Amletismi – 12

Emanuele Severino può anche aver ragione a sostenere le sue tesi neoeleatiche, soprattutto quella che ritiene eterna ogni cosa, ogni ente, ogni individuo – e, viceversa, “follia” tanto il divenire quanto la morte.
Però, come ci ricorda Hegel, non si può uscire dal proprio tempo (e dunque dalla mentalità profonda e costitutiva del proprio modo di essere) più di quanto non si possa uscire dalla propria pelle.
Cioé: posso anche pensare di essere eterno e liberarmi dalla paura della morte, ma sentirò altrimenti.
Filosoficamente eterno, esistenzialmente caduco.
Dunque, scisso.
Schizzato, schizofrenico, ossessionato, paranoico, angosciato.
Una bella cura, l’ontologia, non c’è che dire!

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

32 pensieri riguardo “Amletismi – 12”

  1. Ritengo che per poter affermare con dirimente perspicuità che qualcosa “è” piuttosto che “non è” sia opportuno interrogarsi su che cosa sia quel qualcosa/qualcuno che familiarmente chiamiamo “io” e che si pone l’interrogativo. Non per ricadere in annoso cartesismo ma temo che troppo spesso gli ontologi trascurino gli apporti “gnoseologici” delle neuroscienze. Secondo la psicoterapia cognitiva post-razionalista (cito da Wikipedia per comodità espositiva): « la consapevolezza di sé nasce in un processo circolare tra l’Io che sperimenta e agisce (l’Io), e l’Io riflessivo (il Me) che osserva e valuta. Ogni conoscenza è sempre il risultato di una interpretazione derivante da un processo continuo di regolazione reciproca tra l’esperire (l’Io) e lo spiegare (il Me) che ha come fine il raggiungimento di un significato articolato che garantisca un senso di continuità e di unicità». Di più, altri postulano che non di un “io” centrale che giudica si possa/debba parlare ma di differenti “io” tutti egualmente periferici in lotta (Streben? Dialettica?) per la istantanea preminenza. Va da sé che essendo parte del tutto che osserva il tutto come parte del tutto non posso attendermi altro che risposte “relative” persino negli ambiti di ricerca presunti “assoluti” come l’ontologico. Non si esce vivi dal neokantismo? Mi trovi quindi concorde Mario quando concludi che l’esserci che “è” MA sente (ed è quel MA che fa la differenza, tutta la differenza ontica) risulterà: «Dunque, scisso. Schizzato, schizofrenico, ossessionato, paranoico, angosciato». Se “io” “è” un altro cosa potrà mai essere l’Essere? Un saluto, Luca

  2. io invece penso che sia possibile uscire dal proprio tempo, l’uomo ha una struttura malleabile, anche la sua mente lo è…la scrittura è un chiaro esempio di questo.
    Può proiettarsi in qualsiasi epoca con la documentazione giusta.

  3. @Carla: capisco cosa intendi, però anche questo suo uscire/proiettarsi in altro, lo fa a partire da una collocazione spaziotemporale da cui non riuscirà mai a prescindere. E’ il motivo per cui noi possiamo anche immaginare la mentalità antica (o quella tahitiana), ma ben difficilmente esserlo. O meglio: possiamo anche provare ad esserlo, ma saremo pur sempre degli occidentali d’inizio millennio che si travestono da antichi o da tahitiani. Naturalmente resta sempre da stabilire che cosa si intende per “occidentali”, etc. etc.
    Forse, un esempio più calzante riguarda il nostro rapporto con le altre specie animali o vegetali: potremo immaginare tutti i loro mondi, ma mai esserlo.

  4. @MD
    Filosoficamente eterno, esistenzialmente caduco.
    Dunque, scisso.
    La tua affermazione mi rimanda all’eterno ritorno del dualismo.
    Platone, Cartesio..ecc.
    Perchè scindere l’essente ? Per sentirsi glorificati dall’eternità ?
    Torniamo a Spinosa, per favore. Anche perchè è … subito sera.
    A presto.

  5. @Md
    “posso anche pensare di essere eterno e liberarmi dalla paura della morte, ma sentirò altrimenti”.
    Aggiungo: l’unità che supera questa scissione è naturalmente l’essere come sostanza spinoziana eterna, di cui gli essenti sono semplici attributi. Avrebbe quindi ragione Severino.
    Vediamo il suo pensiero in pillole. Senza contorcimenti ontologici. Provo a dare un’ interpretazione sintetica. Egli afferma, che due sono le vie per dare senso alla domanda sull’essere dell’essente. La prima privilegia il divenire. Ne discende che lo sfondo da cui emergono gli essenti è il nulla e che questi ad esso ritornano alla fine del loro ciclo. Conclude: questa ipotesi produce un’aporia insanabile: l’essere dell’essente non può nullificarsi, per definizione. La seconda, è la soluzione a questo intoppo ontologico, che comporta un ribaltamento della prospettiva: lo sfondo della totalità degl’essenti è l’essere (sostanza spinoziana) e ogni essente, già da sempre e per sempre, in esso staziona, passando dallo stato di latenza allo stato manifesto, senza soluzione di continuità (eternamente), come le onde nell’Oceano.
    E qui il discorso potrebbe anche chiudersi, se non fosse per il fatto che quest’ultima rappresentazione dell’essere non è altro che un modello astratto, espressione del nostro vocabolario mentale contingente. E’ un assioma concettuale, senza verifiche in “laboratorio” (la scienza, a domanda, non risponde). Non è Episteme. Lasciamo a Severino tutta la “gloria” del caso.
    A presto.

  6. @Carlo: la sintesi è buona, però non mi convince la conclusione. “La scienza, a domanda, non risponde” perché non è fatta per rispondere a quelle domande.
    L’unico punto su cui mi sento di insistere è che la filosofia è essenzialmente ontologia, cioè non può non farsi (e non continuare a farsi) domande sull’essere, sugli essenti, sul nulla e quant’altro. Se non lo facesse sarebbe altro (scienza, etica, estetica, poesia, ecc. – tutte cose degnissime).
    Che poi questo sia utile, interessante, bello, divertente, eticamente rilevante, ecc. è un altro discorso. E che poi noi si sia in grado di dare risposte a quelle domande – anche questo è un altro discorso. Diversamente da eleati e neoeleati io non penso che si possa (al più si giunge ad un’ontologia a posteriori che si limita a dire che tutto quel che è ed accade è vero e necessario e non può essere altrimenti – tautologia che non ci fa progredire granché, anche se Severino ci ha scritto migliaia di pagine).
    Mentre con Spinoza penso che, al di là di quella tautologica ed indimostrabile sostanza (che è “causa sui” e che siamo pur sempre “noi” a pensare e concettualizzare), è del tutto inutile mettersi strani grilli in testa e pensare che siamo il centro o il fine dell’universo. Del quale non verremo mai a capo (nè capo né coda), solo perché siamo, appunto, una tra le tante onde del mar dell’essere.
    Rimane il fatto che quel che ho sopra scritto è, dalla prima all’ultima parola, ontologia. Inutilissima ontologia.

  7. @Md
    “La scienza, a domanda, non risponde” perché non è fatta per rispondere a quelle domande.
    Completo il ragionamento: certamente la filosofia ha il compito originario di porsi di fronte all’essere e di interrogarlo, anzi, dirò di più, la filosofia, in ambito metafisco, è tutta in quel domandare (heidegger). Ma sul versante del rispondere, proprio perchè, come tu dici, “non ne viene mai a capo”, essa naufraga ineluttabilmente.
    A me pare che la Physis ovvero l’Essere, che dir si voglia, essendo oggetto del nostro pensiero, costruzione del nostro pensiero, come cosa in sè, è da sempre inconoscibile, non dis-velabile. A meno che qualcuno, un Cristo redivivo, all’improvviso, venga presso di noi a raccontarci come stanno esattamente le cose. Il “colore” dell’essere si mostra attraverso la tavolozza del soggetto-pittore e delle sue aspettative.
    Cogliere l’essenza dell’essere è compito del sovrumano, non della filosofia come progetto umano.
    Da qui il mio invito a leggere Rorty. Potresti dedicare un post sul tema, ovviamente a tuo comodo.
    Grazie. A presto.

  8. Nel suo commento al famoso articolo del pipistrello di Nagel, Hofstaedter ha scritto una cosa che mi piaque molto:

    “Ogni parola è circondata, in ogni mente, da un ricco e inimitabile alone di concetti e sappiamo che, per quanto ci sforziamo di portarlo in superficie, ne perdiamo sempre una parte. Possiamo al massimo darne un’idea approssimata. Grazie ai mezzi per lo scambio dei memi, come il linguaggio e i gesti, possiamo sperimentare (talvolta in modo vicariante) che cosa si provi a essere o a fare X. Non è mai una cosa autentica, ma che cos’è poi una conoscenza autentica di ciò che si prova a essere X? Non sappiamo neppure cosa si provava a essere noi dieci anni fa: lo possiamo dire solo rileggendo il nostro diario, e anche così, mediante una proiezione!

  9. L’essere “è”. Qui si consuma il dramma della finitezza. L’uomo, in quanto ha di senzi-ente, esiste [non-è, esiste] immerso nell’orizzonte gnoseologico del non-essere ovvero del divenire incessantemente altro-da-sé. L’essere “è” concetto limite, asintotico ma necessario e propedeutico alla dinamica del processo psichico di rappresentazione, associativo per esclusione [percepisco il colore nero perché esso non-è né bianco né rosso ecc. e nella istantaneità della appercezione “è” da questi altri colori che dopo confronto enucleo il nero come quel colore che non-è assolutamente bianco, non-è assolutamente rosso ecc. laddove l’universale astratto “colore” non-è elemento di percezione bensì di elaborazione cognitivo/linguistica a seguito della percezione dello stesso]. L’essere “è” la risultante di una improprietà di percezione, a sua volta traduzione di una improprietà cognitiva atteso che per l’ente che sente [o, come preferisco chiamarlo, senzi-ente], l’uomo, tutto diviene e ni-ente mai “è”. L’essere “è” quell’astrazione che viene pensata [consciamente] come “negativo” semantico all’incessante divenire che ci atterrisce e ci smarrisce. “E'”, ancorché impropriamente, su scala impersonale quel che “sempre” ritorna, quella soluzione dell’identità che “è” il ciclo delle esistenze degli enti, dove il senzi-ente nella sua singolarità mai torna. L’essere “è” solo in quanto ha di idea, di Logos ma di quel Logos particolare che quando si fa uomo, senzi-ente, Parola, muore perché impropriamente “compreso” [qualcuno sul blog parlava della necessità di un nuovo Cristo venuto non a miracol mostrare ma l’essere a svelare…]. Noi uomini conosciamo il solo divenire, il non-essere, l’esistere e così, di necessità, “è” la nostra conoscenza.; gnoseologicamente percepiamo, associamo e conosciamo ovvero elaboriamo un elemento composito, un sinolo di percezione e traduzione cognitivo/linguistica che, man mano che cresciamo, non facciamo che ri-tradurre in un incessante ri-conoscere. L’essere “è” quindi, anche organicamente, intraducibile in quanto ha di irriducibile al divenire del processo cognitivo proprio del senzi-ente, l’uomo, che si pone la domanda ontologica. L’uomo, il senzi-ente, è dunque condannato come tramanda il Genesi: il demone è tale perché vuole, esorta l’uomo acché egli “diventi essere” [mangiando dell’albero], cristallizzi il suo divenire in “essere” ma un “essere” che accolga in sé il divenire stesso – ovvero il non-essere – semplicemente non-è; del pari Faust si danna quando pretende, esige che l’attimo si fermi, che il divenire quindi si arresti, “sia”. sotto questa luce va vista la demonicità del pensiero di Nietzsche, il suo ctonismo con l’inevitabile esito psicotico [come dice Mario, l’uomo è tanto più moderno quanto più è scisso] nella sua paradigmaticità. Un saluto, Luca

  10. @luca ormelli
    ma un “essere” che accolga in sé il divenire stesso – ovvero il non-essere – semplicemente non-è…
    Rifletto:ma di quale “essere” parliamo? dell’essere, in quanto essere, così come viene pro-posto dalla metafisica, con la sua estenuante ricerca (domanda)? Sappiamo, però, che quell’interrogazione non può con-cludersi. L’ ”Essere in sé” è, al momento, inconoscibile, quindi, non è dato sapere se può accogliere alcunché. E, allora, parliamo dell’esserci (essente antropomorfo) che staziona provvisoriamente nel suo maxi-abitat? Sembra che l’esserci concettualizzi il divenire (entropia/diventar altro) perché costretto dalle circostanze ambientali contingenti. Deve, cioè, progettare ed organizzare la propria esistenza/sopravvivenza. Si potrebbe definire il “divenire”, (instabilità spazio-temporale) un “a priori”, della mente umana? Ma in questo caso, non si può parlare di accoglienza, se mai, di permanenza di una proprietà antropologica innata, costitutiva dell’esserci.
    E’ possibile postulare l’esistenza di una sovrapposizione, una co-incidenza di essere e divenire, in modo tale che il pensiero “liberato” giunga, alla fine, ad un superamento dell’antinomia parmenidea, che ha letteralmente martoriato le menti (e non solo) degl’essenti (specie Homo sapiens) dal 600 a.C. fino ad oggi?
    Per esempio, predicando che il “divenire senza l’essere” e “l’essere senza il divenire” sono enunciazioni vuote (flatus vocis)?

    A presto.

  11. @Carlo: c’è però da dire che il 99,999999% della specie Homo sapiens vive (o sopravvive o muore) benissimo senza stare ad arrovellarsi troppo sulla questione ontologica…
    Certo che se le discussioni (peraltro da me pervicacemente provocate) su questo blog rispecchiassero le ansie della specie, allora sì che comincerei a preoccuparmi…
    A meno che (come io penso – ma, appunto, lo penso “io” e qualcun altro) l’ontologia e l’etica siano strettamente implicate. E quel “ne va dell’essere” significhi davvero “ne va della specie”, ma anche di tutti i viventi e gli enti del pianeta. Se così non fosse troverei (perlomeno “io”) tutto ciò decisamente ozioso.

  12. @Md
    E quel “ne va dell’essere” significhi davvero “ne va della specie”

    Sono in assoluta sintonia con te su questo punto. Perchè la mente umana produce concetti così capziosi sull’ ” l’essere dell’ente”? Semplicemente perchè “cercare di capire tutto il capibile” vuol dire, per l’esserci, parare per quanto possibile tutti i colpi “latenti” del destino.
    Insomma, ce la facciamo sotto e allora .. via con la filosofia!
    A presto.

  13. @ Carlo.

    Ragionamento corretto il tuo:
    «un “essere” che accolga in sé il divenire stesso – ovvero il non-essere – semplicemente non-è».
    Ed è quanto avevo scritto: «L’uomo, in quanto ha di senzi-ente, esiste [non-è, esiste] immerso nell’orizzonte gnoseologico del non-essere ovvero del divenire incessantemente altro-da-sé».
    Per me non-siamo. Presone atto posso dedicarmi all’impermanenza [secondo gradi e sfumature diverse: una montagna permane molto più di un uomo ma sempre transeunte “è” – ad esempio quando, accidentalmente, ne assisto al crollo di una croda ne avverto la provvisorietà] del sensibile. E tentare di intervenirci. Partendo dalla liberazione dell’Io per passare in seguito al consorzio antropico, sia esso comunità piuttosto che società. come sosteneva Freud, trasformare [il vecchio sempre nuovo sogno dell’alchimia e del rinnovamento con ben salde radici messianiche; non a caso Freud era di famiglia ebrea e della corrente chassidim] una nevrosi intra-psichica in una nevrosi “reale” è il massimo cui possiamo aspirare. Saluti

  14. @luca ormelli
    “Per me non-siamo”

    Ecco questo enunciato mi lascia perplesso. Grazie a Popper ho imparato a diffidare degli assiomi. Mi viene, quindi, naturale falsificarli. L’essente che sostiene di non-essere-ente, mi pare azzardato. Cartesio sosteneva che il pensare, come manifestazione dell’io, implicasse l’essere-ente dell’io stesso. Dire, dunque: io penso (di non essere), quindi non sono, a me pare un aporia (passaggio impraticabile).
    Capisco, in realtà, il tuo retro-pensiero: il divenire, come unica realtà la fuori, ci impedisce di essere. Ma allora, postulo io, se non posso predicarmi, in assoluto, come posso predicarmi come non-essere-ente.
    Concludo: restringere l’essere dell’ente fino ad azzerarlo, comporta logicamente che sia, in realtà il nulla a divenire. Siamo approdati nella terra del nichilismo più totale.

  15. Proviamo un attimo a capire il significato della parola esistere, e per capirlo, vediamo come lo usiamo.
    Dire che un albero esiste, si capisce bene cosa significhi.
    Dire che il neutrino esiste, già richiede lo sviluppo e la condivisione di una apposita teoria.
    Dire che esiste Dio, è ancora un terzo tipo di affermazione, che implica la fede.
    Dire che esiste l’ippogrifo, cioè un animale immaginario, è ancora un ulteriore uso della parola “esistere”.
    Allora, finiamola con i giochini da quattro soldi del Severino di turno, un po’ di serietà non disturberebbe….

  16. @ Carlo:

    Attenzione: sostenere come io sostengo che non-siamo implica una seconda parte dell’enunciato: altro-che-ente. Non mi hai “citato” esattamente poiché non ho affermato [come potrei?] che il senzi-ente non-è-ente. L’esistere dell’ente innerva il suo essere [questo essere è puro predicativo verbale non ontologico] senzi-ente. Ma, e mi ripeto: discettare di ontologia, acclarato che mai si giunge ad approdo alcuno, è come soffermarsi sui preliminari all’atto sessuale: non si penetra nel “reale”, e solo su questo possiamo, se lo vogliamo, incidere. Talvolta l’ontologia mi appare come la mistica del laico, un ozio da contemplativi sconsacrati per non assumersi la responsabilità dell’azione. Quanto a Popper: non ho mai amato il suo argomentare che sostiene l’identità di ragione e democrazia. La democrazia è tutto fuorché un sistema “libero”. Un saluto, Luca

  17. @Vincenzo
    Tu parli dell’esistere, quindi, dell’esistenza (piedi per terra). In realtà, la differenza tra essere ed esistere per i praticanti dell’ontologia è fondamentale. L’esistere attiene all’ente “concreto”, l’essere alle “condizioni” per cui gli enti sono (su queste si interrogano, per la verità, anche i fisici che indagano sull’universo). Detto questo, concordo sulla serietà.
    Si può benissimo disinteressarsi dell’essere (metafisica), per passare ad altro.

  18. Ribadisco: la frase assiomatica “Per me non-siamo”, seguita dal punto, mi ha condotto alla considerazioni che ho esposto.
    Su Popper prendo atto.

  19. @Carlo
    Evidentemente non mi sono spiegato.
    Il mio intervento era di carattere generale, era in defintiva una citazione di Wittgenstein, e quindi dell’importanza del contesto sul significato di un determinato termine, non è che facessi confusione tra essere ed esistere.
    Sono restio a parlare di Severino di cui non condivido nulla, e se entrassi nel merito delle sue elucubrazioni, avrei già dato troppo per i miei gusti.
    Faccio quindi solo una brevissima notazione sul termine “essere”.
    Io posso dire “sono un uomo” o anche “sono contento”, ma posso anche dire “io sono”, che ha un significato ben differente da “sono io” (in inglese in cui il soggetto deve necessariamente stare all’inizio, si dice “it’s me”). Evidentemente, quel “sono” assume significati differenti nelle frasi citate, Eppure, io posso dire “io sono” solo perchè nel linguaggio comune noi diciamo continuamente “sono contento” o “sono triste”. Ecco, io considero la pomposità dell’espressione “io sono” una specie di abuso del linguaggio.

  20. @vincenzo
    Non si può liquidare il problema sollevato con una semplice analisi linguistica, per scrivere “sono contento” si deve porre in essere la stessa prposizione “sono contento”, prima del contenuto dell’affermazione vi “è” la stessa affermazione, per cui il significato stesso di” essere” precede come struttura ogni discorso sull’essere.Da questo punto inizia il discorso di Severino su essere e nulla per arrivare a negare l’evidenza fenomenologica del divenire. Si è eterni secondo un’incontrovertibile necessità destinale, non vi è alcuna scissione.La domanda a cui non riesce a rispondere Severino mi sembra invece questa :” Che cosa me ne faccio di questa eternità?”

  21. @Vincenzo
    Non ho mai pensato che tu facessi confusione. Il mio era un ragionamento autoreferenziale, per fare chiarezza.
    Wittgenstein (prima maniera) sostiene che “tutto” deve trovare una sua collocazione all’interno del linguaggio. Un linguaggio che deve essere essenziale, qualificato da una logica stringente e incontrovertibile.”Ciò che sta oltre”, posto dissennatamente che si voglia predicarlo, non ha alcun senso. Appartiene alla dimensione dell’indicibile. Su di esso occorre tacere.
    Ipotesi rispettabilissima, che può essere in buona parte condivisa, se pensiamo al livello qualitativo della comunicazione odierna (abuso del linguaggio).
    Il metafisico, al contrario, si interroga, pre-posizionandosi a livello dell’essere in sè (olre il vocabolario), come rileva superdiciotto, sulla struttura originaria (ontologica) che consente al linguaggio di manifestarsi.
    Questa tesi farebbe innervosire qualunque neuroscienziato.
    A presto.

  22. @ Luca Ormelli e Mario Domina.
    Se si segue la moda di Severino che ha fatto di ogni ente un essere e di ogni uomo un “Superdio”, non si esce dagli amletismi, dove sono intricati, ci sembra, anche Luca e Mario.
    Per arrivare all’uscita è necessario percorrere, ora che è stata ultimata, segnalata e illuminata, la “Via dell’eterno ritorno dell’uguale” fino in fondo, vale a dire fino alla fine che coincide con l’inizio. Da lì si può lasciare il cerchio delle apparenze: c’è la Porta, la stessa che vide Parmenide e in un certo modo anche Nietzsche; e si prende la via per il Centro. “La strada Maestra” l’ha chiamata il sapiente di Elea.
    Queste cose che diciamo non ce le siamo inventate né le abbiamo dedotte con il ragionamento: le abbiamo viste.

  23. @wilmo e franco boraso: non mi pare che la faccenda sia così facilmente liquidabile – prescindendo anche dalla “moda” severiniana.
    Oltretutto diffido per natura di ogni via maestra. Di solito preferisco percorrere strade laterali e secondarie.

  24. @md

    La Via Maestra porta ad Atene e Roma. Quelle laterali e secondarie ai paesi, fino ai più sperduti. Che sono sorprendenti anch’essi tuttavia; ma lì la strada finisce e bisogna ritornare. Ma non è “L’eterno ritorno dell’uguale”. E’ piuttosto quello dell’ermeneutica.
    Nel nostro caso, invece, la filosofia ha bussato alla porta della vita, l’ha aperta indovinando l’enigma, e intende continuarla oltre.
    Cordiali saluti

  25. @superdiciotto @md

    come dici anche tu md, il che cosa ce ne facciamo dell’ontologia, è esattamente la postura ideale del filosofo che segue la negazione del divenire.
    ricade nella religione, nel nirvana.
    non esiste dio nel buddhismo ma appunto solo un dovere: allontanarsi dall’illusione dei sensi.
    la posizione è chiara: una regressione al nocciolo dell’esistere.
    un deponimento della dualità.

    lo intendo solo come direzione però, cosa significhi, nel senso di “SENSO del VIVERE” non lo capisco ancora.

    indubbiamente questo “capire” il senso del “(s)doppio hegeliano” che diventa schizofrenia, cerca NATURLAMENTE di andare controcorrente.(in fin dei conti è una cura)
    la corrente è quello della fuga semiotica piercina, che porterebbe alla morte del SENSO (alla morte della filosofia), che SFOCIEREBBE nella ragion pratica, il caro buon senso qui da molti (ovviamente antifilosofi) ricercato (e dal buon Carmelo Bene fuggito). Nella scienza cioè, nelle gabbie epistemologiche dei laboratori. (utili sia chiaro ma NON FONDANTI)

    ora cosa sia questa porta principale, associata all’eterno ritono (dell’uguale) nicciano, toccherebbe a wilmo e franco boraso spiegarcelo meglio.
    (ed è l’enensima domanda che segue a quelle di MD e superdiciotto,)

    voglio dire si capisce la astrazione parmenidea (almeno per me), ma non l’oggetto stesso di questo astrarre.

    avere un etica di distacco (ammesso che severino veramente argomenti in questo modo 😉 ) deve tendere verso un oggetto che non può essere solo astrazione (e nel buddismo o zen giapponese solo negazione).

    help!

  26. Pingback: blogdibao
  27. @ baodichan
    La porta non è una cosa astratta, ma sta all’inizio di ogni manifestazione, di ogni ingresso nel mondo delle apparenze. Si arriva a questo mondo passando da una porta – tutti i viventi, vegetali e animali.
    Così la filosofia è iniziata dopo il passaggio della “Porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno”, quella che vide e valicò Parmenide, che entrò così nell’Essere.
    Altrettanto è accaduto a Nietzsche, ma la sua “porta carraia” era ed è rimasta chiusa. Ma è stata aperta dopo di lui e siamo passati.
    Abbiamo raccontato la porta in vari post del blog: La via d’uscita dal nichilismo. Ne citiamo alcuni:
    – “Compendio. Il cammino misterioso che attraversa il sonno, l’inconscio, la morte”, parte terza, capitolo 3.
    Per la scoperta del segreto della porta, vedi nello stesso la parte quarta, capitolo 3.
    – “Friedrich Nietzsche e l’uscita dal cerchio dell’eterno ritrono”.
    – “Lettera aperta: le cinque vie di Parmenide”.
    – “dalla sapienza alla sapeinza seguendo la via filosofica”.
    Se non bastasse, siamo sempre a disposizione per completare e chiarire.

  28. @baodichan
    Anche in altre sedi ho cercato di evidenziare un fatto che forse passa inosservato per quanto rifuarda il pensiero di Severino.In sintesi Severino propone una Visione del Mondo, oltretutto stento a pensare al suo pensiero come un pensiero innovatore che possa portare qualche contributo a nuove possibili modelli di interpretazioni del reale che siano USABILI.La mia critica non è diretta ad ogni ontologia, ad ogni filosofare intorno all’essere, è diretta nello specifico al pensiero di Severino.Se Heidegger ci ha aperto gli occhi sull’Esserci tramite il disvelare come l’essere si dischiude all’esserci originariamente, Severino ci dice ” ogni ente è eterno “, mi verrebbe da rispondere alla Troisi “aspetta che mo’ mo scrivo “.Data questa visione Severino continua con il negare il Diventare altro da sè dal punto di vista fenomenologico, embè, vuol forse dire che non invecchierò ? Vuol forse dire che ho superato il dolore per la morte di un mio caro ? Ci sarebbe anche da dire su l’impostazione logica generale del pensiero di Severino, ma ciò richiede una sede a parte.Penso che spogliata dei paramenti lingustici, la filosofia di Severino è l’espressione della decadenza di una certa cultura filosofica in Italia.

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