(Sul Corriere della Sera di oggi è possibile leggere un brano tratto da La morte e la terra, l’ultima opera di Emanuele Severino in uscita in questi giorni nelle librerie. Mi pare una buona introduzione, che dà il tenore e il senso generale di quel che il nostro antico e fedele compagno di dissertazioni ontologiche ha tentato di fare in questo ulteriore tratto del suo cammino filosofico. Non so ancora se intendo seguirlo, anche perché mi son perso per strada glorificando ed oltrepassando, e poi vengo continuamente distratto da altro e tirato giù dai cieli ontologici per occuparmi di vieppiù triviali cose terrene – che son poi quelle della “terra isolata” di cui il nostro discorre, e che dunque, insieme a quell’altro, son sempre ricomprese in quel discorrere – che a rigore non lo è. Insomma, vuol sempre aver ragione lui…).
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Questo libro sviluppa un tratto centrale del percorso compiuto nei tre libri ai quali esso è più direttamente legato: Destino della necessità (1980), La Gloria (2001), Oltrepassare (2007). Qui di seguito si mostra in modo sommario il senso di questa centralità.
Nella Prefazione di Oltrepassare si dice: « Atteso dalla terra che salva e dalla Gloria, l’uomo, nella sua verità, cioè in quanto cerchio eterno dell’apparire della verità del destino di ogni essente, attende gli eterni della terra che salva e della Gloria. L’attesa è la necessità del sopraggiungere dell’atteso» (p. 19). Che l’uomo sia atteso dall’Immenso, in cui la terra che salva e la Gloria consistono, può essere indicato facendo parlare – ma essenzialmente al di là dei suoi intenti – il frammento 27 di Eraclito, riportato all’inizio dell’esergo della Gloria.
Anthrópous ménei apothanóntas hássa ouk élpontai oudè dokéousin. «Sono attesi gli uomini, quando sian morti, da cose che essi non sperano né suppongono».
Nemmeno Eraclito, d’altronde, nemmeno le grandi religioni della salvezza possono sapere che ciò da cui gli uomini sono attesi è la terra che salva e la Gloria, nel loro senso autentico, essenzialmente diverso da quello che a tali espressioni viene attribuito dalle sapienze degli uomini. Per quanto grandi siano le speranze e le supposizioni umane – alle quali appartiene lo stesso insperato di Eraclito e di ogni sapienza che si rivolga all’insperato – esse si accontentano di poco, rispetto a ciò da cui l’uomo è atteso dopo la morte e a cui è necessario che egli pervenga. Del percorso qui sopra indicato questo libro sviluppa un tratto centrale. Infatti, se le diverse forme della terra sopraggiungono nel cerchio eterno del destino (nella costellazione infinita dei cerchi), tale cerchio è l’inizio di quel percorso; e la terra che salva e la Gloria ne sono il punto d’arrivo – che peraltro è l’apparire della necessità del dispiegamento infinito della terra, dove ogni punto di arrivo è oltrepassato (e insieme conservato).
La terra che dapprima sopraggiunge appare nel suo esser isolata dalla verità del destino: è il luogo in cui appare ogni agire e ogni sapienza dell’uomo, rivolti alla Terra e al Cielo e anche all’assolutamente Altro da essi: la terra isolata è «questa nostra vita», che, includendo Terra, Cielo e Altro, si considera come l’orizzonte ultimo e inoltrepassabile dell’esser uomo. Su «questa nostra vita» – si potrebbe dire – incombe la morte, e continuamente vi irrompe. Ma, propriamente, è l’isolamento della terra a manifestare «questa nostra vita» e la morte che la circonda e la attraversa. In quanto lo sperato (e l’insperato) che gli uomini si attendono dopo la morte si fonda sulla terra isolata, essi ripongono le loro speranze di salvarsi dalla morte nel cuore stesso della morte.
Tuttavia la terra isolata dal destino è oltrepassata dalla terra che salva e dalla Gloria. Salvano dall’isolamento della terra; e quindi, in duplice senso, dalla morte: salvano dall’isolamento, che come radice della morte ne è la forma originaria (Oltrepassare, X, VI), e salvano dalla morte come è intesa nel frammento 27 di Eraclito e come per lo più è intesa all’interno della terra isolata, cioè come il decomporsi dell’esser uomo. La terra isolata e la morte, intesa in questo secondo senso, formano il tratto centrale del percorso il cui inizio e il cui punto di arrivo sono stati qui sopra indicati. È soprattutto a questo secondo senso della morte – il più «comune» – che si rivolge La morte e la terra. Ma risolvendo un problema decisivo, lasciato ancora aperto in Oltrepassare.
Qui lo si può indicare soltanto in modo inadeguato. Così: l’isolamento della terra permane, dopo la morte (intesa in questo secondo senso), e permane fino all’avvento della terra che salva, oppure con la morte (così intesa) anche l’isolamento tramonta e il cerchio eterno dell’apparire del destino, in cui l’essenza autentica dell’uomo consiste, accoglie la terra che salva? O anche: l’attesa della terra che salva continua anche dopo la morte (e che cosa appare in questo prolungarsi dell’attesa? sonno, sogni. Incubi?), oppure con la morte ha compimento anche l’attesa?
In modo altrettanto inadeguato, qui si può dire che La terra e la morte mostra la necessità che il problema sia risolto nel secondo di questi due modi. Avvicinarsi alla morte è avvicinarsi all’Immenso della terra che salva e della Gioia.
Ciao Mario. Il libro mi arriverà la prossima settimana. La soluzione del problema, comunque, è legata sia alla necessità dell’apparire infinito inteso come “fonte inesauribile legata all’incremento all’infinito degli eterni nel finito” sia a quella della costellazione infinita dei cerchi finiti, necessità che vengono negate, invece, nel mio discorso. Però sono curioso di vedere come Severino articola la fondazione che mostra quella soluzione.
Ehmmm .. generoso da parte tua anticiparci l’ultima forma dell’Essere fuori di melone ..
@ Profeta (Marco): mi congratulo per il tuo libro, e sono molto molto contenta che tu sia riuscito a realizzarlo.
Una cosa però vorrei chiederti: tu pensi sia destino il fatto reale che tu sia riuscito a scriverlo eccetera; o se in qualche modo il tuo volerlo fare (applicarti nello studio, ecc.) ha contribuito a farlo “apparire” nel cerchio delle cose che appaiono. Perché una cosa che mi lascia sconcertata, e che non mi riesce di condividere, è che se cose del mondo fossero da sempre eterne come le dichiara E.S., la “responsabilità” umana nel “fare” sarebbe pressoché nulla. Perché tutto sarebbe esattamente quello che è perché non può non essere, perché è eterno già da sempre. E che quindi anche il tuo libro è sempre stato; come anche la tua “presunta” ma non certa, responsabilità di farlo, visto che era già da sempre determinata dall’essere le cose ciò che sono, compresa appunto la tua responsabilità.
Cerca di capire che non sono più tanto addentro nella logica di E.S., che è anche una terminologia e un uso del linguaggio molto specifico. Ma sono anche del parere che se è una cosa è “vera” può affrontare il rischio di essere messa in discussione anche dalle parole di un bambino.
Non so se ti ricordi quanto qualche anno fa ero stata molto “presa” dalla metafisica severiniana. Ma adesso ripensandoci mi pare, ma potrei anche dire che sono abbastanza convinta, che tutto il pensiero severiniano si fondi sul presupposto (che il Nostro “vuole” dimostrare per mezzo della logica del principio di non contraddizione, che comunque è logica “umana” tutta interna al linguaggio e alle operazioni logiche umane) che il divenire non può esistere, perché non può essere che ciò che è si trasformi in altro, bensì che ogni cosa è ciò che è, sempre, in ogni istante, ciò che è, e che non può mutarsi in altro.
E.S. nega il divenire: ora, a me pare che senza questo presupposto che lui mette a fondamento, tutto il castello crollerebbe. E ovviamente lui non desidera che il suo castello crolli, ma, anzi, desidera che rimanga solido e fondato, per continuare a costruire un piano dopo l’altro, via via sempre più alto.
Trovo tutta questa costruzione sintomatica di un’arroganza quasi senza precedenti. Anche se lo stesso Severino aveva a suo tempo dichiarato che la sua filosofia è l’ultimo “canto del cigno”.
Ecco, per questo motivo mi azzardo a dire che quasi quasi sarebbe venuto il momento di ascoltare altri canti. O, detto altrimenti, che spero tanto che nel cerchio dell’apparire possa giungere il momento in cui ascolteremo anche altri canti e altre musiche.
Anche se ovviamente mi limito ad anticipare che nel cerchio dell’apparire è apparsa la mia volontà incontrovertibile di ascoltare anche altri canti e altre musiche.
Sai cos’è, è che penso che molto umanamente è bello anche cambiare menù, provare altro. Non solo per il piacere di variare menù, ma soprattutto per onestà intellettuale di mettere alla prova le proprie convinzioni, che potrebbero essere confutate esponendole con serenità al contraddittorio tramite altri sistemi di pensiero, e altre visioni altrettanto umane.
Poiché, te l’assicuro, non solo c’è altro, ma c’è anche tutt’altro.
Un affettuoso saluto da Milena.
Ciao Milena.
Sai, si può pensare che qualcuno sia arrogante, saccente, borioso, altezzoso, immodesto etc, solo se ci si ferma alle procedure o modalità attraverso le quali si afferma qualcosa. Ma se “ciò” che vien detto è innegabile, allora, scorgendo tale incontrovertibilità assoluta, si riesce a cogliere il livello inoltrepassabile della “nostra” coscienza, che non è sì la “coscienza di Marco” (ossia di ciò che viene interpretato come “quell’individuo umano che è Marco”) e la “coscienza di Milena”; e, ancora, la “manifestazione di queste foglie” e lo “squartamento tra animali” e così via; ma è la mia, la tua e ogni altra coscienza in quanto esse non sono isolate tra di loro. Ergo, l’errore di Severino sta in questo: considera “Milena” come qualcosa di “ridotto” rispetto alla totalità infinita dell’eterno.
Nel mio discorso, invece, cerco di spiegare che una totalità siffatta sarebbe contraddittoria (cioè impossibile) se essa non consistesse “proprio in te, Milena, e in me, Marco e in ogni altro essente, nel suo essere legato all’interpretazione finita degli essenti”. L’infinito di cui parlo non è l’infinito inattingibile e di arcana natura cui si rivolgono le opere severiniane: l’infinito autentico è proprio questo mio parlar con te, e questo tuo prestare attenzione alle mie parole, ed è quel che ieri si affacciava in sequenza nel mio sguardo incerto, così come è tutto ciò che nel mio e nel tuo universo si farà innanzi in ciò che, nel presente, rimane qualcosa di atteso.
Te mi chiedevi se il mio libro è “opera mia” oppure se è qualcosa di eternamente inscritto nell’essere. Ma la risposta, cara Milena, è una risposta comunque contraddittoria, perché è contraddittoria la domanda. Questa tua domanda, infatti, include quel termine “oppure” che è proprio ciò che il sottoscritto nega del discorso di Severino. Quel termine si mostra, nel mio discorso, come un’impossibilità, nel senso che tutto è eterno (cioè sempre identico a sé, infinito) “proprio come un flusso finito di mortali esperienze”, sì che il mio libro è eternamente esistente “in relazione al modo in cui io son stato capace di scriverlo”. Il problema, però, è capire che questa “capacità di scrivere” non può significare che io abbia avuto la potenza di far uscire dal nulla il mio libro, o che abbia avuto la possibilità di “scegliere” se scriverlo o non scriverlo, altrimenti non sarebbe eterno. L’errore di Severino è che “isola” l’eternità dell’infinito da ciò in cui consistono le sue parti finite. Io sto dicendo, allora, che ogni essente (io, te, questa mela, una sfumatura di colore etc) è la totalità dell’essente nel suo esser legata (cioè identica) a se stessa in quanto processualità delle sue materie empiriche. In altre parole: l’errore di Severino (un errore che è, poi, lo stesso di tutto l’Occidente) sta nel distinguere la differenza tra le parti dalla differenza tra totalità e parte. Sto cercando di spiegare, cioè, che questa distinzione non esiste, e pertanto l’infinito (la totalità) è tutto ciò di cui si mostra (anche) la finitezza.
Marco Pellegrino
dove ho scritto <> volevo dire <>
dove ho scritto “che non è sì la “coscienza di Marco”..” volevo dire “che è sì…”
Scrive Milena: “Anche se lo stesso Severino aveva a suo tempo dichiarato che la sua filosofia è l’ultimo “canto del cigno”.”
Anche Hegel, quasi due secoli prima di lui, pensava più o meno la stessa cosa.
Tra due secoli non ci saremo (se non nella fantasiosa e fumosa mistica della gioia di E.S.) per sapere che cosa ne penserà il filosofo-cigno del momento.
E così via, di secolo in secolo, e di eone in eone.
Ma ha poi così importanza tutto ciò?
(Ad ogni modo, questa sera, alla stazione centrale di Milano ho cominciato a leggere “La morte e la terra”, che s’apre con un controcanto al canto del cigno… ovvero l’obiezione al destino, ovvero tutti vs E.S.)
Ma, a proposito dell’errore di Severino (che è l’errore di tutto l’Occidente) rilevato dall’amico Marco-Profeta, bisognerebbe ora dire: “Tutti + E.S” vs “Marco Pellegrino”.
In attesa, però, di un “Tutti + E.S + Marco Pellegrino” vs “X”. E, allora, come la metteremmo?
@Marco:
“dove ho scritto “che non è sì la “coscienza di Marco”..” volevo dire “che è sì…””
facci caso … sembrerebbe un lapsus freudiano 😉
Ad ogni buon conto, anche se non frequento più molto il linguaggio severiniano, ero anch’io giunta alla conclusione che se le cose sono eterne, allora sarebbero tutte indifferentemente eterne, senza discriminare fra cose e cose. E questo è un punto che sembriamo condividere.
Però penso anche che questa non sia altro che una “mia” convinzione, e che non ci sia nulla di certamente o incontrovertibilmente vero in tutto questo. È solo un’ipotesi da verificare, ipotesi che molto probabilmente non sarà neppure verificabile sul terreno del reale concreto.
Temo che queste costruzioni, sostenute da logiche incontrovertibili, esercitino un fascino molto particolare, come grosse mongolfiere in cui tutto vi è compreso e nulla può sfuggire alla loro logica interna. Nello stesso tempo, come mongolfiere, appunto, possono esistere solo nell’alto dei cieli, e non hanno alcuna possibilità di vita terrena, che vive e soffre fregandosene impunemente di Severino e compagnia bella. Così come Severino e compagnia bella se ne frega altamente dei problemi di coloro che vivono e soffrono sulla terra. I problemi concreti e reali della gente, voglio dire – che anche quelli, a quanto pare, sembrano eterni. E che, continuando a parlare di eterno, non smetteranno per questo di essere eterni.
Quello che voglio chiederti, Marco, è: a cosa serve? in che modo incide sulla realtà, sapere (o non sapere) di essere eterni? E cosa cambia della nostra vita e della nostra realtà?
Cara Milena, ma quali sarebbero “i problemi concreti e reali della gente”? Che cosa significa “concretezza”, “realtà”, “problema”, “soluzione”, “nascita”, “morte”, “dolore”, “gioia”, “io”, “te etc etc??? E conoscere il senso autentico di queste grandi parole che accompagnano la nostra vita (e sapere cosa è “vita”, dunque) non è quel che più conta (al di là del riduttivismo linguistico di queste “parole”)? E questo nostro stare qui, in questo blog, con te, Mario e gli altri, e poi ancora la storia della filosofia, delle religioni etc, non è forse la nostra stessa ansia di sapere come stanno le cose?
E questo stesso tuo farmi e farti delle domande, non serve a nulla? Certo che serve, anzi serve solo quello in realtà.
Vedi, “i problemi della gente” scaturiscono dall’autentico problema, che consiste nell’illudersi che i problemi siano quelli della sopravvivenza. Ma i “problemi della sopravvivenza (politici, economici, civili, religiosi, quotidiani etc)” potrebbero sussistere se non si presupponesse, erroneamente, di non essere eterni?
Però, Milena, capisco cosa intendi.. Parliamoci chiaro: se tutto questo mio discorso testimoniasse un contenuto che ognuno di noi (cioè in verità l’Uno infinito in cui consistono questi essenti: tavolo, mare etc) non può esperire “in carne ed ossa” (e non è una metafora) al di fuori del linguaggio inteso come segno, allora sarebbe bene non prestare ascolto a quel che dico. Ma, dunque, nemmeno quel che dici te o le religioni o filosofie occidentali e orientali avrebbe senso veritativo.
Ciò significa che bisogna capire che l’eternità, ad esempio, di questa tastiera, non è qualcosa di diverso dal suo “esistere”. Allora, sei disposta a dire che questa tastiera (ossia ciò che viene chiamato “questa tastiera”) “esiste”, ma non sei disposta a dire che essa è eterna; non sei così disposta, appunto perché presupponi quel che presuppone tutta la nostra cultura (Severino compreso): presupponi contraddittoriamente che l’esistenza di qualcosa significhi un che di diverso dall’eternità (infinità, totalità). La logica è l’esperienza (l’immediatezza fenomenologica non si distingue da quella logica). Che qualcosa sia nulla non si mostra e non può mostrarsi: si mostrano via via gli eterni (in un senso diverso da quello di cui parla Severino). Il ricordo ricorda il ricordato, e se il ricordato non esistesse più, il ricordare non lo ricorderebbe, cioè non esisterebbe il ricordare: il ricordare ricorda qualcosa, non il nulla (ossia non ciò che si crede sia ormai un nulla); e l’attesa attende l’atteso, e se l’atteso fosse ancora un nulla, l’attesa non attenderebbe nulla, e quindi non esisterebbe alcuna attesa. E tutto questo, ripeto, in un senso comunque diverso dal modo in cui Severino esplica il suo discorso intorno all’eternità del ricordato e dell’atteso, perché, in verità, il ricordato ha già mostrato, in quel presente che ora è passato, la sua eternità immediata (senza alcun bisogno di un “logo” concepito erroneamente come distinto dalla “manifestazione”), e l’atteso manifesta la sua eternità sia “in quanto atteso” sia “in quanto, sopraggiungendo, si lascia indietro il suo essere atteso”
Tuttavia, ritornando a quel che ti dicevo sulla “carne” e le “ossa”, diciamo: la totalità eterna dell’infinito in cui consistiamo già da sempre e per sempre, e in cui consistiamo eternamente nel modo processuale in cui tale totalità è presente, è avvolta, attualmente, dal dominio di se stessa in quanto contraddizione, cioè in quanto illusione di non essere eterni. La domanda allora è (e con essa si chiude anche il mio libro): questo dominio dell’illusione è destinato a permanere per sempre, oppure è necessario che affiori il dominio della verità? La risposta, se si presta attenzione a quel che ho detto (ma in modo analitico nel libro), sta già nella domanda, e nell’affermazione che “la totalità contiene se stessa come sopraggiungente”.
Affettuosamente, Marco Pellegrino
@ Marco: Vuoi sapere come stanno le cose? Le cose stanno che, per esempio, io non sono affatto qui in questo Blog, ma sono a casa mia. E Mario è a casa sua e tu a casa tua. E stiamo sì comunicandoci dei nostri pensieri, né più né meno come facevano i radioamatori, per scambiarci informazioni e “parlare” del più e del meno. E intanto il tempo passa. Però io non scambierei la mia responsabilità personale con la certezza di essere eterna. Che non solo non mi interessa di essere eterna, ma a pensarci bene temo che sarebbe un peso eccessivo esserlo, e che quindi preferisco essere mortale. Di più: sono contenta che un giorno morirò e non vedrò più tutte le schifezze che ci sono in questo mondo.
ciao
@Marco
Assemblare le parole di un vocabolario, come fai tu, in perfetto stile autustico, non significa comunicare, ma solo fare giochi lingustici, privi di senso comune. La filosofia, anche per Heidegger, è tale solo se si ponte oltre il senso comune. Così facendo, riesce ad instaurare il tempo dell’angoscia, proponendosi come follia ontologica.
Dunque sei in buona compagnia. E, così, pure Severino. Beati coloro che non sanno e che, mangiando il minestrone, vivono nell’eterno presente, pensando solo a quello e non ad altro. La digestione ci guadagna.
(@ Carlo: ci mancava solo l’estrema unzione ..)
@ Marco: non farci caso. Il tuo ultimo commento era molto interessante. Sono io che ero ieri ho fatto una sentesi eccessiva, anche perché ci sono anche molte cose belle e gradevoli nel mondo, per fortuna.
Però voglio chiarire il motivo per cui ho abbandonato Severino: poiché bisognerebbe quanto meno prima essere certi di poter realmente dire qualcosa dell’essere in generale, e io non lo sono più, almeno dal momento in cui mi sono liberata dalle pastoie di Severino. Penso che nella realtà, se possiamo intravedere e avere l’intuizione che l’essere “è”, non possiamo dire altro sull’essere. C’è qualcosa. Ma cosa? Sono solo le predicazioni determinanti – quindi “cosa”, e i modi – che danno un contenuto che può essere pensato. L’essere che noi possiamo conoscere è un essere del tutto diveniente: un divenire (ontologico) che crea i modi dell’essere, della sostanza. I modi dell’essere è ciò di cui è lecito parlare. Quindi i modi della sostanza, ciò che appare nel divenire nel trasformarsi delle cose e dei modi. Ed è la relazione fra le cose, e fra esseri umani fra loro e tra le cose, responsabile della trasformazione, dell’avvento della cosa all’altra e alla successiva e così via.
A presto.
@Milena
Leggendo l’assioma di Marco, che proclama: “la totalità contiene se stessa come sopraggiungente”, verrebbe il ghiribizzo (idea improvvisa e stravagante), non me ne voglia Marco, di cambiare canale con il telecomando. Oppure, appunto, di chiamare un sacerdote (non per l’estrema unzione, come dici tu), che in qualità di esorcista (delegato dal proprio vescovo) compia esorcismi sull’ossessione ontologica. Liberarsi dalle pastoie di Severino e, in generale da tutte la pastoie ontologiche è cosa buona e giusta e fonte di salvezza (per tutti).
Inviterei, modestamente, in punta di piedi, tutte le persone di buona volontà a leggersi il libro di Richard Rorty “La filosofia dopo la filosofia”.
Torniamo al minestrone, ben cucinato!
Milena spinozista…
Già: l’ossessione ontologica. Eppure – nonostante Rorty e il tentativo di liberarsi da ogni ansia per i fondamenti, gli immutabili, le menti speculari e quant’altro – temo che la filosofia non possa fare a meno di se stessa, e cioè, in utima analisi, dell’ontologia. Certo, può fare a meno (e verificare e liberarsene in tempo) di tutte le ossessioni. Ma queste sono “umane, troppo umane”. D’altra parte, che cosa mai ce ne faremmo di una filosofia sovrumana?
Salve.
Sì, ma scusatemi…che cosa dovrebbe significare che la totalità contiene sé stessa come sopraggiungente? Chi o cosa stabilirebbe ciò?
A presto.
Il simpatico Carlo scrive:
“Leggendo l’assioma di Marco, che proclama: “la totalità contiene se stessa come sopraggiungente”, verrebbe il ghiribizzo (idea improvvisa e stravagante), non me ne voglia Marco, di cambiare canale con il telecomando”
Il tuo voler cambiare canale è il “sopraggiungere” di tale volontà, rispetto a quel che, prima che essa si facesse innanzi, lo precedeva. E tuttavia il sopraggiungere di qualcosa si mostra (cioè esiste) solo in quanto non viene dal nulla: il suo non venire dal nulla (ossia la sua eternità) è la “totalità non-sopraggiungente” che contiene appunto se stessa (ossia la medesima volontà di cambiare canale) come un sopraggiungere. La totalità è, appunto, tutto, e pertanto è anche questa tua volontà. In quanto “è” questa tua volontà, quest’ultima “è” la totalità dell’essente; in quanto, invece, è “anche” (cioè “non soltanto”) questa volontà, la totalità include questa volontà come sua “parte sopraggiungente”. Tutto ciò che esiste è sia totalità sia parte, sebbene non sotto il medesimo rispetto. Pensare che la totalità sia qualcosa di non visibile è illudersi, perché, se così fosse, sarebbe visibile “soltanto” la parte; ma che sia visibile “soltanto” la parte è impossibile, perché essa è tale rispetto alla totalità. La totalità non è l’Uno neoplatonico o il Dio di Tommaso, e non è nemmeno un archè che rimanga celato al nostro sguardo: la totalità è tutto ciò che il tempo è destinato a mostrare, e lo è proprio in quanto il passato “si distingue” dal presente e dal futuro.
Se quel che affermo io (o Severino o chiunque altro) è contraddittorio lo si deve mostrare concretamente, ribattendo attivamente e con senso critico o aporetico quel che dico. Altrimenti, se non si è in grado di accostarsi a tali tematiche, il silenzio è l’arma più consona a tale contesto. Ché, se così non fosse, l’incongruenza rispetto a quel che si afferma non avrebbe senso di essere.
Marco
@Marco
Sono dispiaciuto se ho urtato la tua sensibilità, ma ritengo che Il non-senso (assemblaggio estemporaneo di vocaboli ) non sia contraddittorio, ma semplicemente irricevibile.
Non è possibile argomentare su enunciati che nullificano la semantica.
Ripondo alla tua ipotesi: .. che io non “sia in grado di accostarmi a tali tematiche”. Può essere certamente verosimile. Resta il fatto, che io, diversamente da te, sono certo di una sola cosa: di non sapere.
Amen
Salve.
E no caro Marco, spetta a te l’onere della prova. Se esprimi una tesi poi non te la puoi cavare con “se non si è in grado di accostarsi a queste tematiche meglio tacere”. Vorrei farti notare che tu continui ad affermare che il tutto è il tutto. Non hai fatto un singolo passo avanti, tranne il continuare a “fare ammuina” in senso linguistico. E non tanto per questioni di confutazione, ma semplicemente perché se qualcuno ti chiede “perché?” tu devi essere in grado di argomentare quel che dici. Se hai capito tu stesso quel che dici lo puoi spiegare anche in parole semplici (o più semplici), partendo ad esempio da definizioni non ambigue dei termini che usi, e se lo puoi esprimere in parole semplici vuol dire che tutti i tuoi pinnacoli linguistici sono solo un inutile esrcizio di superbia che oltretutto svilisce il tuo pensiero e la tua tesi. Se poi la tua soddisfazione è quella di aver detto qualcosa che gli altri non capiscono ti do una dritta: non è una cosa geniale, è una cosa inutile.
A presto.
Ma che caspita dici Luciano! Se uno, a quel che dico, risponde così come risponde Carlo, e cioè che gli verrebbe di cambiare canale, questo è filosofare? Se qualcuno è disposto ad ascoltare e a confrontarsi amichevolmente e pacificamente, io sono qui a spiegare e rispiegare mille volte quel che dico. Ma se continuate a dire che non bisogna perder tempo con me e con Severino, allora non potete poi lamentarvi se alzo il tono ammonendo il modo semplicistico di disfarsi di tutto ciò.
Alle domande rispondo sempre, e anche alle tue ho risposto. Se non sai cosa intendo io per “eternità” (l’ho spiegato infinite volte) o per “struttura infinita” basta chiedere. E ho sempre risposto. Io sono sempre in grado di argomentare tutto quel che vuoi. Chiedi e ti sarà dato, diceva qualcuno.
Carlo scrive: “non è possibile argomentare su enunciati che nullificano la semantica”, quindi sei in grado di dirmi cosa significa “non è possibile”, “argomentare”, “enunciato”, “nullificare”, “semantica” (e mi fermo qui)? Quindi sei proprio te il super-filosofo che poi però dice di non sapere? e se non sai perché hai la pretesa che quel che dici sia vero? Ché, se non avessi questa pretesa, sarebbe comunque falso, in quanto ipotetico.
Allora, lo dico una volta per tutte: se qualcuno intende confrontarsi serenamente sulle tematiche fondamentali della filosofia, io sono a completa disposizione. Ma se dobbiamo continuare a pensare alle presunte “soddisfazioni di Marco Pellegrino” o di “Luciano” o di altri, allora non è il caso di perdere altro tempo. Sono qui per filosofare, rispondere alle domande e cercare di spiegare il mio pensiero. O si fa questo, oppure la filosofia è inutile. Ergo: non risponderò più alle insinuazioni prive di fondamento filosofico. Che io sia “Marco Pellegrino” non conta proprio nulla, proprio perché in verità noi siamo la struttura infinita che include anche l’illusione che qualcosa sia “Marco Pellegrino, individuo capace di trasformare il mondo e le cose”. Noi non siamo capaci di “fare”, a meno che il “fare” non viene inteso come l’ottenere, nella verità, tutto ciò che è necessità che appartenga all’essere.
@ Marco
“noi siamo la struttura infinita che include anche l’illusione che qualcosa sia “Marco Pellegrino, individuo capace di trasformare il mondo e le cose”. Noi non siamo capaci di “fare”, a meno che il “fare” non viene inteso come l’ottenere, nella verità, tutto ciò che è necessità che appartenga all’essere.”
Ecco: l’hai detto.
Io sono contraria a questa visione delle cose. Visione che, bada bene, è anche un pensiero di un certo mondo che ha tutto l’interesse a mantenere le cose e gli uomini sottomessi a quella “loro” visione.
Per questo ti dico, che quello che tu sostieni, non è la verità, bensì la “tua” (o loro) verità. Ma non è affatto una verità assoluta, tant’è che solo alcuni la condividono. Per fortuna.
Essere parte di una struttura infinita, già è cosa che mi fa accapponare la pelle. Dov’è questa struttura? Tu dici che esiste questa struttura, e la chiami struttura. A me piacciono poco anche le parole che usi, sulla scia di Severino, perché io per esempio lo chiamerei universo.
E l’illusione: qualcuno vuol farci credere che tanto il mondo che appare sia solo illusione, sogno, quindi tanto vale rilassarci, che tanto non ci si può fare nulla, che tanto se non è già stato deciso nelle alte sfere dell’essere infinito, non si può fare niente, e tanto la “vera vita” ha da venire in un futuro fulgente dove anche i poveri della terra verranno salvati. Ma ti rendi conto che questo è solo un discorso religioso? In-vece di chiamarlo Dio, lo chiamano Essere, ma è la stessa cosa, identica. E noi saremmo folli soltanto perché e se non ci adattiamo ad accettare l’infinita identità dell’essere con se stesso? E noi parte dello stesso?
Ma il problema ancora più pregnante, è che siccome nella struttura ci sono delle Leggi, queste Legge, l’unica Legge, è la legge della struttura dell’essere, che non è altro che Dio. La Legge di Dio.
E non so se sai che in certi ambienti si stanno già dando da fare per “rafforzare Dio”. In cattolica hanno già aperto dei corsi dal titolo “Date a Cesare quel che è di Cesare”, ma che in realtà significa: Facciamo in modo che Cesare faccia quello che vogliamo noi! Loro sì che lo possono “fare”?
E dove parte tutto questo? Dal pensiero fulgente di Severino.
E sai cosa mi fa ricordare, in concreto la Struttura? Mi vengono in mente le cattedrali, delle costruzioni infinite che succhiano al mondo energie e risorse che potrebbero invece essere usate per alleviare la fame, i problemi della povera gente. La Sagrada Familia, il Duomo, San Pietro e l’ultima cattedrale eretta in onore a Padre Pio, sbrilluccicante d’oro, così che i poveri di spirito restano a bocca aperta e non possono fare a meno, nella loro ingenuità, di riconoscere il Potere e la Verità Assoluta.
Sai cos’è? È che tutto questo mi disgusta.
Sai invece cosa mi piace?
Per esempio che … “Non possiamo riferire al tempo dell’essere in generale ciò che sembra vero del tempo di una rosa!”
Il tempo dell’essere è il tempo infinito. In-vece il tempo della rosa, come il tempo di Marco, di Luciano e di Carlo ecc. è un tempo finito, dove non conta più tanto, direi proprio per niente, la necessità dell’essere, ma contano le necessità di ognuno dei loro esseri particolari, compresa la responsabilità di “fare” o “non fare”, quindi la possibilità di scegliere, di decidere, per quanto piccola sia la parte di libertà di cui ognuno dispone.
chiedo scusa a tutti voi appassionati, ma vi pare davvero che abbia senso discutere del pensiero di un uomo che scrive frasi di questo tipo?
« Atteso dalla terra che salva – scusate, è la terra che salva l’uomo oppure l’uomo che salva la terra? nessuna delle due frasi è portatrice di senso, ma barcamenarsi fra le due senza dirlo chiaro non è semplicmente disonesto? – e dalla Gloria, l’uomo, nella sua verità, cioè in quanto cerchio eterno dell’apparire della verità del destino di ogni essente, attende gli eterni della terra che salva e della Gloria. L’attesa è la necessità del sopraggiungere dell’atteso» (p. 19).
atteso, l’uomo attende, e l’attesa è la necessità dell’atteso.
all’ingresso del museo di Stuttgart ricavato nella casa di Hegel ci sta una frase di Schopenhauer: “Hegel, il più grande ciarlatano della storia”.
poi, su questa strada discendente della filosofia delle parole senza senso è venuto Heidegger.
e poi ancora, via discendendo Severino, che non ha neppure più alcuna grandezza salvo quella della sua supponenza.
ma, suvvia, niente di questo può davvero essere preso sul serio!
Milena Milena. Va bene, vedo che non ti sforzi però per cercare di capire quel che scrivo io (o Severino). Vedi, qualsiasi cosa te, Milena (o altri), affermi, l’intenzione primaria è quella di dire “la verità”. I tuoi messaggi precedenti intendono mostrare qualcosa di “vero” o di “falso”? Attenzione, non puoi replicare dicendo che te esponi semplicemente “il tuo modo di concepire le cose”, che potrà rivelarsi vero o falso, rimanendo attualmente nell’ipotetico. Non puoi replicare così, perché ogni ipotesi è contraddizione.
Ti posso fare una domanda? ti chiedo: esiste qualcosa (te sei qualcosa) o non esiste nulla? Mi risponderai che esiste qualcosa, proprio perché te e tutto ciò che ti circonda è qualcosa e non un nulla. Ma, allora, questa affermazione (esiste qualcosa) è negabile o innegabile? Se dici che è negabile, allora vuol dire che esiste un tempo (luogo) in cui si possa dire che non esiste nulla, e cioè in cui qualcosa può dire di non esser qualcosa. Ma questo è l’impossibile! La verità assoluta è la stessa affermazione che tutto ciò che esiste non viene e non va nel nulla. Hai mai visto che qualcosa viene dal nulla? Impossibile, altrimenti vedresti che tale qualcosa è, in quanto non-nulla, nulla. Vedi che le cose “vengono”? Sì, vedi e vediamo che le cose vengono. Ma vedi che vengono “dal nulla”? No signore!
Poi mi parlavi di “universo”, va bene Milena. Non ci sono problemi, invece di parlare di “struttura infinita” useremo il termine “universo”. Ma cosa cambia dal punto di vista semantico? Nulla. Infatti la struttura infinita dell’eterno è, se vogliamo cambiare terminologia, l’universo intero che include ogni sua individuazione. L’Uni-verso, verso-l’uno. Sei contenta? Io non ho problemi nel cambiare terminologia, possiamo usare tutte le parole che preferisci. Il significato non cambia.
Salve.
A me pare che la questione centrale sia il fatto che se qualcosa venisse dal nulla dovrebbe essere nulla perché parte stessa del nulla da cui viene. Ma questa è una questione squisitamente intellettuale giacché nessuno ha mai potuto vedere il Nulla, così come nessuno ha mai potuto vedere il Tutto. E’ una questione del tutto inutile e francamente non so come si possa argomentare dicendo che questo implichi il nostro essere eterni. Semmai prima sia esistito un nulla (che pare tanto una contraddizione detto così) noi non potremo mai saperlo. I credenti diranno che Dio ha creato il Tutto (che da come lo definiamo include anche Dio stesso) e i non-credenti diranno che è stato il Caso (facendolo assurgere di fatto al ruolo di Dio Laico/Scientifico). Di fatto la soluzione unica (e obbligata) diventa che il Tutto include il Tutto, cioé non arriviamo a niente. Purtroppo non lo sapremo mai a meno che “qualcuno” non ce lo dica…la domanda allora diventa: a lui/lei chi lo ha detto?
A presto.
Ciao Marco. Se per questo neppure tu ti sforzi di cercare di capire quello che scrivo io. Non ti pare?
Comunque, per quanto mi riguarda, non mi interessa “dire” la verità. Mi accontenterei della verosimiglianza, ma più che altro mi interessa dire “anche” quello che io sento, mettendomi “anche” al di fuori del sistema raziocinante di Severino, e invitando anche te ad uscire un pochino da quel sistema, per lanciargli uno sguardo disincantato, dal di fuori, anche per prendere una boccata d’aria diversa, o guardarlo come si guarda un fenomeno qualsiasi come per esempio potrebbe fare un sociologo.
Riguardo alla tua domanda, direi che “non credo” che possa o sia mai esistito un tempo in cui ci sia stato il “nulla”. In più, “non credo” che l’universo venga dal nulla, poiché sarei più propensa a credere che non venga e non vada da nessuna parte e in nessun luogo, pur sussistendo delle evidenti mutamenti e movimenti nello stesso.
Però dico per l’appunto “non credo”, perché non lo so, e non lo potrò mai sapere con assoluta certezza, così come non lo puoi sapere né tu né Severino.
Per questo dico che non si dovrebbe fondare un’ontologia su una credenza (positiva o negativa che sia) e costruirci sopra una cattedrale. O per lo meno, lo si può fare, ma se lo si fa si deve ammettere che è solo fede – fede nel linguaggio, nelle capacità del pensiero e della mente di immaginare e creare un mondo ontologico di fantasia, anche se sostenuto da una ferrea logica interna. È un discorso fideistico, un atto di fede. Per questo ritengo che sia solo una credenza come le altre. Una delle tante. Persino i matematici creano modelli matematici che, per quanto utili, poi nella realtà risultano appena congruenti (tant’è che sembra proprio che, se nei calcoli due più due fa quattro, nella realtà i conti non tornano mai) figuriamoci il discorso di Severino.
E soprattutto le sue ultime evoluzioni, che mi sembrano un tentativo estremo di esorcizzare la paura della morte, che tenta di superare rassicurandoci, e dicendoci (ma lo dice lui) che, per esempio “Il disfacimento del corpo è immediatamente seguito dalla Gioia suprema in cui, innanzitutto, l’ uomo prende coscienza della propria altezza”.
Anche qui, come fa a saperlo? Chi gliel’ha detto? Non è che per caso ha fatto esperienze pre-morte e ha attraversato il tunnel? E’ un veggente?
Se poi, inoltre, “l’uomo è infinitamente più alto di Dio”, questo vorrebbe anche significare che lui (Severino) conosce anche Dio? Forse questo spiega perché lui sa tutte quelle cose?
Con questo però non voglio dire che tutta la speculazione severiniana vada mandata al macero, e neppure che vada mandato Lui al macero. Lui è libero di fare tutte le circonvoluzioni che ritiene di fare, come io libera di non farle e di non seguirlo nelle sue circonvoluzioni, anche perché mi piacciono sempre di meno e non posso condividerle.
Quindi, per quanto mi riguarda, è un capitolo chiuso, e prossimamente intendo fare altre cose … che so, per esempio farmi scuotere l’animo da Eros? 🙂
(già immagino potrebbe essere per lo meno più divertente)
ciao
Vedo che non vuoi continuare la discussione. Bene, non c’è alcun problema. Rimani con le tue “credenze”. Ti dico soltanto un’ultima cosa: che tutto sia eterno non può essere una “credenza”, bensì è l’innegabile: non è infatti una credenza l’esistenza di qualcosa, e se l’esistente non fosse già esso l’eterno, allora esisterebbe un tempo in cui è negabile ciò che invece è innegabile. Sei disposta a dire che esiste qualcosa (e che non è una credenza)? Se sei così disposta, e portando fino in fondo, al di là delle parole, questa verità, è necessario dire che “esistere” significa “eternità”.
Ciao
@rozmilla: di fatti mi convinco sempre di più che l’immaginazione abbia una parte fondamentale in tutto ciò. C’è come un’immaginazione ontologica ineliminabile in tutti i discorsi che noi costruiamo (immaginiamo, appunto), su queste faccende così “scabrose”. La butto lì, ma ci devo ancora riflettere un po’, magari ripartendo dal solito e geniale Spinoza (senza dimenticare, nel frattempo Eros e tutto il resto, naturalmente…).
Caspita, Spinoza è geniale e Severino è un brocco? Perché, Spinoza non afferma anch’egli che tutto è eterno (sebbene lo affermi in modo diverso)?
Certo che no Profeta, non ho mai pensato a Severino come a un brocco (altrimenti non ne avrei scritto sul blog). E d’altra parte vedo che tali questioni, nonostante a volte si parlino linguaggi diversi o non ci si intenda, e nonostante qualcuno sia propenso a rigettarle come inutili od oziose, restano tra le più seguite ed “appassionanti” del blog.
Mi dispiace, Marco, ma “esistere” significa “esistere” e “eternità” significa “eternità”. Forse sei tu che “credi” che “esistere” significhi “eternità”, non io.
Conosco la “dimostrazione” che fa Severino, ma non mi convince proprio per niente. È una dimostrazione fondata sul significato etimologico delle parole, da cui di dovrebbe evincere che, andando all’origine del significato delle parole (verbum) scopriamo la verità di Dio. E tutto questo a mio parere parte da “in principio era il verbo” che non dice altro che la fede di Severino, ovvero il contesto da cu prende avvio la sua speculazione.
E comunque, io ho cercato di rispondere alle tue domande, ma tu non hai risposto a quelle che ti ho fatto io. Posso contarci?
Quali sarebbero queste domande? Dimmi. Comunque quando dico che “eternità” significa “esistere” non mi riferisco a Severino, mi riferisco al mio discorso. Che “eternità” significhi “esistere” non significa non vedere la distinzione tra queste due parole, ma significa che queste due parole (segni) indicano un unica realtà (significato).
@ Marco:
Sì, ma anche se il significato profondo di queste due parole fosse lo stesso, non è detto che questo corrisponda alla realtà concreta: corrisponde soltanto alla realtà del significato, nel mondo dei significati che noi abbiamo dato alle parole, o che vogliamo o decidiamo di dare alle parole.
Con le domande che ti ponevo nel precedente commento, ti invitavo ad esprimere un tuo giudizio su alcune affermazioni di Severino, per esempio “Il disfacimento del corpo è immediatamente seguito dalla Gioia suprema in cui, innanzitutto, l’ uomo prende coscienza della propria altezza”.
Ma anche, “l’uomo è infinitamente più alto di Dio”.
Insomma, ti chiedo come faresti a giustificare simili affermazioni, e se le condividi o meno.
Ah ok, ti rispondo allora.
Prima però chiarisco sull’eternità: la “realtà del significato, nel mondo dei significati che noi abbiamo dato alle parole” è, secondo te, innegabile. Bene, ma se è “innegabile” allora non puoi dire che non è “realtà concreta”, altrimenti sarebbe un’ipotesi priva alcuna verità. E allora, affinché non ci si contraddica, è necessario dire che il linguaggio, da ultimo, indica la realtà concreta, altrimenti, affermando che il linguaggio non indica la realtà concreta, ci si contraddice appunto perché nemmeno questa affermazione linguistica può essere vera (cioè realtà concreta).
Ti rispondo su Severino:
sto leggendo “la morte e la terra”. Avevo già spiegato, nei messaggi precedenti, il motivo per cui non condivido l’affermazione che “Il disfacimento del corpo è immediatamente seguito dalla Gioia”. Provo a chiarire nuovamente questa mia non condivisione.
Severino afferma che dopo la mia e qualsiasi altra morte, intesa come il compimento della volontà di annientare l’essente, si manifesta un’istante senza tempo in cui appare l’intero dispiegamento “della mia vita”, seguito dal sopraggiungere (ed ecco il tempo) della “terra che salva dall’isolamento”, in cui non appare semplicemente “la mia vita”, ma “ogni vita” in quanto oltrepassate definitivamente (in ciò che il Nostro chiama “l’unità del venerdì santo e della pasqua”).
Bene, questo Severino lo afferma (e io non lo condivido) sulla base della “molteplicità infinita delle coscienze finite” (che invece nel mio discorso è negata, perché io affermo, invece, la molteplicità FINITA delle coscienze), una molteplicità che a sua volta è affermata sulla presupposizione (a mio avviso contraddittoria) che lo “sfondo trascendentale” sia qualcosa di diverso dall’ “apparire infinito”, e che, tale trascendentale, consista in qualcosa di diverso da ciò in cui consistono i suoi “contenuti empirici”.
Ecco, nel mio discorso nego tutto ciò, nel senso che il trascendentale è identico all’infinito, i cui contenuti empirici sono in verità gli stessi essenti di cui appare l’infinità trascendentale; ed è pertanto che insisto nel dire che l’eternità infinita “si mostra immediatamente”. Pertanto, è assolutamente impossibile che “dopo la morte di ognuno” si manifesti l’oltrepassamento della volontà di annientare l’essente, perché, se così fosse, verrebbe negato “l’apparire trascendentale e infinito dell’essente”, che sperimenta via via i propri contenuti. Ciò significa che non la morte “di ognuno” manifesta l’oltrepassamento della volontà di potenza, bensì, tale oltrepassamento, sopraggiungerà dopo “una certa morte”, perché in verità ogni vita ed ogni morte sono interne all’Uno che ognuno di noi è.
Non ti devi scandalizzare di fronte a certa affermazioni, che sembrano così estranee alla vita di tutti i giorni. Dietro c’è una logica in relazione alla quale si comprende che “logica” è “esperire ogni cosa, nel tempo opportuno”. Ancora siamo lontani dal comprendere in carne ed ossa che così stanno le cose. Io stesso so benissimo quanto la vita sia difficoltosa e piena di insidie; addirittura, può darsi che dopo la mia morte tutto questo che sto pensando scenderà nell’oblio; sennonché, da ultimo è necessario che ogni dimenticanza si mostri come tale, ossia come ciò che solo in relazione alla manifestazione di ogni evento è possibile dimenticarsi di eventi passati, o non riuscire a prevedere ancora gli eventi futuri. Noi, attualmente, ci troviamo in questa situazione, e pertanto soffriamo, inevitabilmente, più di quanto crediamo di soffrire. Tuttavia, questa non può essere la situazione definitiva, perché altrimenti verrebbe negato ciò rispetto a cui essa si costituisce, e che è la relazione tra ogni cosa, una relazione destinata a sopraggiungere nella carne e nelle ossa che ad essa competono.
@Profeta: anticipo Milena, che magari vorrà poi commentare.
Io non mi scandalizzo affatto di “certe affermazioni”, anche perché sono piuttosto aduso a vedere il nesso tra vita quotidiana e “cose astratte” (sono argomenti ricorrenti dell’antifilosofia, ma facilmente smontabili).
Però, davvero, le ultime righe del tuo ultimo commento – dall’oblio in poi – non mi sono affatto chiare. Anzi, mi riportano al discorso sulla “schizofrenia ontologica” di cui parlai qualche giorno fa a proposito dell’autobiografia di Severino.
Quando comincio a sentir parlare di “carne”, “ossa”, “sofferenza”, “destinazione”, pasque, venerdì santi e quant’altro, mi si drizzano subito le antenne da inveterato materialista/immanentista. Ecco perché, a proposito di Severino, mi son permesso di parlare di “fumisterie soteriologiche” campate in aria, che nulla hanno a che fare con la logica incontrovertibile che il suo discorso vorrebbe avere.
Da ultimo: tutto quel che diciamo/pensiamo, con buona pace di Severino e della infinita presunzione del nostro pensiero, è destinata – grazieaddio – ad essere obliata. Sarà pure da qualche parte (visto che non è un niente) e sarà in relazione con tutte le altre parti – ma non produrrà alcunché. E, soprattutto, non allevierà di un grammo la sofferenza di nessuno.
Hai immaginato male Md. Mi sa che mi faccio un bagno, e poi cucino una torta alle mele. Cose di questo tipo, insomma, molto concrete. Mettere ordine nelle bollette della luce e del telefono, togliere polvere dalle mensole e le ragnatele dagli angoli delle stanze. Stirare qualche camicia, stendere. E magari metto insieme un po’ di vestiti ancora un buono stato per quei poveri cristi che stanno nelle carceri, che li beccano in Malpensa a trasportare droga, li spogliano e li spediscono in carcere senza niente, né vestiti, né scarpe, né sapone né dentifricio. Mi rimane il dubbio se sia giusto farlo, perché le carceri (e lo stato) ne approfitta del volontariato, ma poi penso che è difficile sapere cosa è giusto, e che se io fossi nei loro panni, che non hanno, preferirei avere una maglia pulita che un dubbio.
Grazie però per avermi anticipato ..
Un saluto anche a Marco. Buona fortuna. Ma se vuoi venire a fare un giro nelle carceri, dimmelo, così potresti toccare con mano “una” delle realtà concrete: in carne ed ossa!
E chissà, magari potresti capire che le parole molto spesso non sono altro che frottole, giochi di parole distanti anni luce dalla realtà concreta.
ciao
Ok, verrò presto nelle tue prigioni, in modo tale da vedere quella concretezza che, proprio perché tale, non può venire dal nulla, e infatti te non vedi e non puoi vedere che qualcosa non è eterno: il mortale è eterno “come mortale”, appunto. Se così non fosse, non potresti affermare l’esistenza del mortale. Che il mortale sia eterno significa che il mortale è il mortale. Vuoi negare l’identità tra il mortale è se stesso? Non puoi. Vuoi dire che questa identità non è la sua eternità? Va bene, usiamo allora la parola identità, invece della parola eternità. Diciamo allora: ciò che nasce e che muore è ciò che nasce e che muore. Ho detto qualcosa di strano, schizofrenico? Ho detto quel che è necessità dire e che anche te dici, volente o nolente. Vogliamo fermarci alle parole o vogliamo andare al di là del linguaggio?
Buona serata
Ottima scelta, Marco. Sono contenta che hai deciso di venire insieme a me nelle mie prigioni (detto così mi sento quasi Silvio Pellico 🙂 )
Però per arrivarci occorre prima fare dei preparativi, allenarsi a parlare di cose semplici, come chiacchierare del più e del meno. Ci stai? Perchè per andare nelle carceri bisogna prima prepararsi un pochino. Se ti va potresti cominciare a parlami di qualcosa di molto comune. Per esempio, a descrivermi cosa vedi quando guardi fuori dalla finestra. Oppure, non saprei, leggermi (scrivermi) una poesia che ricordi che ti piace, o una canzone. O altre cose: scegli tu da dove cominciare. Spero che questa mia proposta non ti scandalizzi. Va bene?
Ora esco a fare la spesa. Oggi finalmente ho la macchina e ne approfitto.
Ti auguro una buona giornata.
Milena.
Cerco di accontentarti allora.
Apro la finestra, lo sguardo diffonde il suo chiarore su alberi, cielo, sole e una miriade di cose la cui decifrazione resta in attesa di risposta.
Penso a quel che ho fatto ieri sera, l’intensità angosciosa cresce a dismisura, il futuro è l’imprevisto: potrebbe riportare quel dolore che nella sera appena passata si estendeva in me.
Chiudendo la finestra, ritrovo sullo scrittoio vecchi fogli sgualciti, tra i quali uno il cui senso suona: “Colà dove gioir s’insempra”, mentre in Dante l’inluiarsi è già fiorito. La mia attesa si protrae in questo vento di passioni.
Sennonché, è nel paese dantesco che quel diventar per sempre è in luce. Chiarità dell’ovunque: proprio lei che coglie che quel mio aprir la finestra, insieme all’altrui immanenza, è l’esser già da sempre.
Marco
Ciao Marco. Vedo che hai deciso di iniziare con la poesia. Capisco cosa intendi, lo so.
Trovo che anche la descrizione che hai scritto di cosa vedi guardando fuori dalla finestra sia molto poetica. Io invece voglio provare a spiegarti cosa vedo dalle finestre del mio soggiorno, in un modo più prosaico (forse per me è più facile perché mi piace la letteratura minimalista, mentre al momento frequento poco Dante).
Allora. Ci sono tre finestre: una rivolta a nord, una a sud, e una rivolta ad ovest. La porta-finestra a sud si affaccia sulla veranda, che dà sulla strada. Nella veranda c’è un tavolo di legno di castagno, che avevo comprato da un rigattiere, che mi aveva detto che era un tavolo da osteria. Ora questo tavolo, che ho restaurato più volte, a furia di stare in veranda al sole, e d’inverno anche al gelo, è un po’ rovinato. La veranda è protetta da due rose rampicanti intrecciate ad una griglia di legno, che in alto creano una specie di tettoia di rami, un po’ disordinati al momento, e che fioriscono solo a maggio. C’è un vialetto di beole tra la veranda e il cancelletto, che separa in due zone il prato antistante la casa. Qualche cespuglio di magnolia e azalee, una rosa tea, delle belle di notte, una salvia e un rosmarino, e una siepe di gelsomino tra il mio guardino e quello del vicino; e una cancellata bassa, di plastica bianca, che gira tutto attorno alla casa.
La finestra a nord invece dà sul retro, dove c’è un triangolo di prato, e lo scivolo di beole grigie che scende verso il garage e la cantina. Più in là, oltre la rete di recinzione c’è il giardino e la casa della signora Maria. Un giardino ampio, d’estate sempre pieno di fiori, e la casa è grigio scuro: architettura moderna, con due linee diagonali che si allontanano da terra verso l’alto, veramente strana.
La finestra ad ovest si affaccia sul giardino della signora Rosita, con due enormi piante e un pendio, sempre molto curato. Infatti anche oggi sono arrivati i giardinieri che con i loro attrezzi a motore stanno facendo un bel baccano. Questa è la finestra dalla quale nei pomeriggi d’inverno entra il sole, ma per poco, soprattutto quando il sole si abbassa al di sotto dell’altezza dei tetti e di quelle enormi piante. Mi fermo qui, anche se potrei essere più precisa e scendere nei più minuti particolari.
Non so se sono riuscita a spiegarti un pochino cosa io vedo dalle mie finestre, ma spero di non averti annoiato.
Ma se ti va, mi piacerebbe che anche tu provassi a fare una descrizione più prosaica, così da farmi capire meglio le cose che ci sono, o com’è il paesaggio.
Questo pomeriggio però voglio andare in piscina a nuotare. È da quasi un mese che non mi faccio una nuotata e ne sento la mancanza. Ci sentiamo questa sera o domani?
A presto.
Milena
Mah, sai, al caro Profeta non piace molto parlare di prosaiche persuasioni, scendendo in quello che viene chiamato il “privato”. In realtà, non mi piace molto parlarne, non perché esso sia veramente il mio privato, ma perché appunto non lo ritengo importante. Della mia intimità più profonda, invece, non nascondo nulla, anzi è all’ordine del giorno: passo le mie giornate, come avrai capito, da buon filosofo il cui unico serio impegno è quello di confrontarsi con sé stesso. Odio il perbenismo; mi piacerebbe, un giorno, andare a vivere in una graziosa e piccola casa nei boschi, sulle montagne (come Eraclito); il quotidiano e i ritmi sociali mi disgustano; sennonché, quest’amarezza mi appartiene, respingere e accettare i pericoli della vita è la contraddizione del nostro essere. Non mi sembra di chiedere molto, e qui forse ci incontriamo su ciò che chiamavi “minimalismo”, anche se in forma più acerba, per quel che mi riguarda, e sono contento così.
Bada bene: quando dico di non ritenere importante il mio privato, non mi riferisco a quel che ti sto dicendo, e nemmeno al fatto che io abbia pubblicato un libro, o che da ragazzino passavo le notti col desiderio che il mattino rimanesse nell’antro (perché l’antro del mio mondo era il pensiero notturno). Quando parlo di ciò che ritengo superfluo, mi rivolgo al modo in cui tutto questo mio privato viene interpretato dai più, solitamente, in modo sviante e inappropriato, privo di saggezza. Ed è per questo che scelgo, abitualmente, di parlare semplicemente e puramente della filosofia, la quale, così esposta, mostra tutto il suo valore autentico, che appartiene anche a coloro che credono di poterle voltare le spalle. E anche parlando del mio privato parlo in verità della filosofia, che non è semplicemente un linguaggio, ma è proprio, anche, questo mio star qui seduto, e i sogni che presto si prenderanno cura del mio sonno, e altro ancora, e ancora altro: ancora me stesso.
Se proprio dobbiamo parlare delle mie cose, e delle cose che vedo gettando lo sguardo lì fuori, beh, ecco quanto. Sto qui a scrivere, il computer è davanti ai miei occhi; ho qui il mio libro, una penna, un cellulare. Alla mia destra e dietro di me delle finestre; al di fuori delle quali un grande cortile, come grande è la mia casa. Fuori non si muove una foglia; macchine in strada come acqua nel deserto: un piccolo paese tra i tanti. In casa, l’arredamento è per lo più in legno, una cosa buona ogni tanto. La televisione accesa, nessuno che la guarda, come fatuità e faciloneria che nel mondo si impongono, senza che esse catturino la mia attenzione, senza che esse cambino il corso naturale delle cose. La mia stanza è distante, una trentina di libri solo di Severino (e sono già troppi: dopo “La morte e la terra” mi fermo) che la riempiono; il letto che attende la mia venuta; sono anche raffreddato. Come una lama, il futuro prossimo si allunga, e questo è per me non è una novità, ricorrenze perpetue, che tuttavia attendono il loro declino.
Che bella la pagina hai scritto! Mi è piaciuta molto. E penso ci sia mancato non aver potuto conoscere prima anche questo tuo aspetto, non dico “privato”, ma personale. E’ bello conoscersi, non ti pare?
Sai, una volta ho incontrato il prof. Sini ad una lezione magistrale, e mi sono avvicinata per stringergli la mano nel momento in cui stava dicendo “se rinasco un’altra volta mi do alla letteratura”. E’ un uomo molto dolce, sembra un vecchio bambino, così io l’ho visto. Erano i primi tempi in cui avevo ripreso a studiare un po’di filosofia, qualche mese prima avevo partecipato ad un corso introduttivo tenuto da Mario. Mi aveva colpito quella frase, una di quelle frasi che rimangono in mente in attesa di spiegazione. Dev’essere perché fin da bambina mi è sempre piaciuto leggere e scrivere – temi, racconti, diari. Quand’ero adolescente una sera mio padre in un tono solenne mi chiese, Cosa vuoi fare da grande, e io risposi, La scrittrice. E scrivere, è una delle attività di cui di certo non ho fatto economia. Se provassi a mettere insieme anche solo tutti i commenti che ho scritto in questo Blog, bisognerebbe ammettere che ne ho scritta di paccottiglia. E in cantina ho delle pile di quaderni che mi devo decidere a prendere in mano per accendere il camino. Nello stesso tempo mi dico che tutto quello che ho fatto, letto e scritto, in un certo senso è il mio laboratorio, anche personale, ma pur sempre in relazione al mondo, e agli altri individui. E mi dico anche che se io fossi davvero sola, isolata da tutto il resto, mi sarebbe stato praticamente impossibile avere un’evoluzione, qualunque sia il giudizio che io stessa o altri potrebbero esprimere sullo stato o il punto in cui ora mi trovo. La cosa che non so come spiegare, è che mi sento sempre più sola, e nello stesso tempo mi sento sempre meno sola. L‘essere “sola” si riferisce al fatto di sentirmi più autonoma, e l’essere “meno sola” al fatto che mi sento più in relazione con gli altri.
Io non ho particolari problemi a parlare di qualche aspetto privato o personale, ma certo come chiunque, non dico tutto; ognuno ha delle zone segrete che non condividerebbe nemmeno col migliore amico, o con se stesso. Però il mio scritto di ieri non descriveva aspetti privati, ma solo cose. Semplici cose che vedo. Mi sono, diciamo, sforzata di non esprimere giudizi di sorta. L’unica eccezione, mi pare, è quando ho scritto di quella casa “veramente strana”, ma è soltanto perché qui nella zona tutti la chiamano così.
Per oggi avrei esaurito la razione di parole che persino Md. potrebbe sopportare di leggere. 🙂
Ma un’altra cosa: è scrivendo che mi sono accorta che di qualsiasi cosa che vediamo, della realtà, potremmo tracciare descrizioni differenti, a seconda dello stato d’animo o del momento, o del punto d’osservazione. Voglio dire che non risaltano ai nostri occhi, e ai nostri sensi, sempre gli stessi particolari, o gli stessi aspetti, per cui ogni volta potremmo darne, e di certo lo facciamo, un’interpretazione diversa.
Sai, inoltre non vorrei pensassi che la mia intenzione sia di “persuaderti”. Ce ne sono già tanti che vogliono convincerci della giustezza delle loro interpretazioni, che bastano e avanzano, senza che mi ci debba mettere anch’io. Io sono più una viaggiatrice, anche se fosse solo ‘autour de ma chambre’, e viaggio con spirito d’avventura, che sennò tanto varrebbe non partire affatto.
Per questo sto pensando che ho intenzione di scrivere un’altra versione di quello che vedo dalla mia finestra. Una ri-scrittura, si dice in gergo da scribacchini.
Se ti va, puoi provare anche tu a descriverlo in un altro modo. Potrebbe essere un viaggio interessante, per scoprire cose nuove. Che ne dici?
A corollario della discussione rimando al nuovo post pubblicato da i fratelli Boraso sul medesimo argomento:
http://wilmoboraso.wordpress.com/2011/10/30/superdio-superchimera/
Un saluto, Luca Ormelli
crollano castelli di carta senza far rumore
@rozmilla
“pensiero meraviglioso”
bravi!