoscenza-
Genesi del commento Errato-Da due settimane circa sono su Freud
e sul comportamento umano-Ho letto ontologia della scizofrenia ed
come un lampo ero a commentare frenandomi molto per ben due
volte- Ho creduto ralazione tra Emanuele Severino e psichiatria,
così come un aquila ho rovinato le tue considerazioni-Io sono in studio e lavoro tra pennelli computer e briciole sui libri che tiro fuori
quando serve per aiutarmi a scrivere a ricordare -Io risponderò se
lascerai ancora su questo -Ti prego ancora scusami tanto-
Egill
Ho leggiucchiato questo libro la scorsa estate, e il fatto che lui faccia una divisione fra la sua vita piccola e quella grande, o alta, l’avevo notata anch’io e mi aveva un po’ infastidito. Anche perché su questo punto viaggio proprio in direzione opposta. Nello stesso tempo mi infastidisce, e non poco, l’effetto trascinante che esercita ..
Leggo qui:
http://antemp.wordpress.com/2011/09/19/lunghissimo-applauso-all%e2%80%99arrivo-del-professore-emanuele-severino-che-ha-tenuto-la-sua-lezione-magistrale-in-tantissimi-ad-ascoltare-le-sue-parole-su-%e2%80%9cverita-a-natura-umana%e2%80%9d/
“La civiltà della tecnica che va profilandosi dopo il periodo di crisi del capitalismo riuscirà a dare all’uomo quella quantità di benessere e di felicità, ma sarà priva dell’assicurazione assoluta che la felicità possa essere duratura. Non è solo da guardare negativamente: significa un passaggio verso un senso radicalmente altro della verità e della natura, portandosi verso una dimensione che va oltre l’anima del pianeta. A questo consiste il compito supremo del pensiero”.
Va bene che è solo una frase estrapolata da tutto un discorso neppure riportato per intero, ma come si fa “credere” che possa esistere “un’assicurazione assoluta che la felicità possa essere duratura”?
E va bene, che la civiltà della tecnica possa essere negativa non ci piove, ma in cosa consisterebbe il compito “supremo” del pensiero? A guardare la civiltà negativa della tecnica negativamente? E poi?
Più sopra si legge del “bisogno di rafforzare Dio”. E qui mi astengo dal commentare.
Non lo so, o io avevo capito proprio male, o lui sta andando un po’ troppo in alto per i miei gusti.
Ovviamente a questo punto temo i risvolti del suo pensiero. E di una sorta di fanatismo che sembra faccia capolino. Lui, il Profeta, direbbe “appare”, ma, forse mi sbaglio, ma vi si potrebbe quasi udire l’eco di un “allerta”..
@rozmilla: concordo, il pensiero di Severino si lascia leggere anche (anche!) come uscita irrazionale e salvifica dalla crisi delle certezze. Un pensiero fortissimo che, certo, può affascinare ed ottenebrare le menti.
Poco fa raccontavo ad un’amica della metafora del grano e il loglio di Severino. Dopo qualche attimo di silenzio, salta fuori dicendo ..
O Severino!
è diminuito il loglio
ed è aumentato l’orgoglio?
Mi ha fatto ridere..
e direi che la possiamo mettere tra aforismi zen. Che ne dici?
Sì, decisamente!