“Noi cerchiamo sempre “risposte” e “soluzioni”,
abbiamo mente, occhi e orecchie solo per l’utile ed il pragmatico.
Sembra che il mondo inizi e finisca a pochi metri dal nostro naso.
E’ per questo che la filosofia, l’esercizio della ragione,
desta sospetti soprattutto oggi: sembra un futile
esercizio mentale, inutile quanto astratto...”
(Roberto Fiaschi, in un commento su questo blog)
***
[Sommario: Prolegomeni – Filosofia (troppo) astratta – La domanda metafisica – Ontologia sospetta – Dialogo tra sordi – L’astratto e il concreto – Aphàiresis – Esempi e paradossi – Excursus hegeliano – Filosofia (troppo) concreta – Immaginazione filosofica: l’inizio di una riflessione – Le dorate ali del mito]
(Se volessi scrivere una Introduzione alla filosofia, comincerei con i seguenti capitoli:
1. Straniamento – (ne avevo parlato qui);
2. Astrazione, ovvero dell’immaginazione filosofica…
È possibile che il terzo capitolo venga dedicato al rapporto tra i due concetti, ma per ora – dato che non sto scrivendo un libro, ma un post – mi voglio dedicare alla sola nostra facoltà di astrarre).
Mi trovo totalmente in sintonia con la posizione esposta nel commento in esergo, posizione che ho sempre sostenuto e perorato su questo blog, soprattutto nei confronti di coloro che criticano la filosofia perché astratta o, peggio, astrusa, inconcludente, staccata dal reale, inutile, ecc. Così come ho sempre ritenuto che parlare di “essere” e “nulla”, di divenire, di enti, essenti, realtà, necessità, verità, eternità e quant’altro, non sia affatto un esercizio capzioso ed autoreferenziale, ma anzi il cuore stesso del discorso filosofico. Più che una riduzione della filosofia ad ontologia, parlerei di una curvatura ontologica inevitabile del discorso filosofico, che non può prescindere da quei concetti e da quelle domande.
Proprio perché noi siamo anche animali ontologici e metafisici, che ci chiediamo perché siamo qui, e che cos’è questo “qui” nel quale ci troviamo ad essere: senza queste domande semplicemente non c’è filosofia. Anche se magari non bastano – sono cioè necessarie, ma non sufficienti (del resto un individuo può farsi quelle domande, senza necessariamente essere un filosofo, così come quello stesso individuo vive benissimo anche senza porsele – ma dubito che almeno una volta nella vita non gli sia capitato di pensarci, scrutando magari una notte stellata, mentre in preda ad uno strano tremore veniva assalito da un lancinante sentimento di solitudine – e dunque filosofando senza saperlo).
Pur tuttavia la recente storia della filosofia è anche se non soprattutto la storia della messa in discussione del primato ontologico, in particolare a partire dai vari “maestri del sospetto” succedutisi nel XIX secolo, tra cui annovererei non solo Marx, Nietzsche e Freud, ma anche Darwin e la radicale crisi antropocentrica che ne è seguita. Solo che i critici dell’ontologia – così come lo scettico che storceva il naso di fronte all’aristotelico principio di non contraddizione – non possono così facilmente uscirsene da quello stesso territorio che intenderebbero liquidare. Semplicemente si tratta di decidere: o si entra, e si fa filosofia, buttando anche tutto all’aria – che è comunque fare filosofia – o si va alla ricerca di altri territori. Gli ontologi più integralisti risponderebbero che non c’è un altro territorio: l’uscita dalla finestra non sarebbe all’aria aperta, quanto piuttosto in una stanza cieca. I detrattori ribattono a loro volta che è semmai essa ontologia a trovarsi in un ambiente asfittico, anzi ad essere quella stessa asfissia che toglie ossigeno al cervello e ai ragionamenti: domande impossibili, tautologie, risposte già contenute nelle premesse – e la discussione, tra sordi, potrebbe continuare all’infinito.
Senonché, sempre più spesso, quegli stessi detrattori procedono precipitosamente nel liquidare non solo l’ontologia, ma il discorso filosofico in genere, poiché – a sentir loro – sarebbe affetto da inguaribile idealismo ed inconcludente astrattezza.
Fatte queste premesse, vorrei tornare su alcuni concetti basilari che tale discorso implica, provando a chiarirne il significato e l’uso in ambito filosofico, tenendo sempre presente che ogni termine di uso comune può apparire ben più stratificato, se non addirittura rovesciato, all’interno del linguaggio filosofico – di quel linguaggio, cioè, che chiede conto di se stesso, torcendo il domandare fino alle estreme possibilità.
È esattamente quello che succede con la coppia di concetti astratto/concreto.
Capita spesso, come dicevo poco fa, di sentir parlare della filosofia in termini di cosa troppo “astratta”, come se si trattasse di un suo difetto congenito ed ineliminabile. Ora, non che i filosofi e la filosofia non possano aver difetti (trattandosi di cose umane, fin troppo umane), ma trovo molto più pertinente individuarli su tutt’altro fronte: il linguaggio criptico o gergale, l’accademismo, la separazione dalla società, il settarismo, l’eccessivo specialismo. Tutto quel che si vuole, ma tra i peccati originali della filosofia non metterei certo l’astrazione. Per almeno due motivi. Prima di tutto perché tale critica non coglie per nulla il suo obiettivo, dato che “astratte” non sono solo le cose filosofiche ma parecchie cose umane in genere. A partire dal linguaggio e dal banale uso che se ne fa quotidianamente (che banale non è mai).
Faccio il primo esempio che mi viene in mente: le espressioni “no”, “che cosa hai fatto”, “lo faccio per il tuo bene”, o altre simili che vengono usate di continuo da tutti noi (e dunque nella prassi, non certo durante l’attività teorica o riflessiva) – ebbene, sono quanto di più “astratto” si possa immaginare. Addirittura, qui, l’astrazione è duplice: già l’intera attività linguistica si pone su un livello di distanza crescente rispetto all’oggettività; ma nel caso specifico degli esempi fatti sopra, quelle parole e quei concetti risultano, se possibile, ancor più astratti: la negazione, l’interrogazione, una cosa o un fatto, il concetto di bene – che cosa c’è di più lontano dalla concretezza sensibile?
(Vorrei qui, en passant, ricordare che il termine latino abstractio è costruito sul greco aphàiresis [verbo aphairéo], che significa “portar via, togliere, sottrarre, spogliare, allontanare” – l’aphàiresis è anche la potatura; parole che indicano con evidenza l’atto del generalizzare, ma, anche, dell’impoverire o dello sfrondare, come quando si dice di un discorso o di uno scritto che andrebbero “asciugati” – elementi semantici che ci serviranno tra pochissimo).
Ma siccome stiamo filosofando – e dunque riflettendo sull’uso del linguaggio o sul significato dei concetti – proprio la lontananza dal cosiddetto piano oggettivo (la “realtà”) ci conduce a risultati piuttosto imbarazzanti, quando non paradossali. È un giochetto tipico della filosofia – che tanto fa arrabbiare i suoi critici – quello di ammettere una cosa, per poi rovesciarla nel suo opposto (Socrate-Platone utilizzarono quest’arte eminentemente dialettica in modo sopraffino, e del resto avevano maestri e precedenti del calibro di Zenone!).
È ora su un altro livello (o significato) dell’astrazione che vorrei però far convergere l’attenzione, per mostrare come la filosofia ne sia in verità agli antipodi. Mi spiego: poiché la filosofia (come tutta l’attività teoretica) utilizza segni, parole, concetti e proposizioni, non può che porsi sul piano dell’astrazione. Ciò è pacifico, e non c’è nemmeno bisogno di ricordarlo. Ma, paradossalmente, è solo la filosofia (la buona filosofia) ad essere in grado di superare tale astrattezza in tutt’altra direzione: quello della concretezza, da intendersi in termini di correlazione.
Se ciò fosse vero, se ne dovrebbe concludere che la filosofia è quanto di più concreto si dà nell’attività umana, rovesciando così la posizione precedente. Dobbiamo allora accordarci su che cosa si deve intendere per “concreto” (pur mettendo tra parentesi che anche la “concretezza” soggiace, come tutte le parole e i concetti, a un certo grado di astrazione, se è vero che difficilmente qualcuno può affermare di avere toccato o visto la concretezza). Mi servirò all’uopo di quell’altro gran dialetticone che è Hegel.
In moltissimi luoghi della sua opera, il filosofo tedesco mette in relazione astratto e concreto, tendendo a rovesciarne il tradizionale significato: il concetto, ad esempio, è per lui quanto di più concreto lo spirito umano sia in grado di produrre, essendo semmai quel che noi tradizionalmente consideriamo concreto (il dato percettivo, la singolarità, ecc.) ad essere astratto – cioè privo di relazione, e dunque di significazione.
“Niente è più comune – scrive Hegel nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche – del sentir dire che il concetto è qualcosa di astratto. Il che è certamente vero; sia perché suo elemento è il pensiero in universale, e non già il concreto sensibile; sia perché il concetto non è ancora l’idea. […] L’assolutamente concretissimo è lo spirito […] Ogni altro concreto, per quanto ricco sia, non è così intimamente identico con sé, e perciò non è in se stesso così concreto; meno di tutti, ciò che comunemente s’intende per concreto, che è una molteplicità tenuta insieme con mezzi estrinseci“. [Enc. parte I, sez.III, § 164).
Tanto la “concretezza” [concretum viene da concrescere, cioè “condensarsi, indurire, coagularsi”, che richiama non solo la tangibilità ma anche la separatezza], quanto l'”astrattezza”, così come tradizionalmente intese sono insoddisfacenti dal punto di vista filosofico. Parole vuote per il raffinato palato filosofico. Le due operazioni conoscitive devono essere simultanee e procedere oltre se stesse: astrarre è puntare in alto, ma per attingere ad una concretezza che non è più la singolarità astratta (cioè qualcosa di separato ed impoverito, atomizzato) – che è come dire che tanto il concreto quanto l’astratto, più che scambiarsi di posto vanno a fondo.
Per farla breve, e concludere in maniera sintetica: la separazione (quel che mi piace chiamare irrelatezza) è quanto di più antifilosofico ci sia, mentre lo stabilire relazioni è la quintessenza dell’attività filosofica. La prima è astratta (e lo è proprio dal punto di vista della concretezza filosofica), mentre la seconda è concreta (e lo è assumendo il punto di vista dell’astrazione filosofica correttamente intesa – quella della concettualizzazione non formale). Non si procede, cioè, dalla concretezza all’astrazione, né viceversa, ma secondo un movimento che è piuttosto circolare: ed è il risultato cognitivo – o meglio, il processo conoscitivo incompiuto e in perenne divenire, il vero che è divenire di se stesso – ad essere concreto in questa nuova accezione: ricco cioè di correlazioni, di significati, di vita, di sangue, di storicità, tutte figure colte proprio grazie all’attività astraente – e che nel discorso filosofico danno luogo ad una vivente unità di forma e contenuto. (A tal proposito, lascio qui perdere la distinzione hegeliana tra intelletto [Verstand] e ragione [Vernunft], e il significato iperconcreto dell’idea nel sistema – giusto per non cadere in quello specialismo denunciato sopra).
Ora, non è detto che Hegel abbia ragione, ma certo è ragionevole supporre che una conoscenza più ampia e sistematica (che non vuol dire esaustiva o definitiva) sia lo scopo principale dell’attività filosofica. Che poi questa facoltà di astrarre dalle cose per guardarle dall’alto (o da più punti di vista) finisca per ritornare alle cose per ricomprenderle in una rete significativa e densa di simboli – e dunque si rovesci in una concretezza ben più soddisfacente del significato che comunemente si dà a questa parola – non può apparire così sorprendente agli occhi di un filosofo (ma a ben vedere, nemmeno a quelli di uno scienziato).
Resterebbe ora il problema di come convincere il nostro individuo qualunque (pur ben disposto a farsi domande, dopo aver contemplato il cielo stellato di cui sopra) ad invischiarsi in siffatti perigliosi discorsi. Che gliene cale di astratto, concreto, essere o divenire? E siamo tornati così al principio, al punto d’origine da cui mai ci si può allontanare (ed astrarre).
***
Due parole, infine, sullo strano titolo (e sull’immagine che lo accompagna) scelti per questo post: tutto il discorso filosofico, ogni domanda metafisica che risuona nella nostra mente, ha bisogno non solo della capacità di astrarre, ma anche se non soprattutto di quella di immaginare. Ne sono sempre più convinto. Levarsi in volo per ricomprendere l’intero (la concretezza correlata), richiede la facoltà immaginativa.
L’immaginazione non è una facoltà spuria, che sta a metà tra la percezione (le immagini che i dati sensibili stampano sulle nostre reti neurali) e la ragione (il discorso astratto che utilizza solo concetti, cioè segni del tutto incolori e insapori, liberi da ogni contaminazione percettiva o immaginifica). Ho il forte sospetto che le cose non siano così semplici (scisse e dicotomiche o gerarchicamente ordinate) – o che magari non stiano affatto così. Proprio la capacità estrema di astrazione – quell’elevarci ai confini più remoti della pensabilità, che caratterizza ad esempio il discorso ontologico e i concetti di essere, nulla, totalità – richiede una potentissima capacità di immaginazione, oltre che di astrazione.
Già Spinoza, in alcune parti dell’Etica, ci avverte sui rischi che derivano dal non porre sotto controllo l’immaginazione (ad esempio per quanto concerne le categorie antropocentricche: il finalismo, in primis: il pensare cioè che l’universo sia stato apparecchiato per noi). Anche se gli si potrebbe obiettare che forse l’immaginazione non può essere posta sotto controllo, proprio perché parte non secondaria dell’attività razionale. Anche Kant fu costretto a fare i conti con l’immaginazione dialettica – lo sbandare, cioè, della ragione verso i cieli metafisici che richiederebbero ben altre facoltà (persino l’ontologicissimo Dante deve cedere una volta raggiunta la sommità dei cieli: “All’alta fantasia qui mancò possa” – è uno dei versi conclusivi, e tra i più belli, del Paradiso).
Ma si prenda questo discorso con le pinze, e come accenno sorgivo di una riflessione che andrebbe affrontata in maniera un po’ più seria e sistematica. Lascio per ora sul campo solo il sospetto che senza la facoltà dell’immaginazione noi non saremmo in grado di produrre idee, concetti, teorie. Che è come dire che il mito non è mai stato cacciato del tutto dal territorio della filosofia. E magari anche da quello della scienza. E che forse ci innalziamo ai cieli della logica pura, volando su inconfessabili ali dorate.
@Md
Il tuo motto sembra essere:” chi più ne ha, più ne metta!”
Dovrei prendermi un anno sabbatico per risponderti. Dunque debbo predispormi e occorrerà tempo. Inizierò dicendo solo che
“coloro che criticano la filosofia perché astratta”, pensano, in buona sostanza, che il pensiero umano (quindi, anche quello filosofico) abbia dei limiti invalicabili. Se si osa andare “olltre”, si entra nel campo delle allucinazioni (false percezioni in assenza di uno stimolo esterno reale).
A presto.
@Carlo
temo di non poter condividere. Certo che il pensiero ha dei limiti, senonché il concetto stesso di “limite” è problematico, dato che averlo solo pensato implica il chiedersi: che cosa c’è oltre quel limite?
Ma soprattutto non condivido la tua conclusione: se così fosse – estremizzando forse la tua posizione – sarebbero “allucinazioni” tutte le teorie, non solo filosofiche ma anche scientifiche, etiche, estetiche, ecc. Poiché non mi pare che un atomo, il principio di indeterminazione, ma anche i concetti di spazio o di tempo,così come quelli di utilità o di contingenza nascano da “stimoli esterni reali”. Che non vuol dire che la loro origine sia in cielo o extrasensoriale, beninteso. Ma, appunto, occorrono processi cognitivi (fatti di astrazione e di immaginazione) che richiedono sempre due fronti – quello mentale e quello oggettivo. Personalmente sono propenso a metterli sullo stesso piano, e non a preferire l’uno piuttosto che l’altro. Né l’idealismo né l’empirismo mi hanno mai convinto, anche perché si tratta di schemi e di semplificazioni.
Bell’articolo!
Io mi soffwermerò sulla prima parte che è quella che più mi coinvolge, visto che ho unì’opinione differente, sull’astrattezza della filosofia la penso come te, e sarebbe inutile tornarci.
Il problema nel parlare dell’immaginazione è che non ne conosciamo i meccanismi. Possiamo comunque credo tutti convenire che le nostre facoltà immaginative sono abbastanza modeste, una semplice ricombinazione delle nostre esperienze secondo modalità certo incognite.
Allora, torno a bomba sulla questione ontologica su cui, come sappiamo ormai bene, non conveniamo.
Ammetto tuttavia molto volentieri che condivido il tuo tipo di esposizione delle posizioni in campo.
Proprio inserendomi nel tuo schema, dirò chye sono un anti-ontologico ma mai e poi mai potrei essere un antifilosofico.
Il mio modo di argomentsare è il seguente.
Qualunque pensiero è espresso nel linguaggio, e il linguaggio, coime qualsiasi costruzione umana, è pieno di difetti e di limiti, è ambiguo e flessibile,ma proprio per questi presunti difetti, è prezioso per svolgere il proprio ruolo, in primis comunicativo (è stato creato apposta), anche se ovviamente il fatto che si possa pensare senza parlare escludono automaticameente che la funzione del linguaggio possa essere confinata a una finalità comunicativa.
Il punto per quanto attiene l’ontologia non è se la mente umana non abbia bisogno di occuparsi di siffatte questioni, ma se su siffatte questioni il linguaggio, come strumento logico sia adeguato.
Io, insomma, che sono agnostico, non trovo nulla di scandaloso nel fatto che ci siano persone che credono in un Dio o cose del genere, dubito che questioni di tale fatta possano essere oggetto di riflessione filosofica, cioè se possa esistere una forma di speculazione assimilabile alla riflessione filosofica quando essa attiene alle questioni dell’essere. La mia personale opinione è che qualsiasi affermazione ontologica è inevitabilmente articolo di fede, del tutto lecita ma non è argomentabile nei rigorosi termini che la filosofia imporrebbe.
Io stesso, pure agnostico in tanti aspetti, ammetto senza tentennamenti che le mie credenze derivano da una serie di assunzioni che utilizzo come postulati, e che però ho l’onestà di esibire senza veli invece di pretendere di farne il risultato di una presunta conclusione sulla base di un ragionamento che si pretende logico, e pertanto indiscutibile.
Così, potrei perfino convenire con te sulla curvatura ontologica, dell’uomo però, non della filosofia.
@Md
Rispondo.
“che cosa c’è oltre quel limite?”
Non intendevo un limite spaziale, ma la facoltà che ci rende adeguati/inadeguati ad un compito. Se voglio cogliere un frutto che si trova ad un’altezza di due metri, la mia statura deve essere proporzionata. L’assunto può essere verificato empiricamente.
“sarebbero “allucinazioni” tutte le teorie, non solo filosofiche ma anche scientifiche, etiche, estetiche, ecc”
Le teorie possono essere sottoposte, come ho esemplificato sopra, a verifica sperimentale. Se non è possibile avere riscontri sui loro enunciati possono essere tranquillamente falsificate.
“non mi pare che un atomo, il principio di indeterminazione, ma anche i concetti di spazio o di tempo, così come quelli di utilità o di contingenza nascano da “stimoli esterni reali”.
A me pare, al contrario, che nascano da “esperimenti esterni (all’osservatore) reali”. Max Planck verificò sperimentalmente la quantizzazione dell’ energia, il principio di indeterminazione di Heisenberg fu puntualmente corroborato da esperimenti in laboratorio, ecc. ecc.
Il riferimento al “dato sperimentale” è una costante in ambito scientifico. Con il metodo induttivo parti dal “dato” per approdare alla teoria, con il metodo deduttivo pervieni dall’ipotesi teorica al “dato”. Non si scappa.
“i processi cognitivi (fatti di astrazione e di immaginazione) richiedono sempre due fronti – quello mentale e quello oggettivo.”
Qui entra in gioco il concetto di “relazione” che tu hai portato alla nostra attenzione. Il soggetto conoscente, quando si relaziona con un oggetto, è l’unico fronte attivo. E’ il soggetto che da le carte, per cui non può che colorare di sé l’oggetto. Lo “immagina” come meglio crede, togliendogli ogni presunta oggettività. Ovviamente questo vale soprattutto quando l’oggetto è il risultato di un’astrazione. Se distogli lo sguardo dall’ente che si mostra (il dato) e ti rivolgi al “mostrarsi dell’ente” (cioè all’essere), come fa l’ontologia, non hai fondamenti. Può succedere di tutto.
E’ una terra di nessuno, una via che, direbbe Parmenide, non è concesso a nessuno percorrere.
A presto.
@Vincenzo: dire che “l’essere è, ed è eterno” può anche essere tautologico, ma non mi pare un articolo di fede. Né Aristotele né Spinoza, e nemmeno il nostro bersagliatissimo Severino, hanno utilizzato, mi pare, linguaggi extralogici per costruire (o immaginare) i loro sistemi ontologici.
@Carlo: non sono poi certo che le cose funzionino così linearmente nei processi induttivi o deduttivi e non mi pare che un “dato” si offra così nudo e crudo all’osservazione scientifica – ma lascio queste faccende ai filosofi della scienza, che, proprio perché non sanno fare scienza la criticano.
Quel che intendevo è che nei processi cognitivi va forse ormai abbandonato ogni vecchio schematismo, sia esso quello che giustappone soggetto e oggetto, od anche empirismo/idealismo, linguaggio o realtà e simili.
E dunque non mi trova nemmeno d’accordo la tua affermazione secondo cui il soggetto “colora di sé l’oggetto” – anche perché altrimenti non capisco nemmeno bene che fine facciano i “dati” cui sembri dare grande credito.
Per quanto concerne l’ontologia non sto a ripetere quel che ho già osservato a più riprese. Potrei solo aggiungere che, in ogni caso, quel “dato” (e la mente che lo coglie) sono radicati in un qualche fondamento, chiamiamolo “essere”, “sostanza”, “materia” o come ci pare. Potremmo anche rispondere che un fondamento non c’è (o che è impensabile o assurdo o inconoscibile o frutto di immaginazione) – ma sia nell’uno che nell’altro caso è sul terreno dell’ontologia che ci si pone, volenti o nolenti.
(secondo me) poiché anche il “dato” non può essere “preso” in modo totale e assolutamente compiuto, poiché c’è sempre la faglia nel mezzo, tra la cosa e la percezione e la rappresentazione, tra l’oggetto significante e il significato, il linguaggio tenta di colmare la distanza; come l’immaginazione, e l’intuizione, di riempire le mancanze. E il modo di colmare le distanze, differirà da soggetto a soggetto, così come di una stessa cosa ognuno di noi restituirà una descrizione più o meno diversa. Questo soprattutto quando il linguaggio si riferisce a concetti astratti, ampiamente stratificati nel tempo, che di volta in volta avremmo bisogno di ripulire e sfrondare del superfluo, e di aggiornare alla realtà attuale, e in divenire.
Per quanto riguarda Parmenide, personalmente mi fa strano che su due paginette di frammenti che sono giunte fino a noi, si stia ancora a discutere tanto. Diversamente, se “l’ontologia è la disciplina che si occupa di che cosa c’è nella realtà, di quali cose e categorie dobbiamo ammettere per dar conto del mondo che ci circonda”, di questo si può continuare a discutere.
Anzi, in questo caso potrebbe forse essere considerata come una specie di igiene mentale, sempre che non produca più confusioni di quelle che tenta di sbrogliare, perchè allora è meglio fermarsi e guardarsi un po’ in giro. Anche perché, di contro, c’è che l’ebbrezza dell’alto dei cieli sulle ali dorate può far perdere il contatto con la realtà che cercheremmo di indagare.
Ho trovato due interessanti video qui: http://blogdibao.wordpress.com/ che mettono a confronto due diversi modi di affrontare il problema. (ringrazio Bao per i video)
Ancora sull’immaginazione: anche lo scienziato, di fronte a un problema, prima di trovare una possibile soluzione deve avere l’intuizione idonea che lo indirizzi verso la soluzione del problema. Senza l’immaginazione anche uno scienziato non farebbe molti passi avanti. Ricordo ne parlava Popper, di questo. Però anche l’immaginazione può immaginare male. Mi sembra che Spinoza però si riferisse all’immaginazione negativa che può produrre fantasmi ed emozioni del tutto irreali e irrazionali.
@Md
“non mi pare che un “dato” si offra così nudo e crudo all’osservazione scientifica”.
Se fosse come tu dici la scienza avrebbe smesso da tempo di predisporre esperimenti. Viviamo in un mondo tecnologico che deriva totalmente da esperimenti “riusciti”, con l’utilizzo di dati “crudi”. La quantistica, così bizzarra, ha oggi un’infinità di applicazioni pratiche.
“E dunque non mi trova nemmeno d’accordo la tua affermazione secondo cui il soggetto “colora di sé l’oggetto” – anche perché altrimenti non capisco nemmeno bene che fine facciano i “dati” cui sembri dare grande credito.”
Avevo detto che l’assunto valeva ” soprattutto” quando l’oggetto non è un “dato”, ma è il risultato di un’astrazione: “l’isola che non c’è”.
“..sia nell’uno che nell’altro caso è sul terreno dell’ontologia che ci si pone, volenti o nolenti.”
Io, dopo aver analizzato il “fenomeno ontologico” con la dovuta attenzione, mai e poi mai mi porrei sul terreno dell’ontologia, se non fosse per quei tanti o pochi che mi pro-vocano (mi chiamano al loro cospetto sul tema).
“va forse ormai abbandonato ogni vecchio schematismo, sia esso quello che giustappone soggetto e oggetto, od anche empirismo/idealismo.. ”
Ecco, appunto. Occorre superare ogni dualismo. Seguendo i criteri della dialettica potremmo dire che lo schematismo “soggetto (io) – oggetto (mondo)”, deve trovare una sintesi a livello inferiore, eliminando alla radice la dicotomia e affermando che solo l’oggetto (la sostanza) è reale. E che, quindi, il soggetto è un semplice attributo dell’oggetto.
@rozmilla
“Per quanto riguarda Parmenide, personalmente mi fa strano che su due paginette di frammenti che sono giunte fino a noi, si stia ancora a discutere tanto.”
E’ per questo che io parlo di “allucinazioni” ontologiche!
“Senza l’immaginazione anche uno scienziato non farebbe molti passi avanti”.
In realtà la sua mente “immagina” quando utilizza i “dati” del mondo reale, assemblandoli creativamente. Senza memoria delle nostre esperienze visive, l’immaginazione sarebbe vuota.
Alzo la posta: importa ed imperversa così tanto l’ontologia (che non è certo riducibile a Severino o Heidegger, anche se si tratta di pensatori ingombranti, ma grazieaddio il mondo del pensiero è ben vasto, anche se non sterminato) – stavo dicendo che è così forte il richiamo all’ontologia, che trovo in circolazione sempre più fisici e biologi che sembrano non sapervi resistere. La rinfondazione della fisica in veste cosmologica proposta da Novello in “Qualcosa anziché il nulla” ne è un chiaro esempio; ma anche il fortissimo interesse di un neuroscienziato come Damasio per Spinoza (tutto Spinoza, anche quello ontologico, non solo quello dell’analitica delle passioni); o, più recentemente, di Pievani per categorie come quelle di “necessità”, “caso” e “contingenza”, non solo in termini strettamente scientifici…
Se poi si vanno a leggere le discussioni tra Einstein e Born sulla teoria quantistica si resta affascinati anche dalle ricadute ontologiche (come altro definire quel richiamo fortissimo di Einstein ad una sorta di “speculazione totale”, o lo scetticismo del suo interlocutore a proposito della “realtà” quantistica?).
Magari queste sono “eccezioni” nel mondo scientifico, e alla maggior parte degli scienziati interessa poco discutere di filosofia. Però trovo che siano eccezioni lodevolissime e non di poco conto. Naturalmente richiedo altrettanta apertura mentale ai filosofi (ontologi o meno che siano).
Cioè: mi interessa poco un’ontologia asfittica e chiusa nelle sue disquisizioni tautologiche ed autoreferenziali (ha ragione Milena, a proposito dei pericoli di un’altezza ebbra); ma questo vale anche per la scienza e per ogni sapere.
La mia massima, a tal proposito, è riflettere e discutere su tutto, di tutto e con tutti.
@Carlo: sottoscrivo quel che tu dici a proposito del superamento del dualismo. Tu scrivi:
“Occorre superare ogni dualismo. Seguendo i criteri della dialettica potremmo dire che lo schematismo “soggetto (io) – oggetto (mondo)”, deve trovare una sintesi a livello inferiore, eliminando alla radice la dicotomia e affermando che solo l’oggetto (la sostanza) è reale. E che, quindi, il soggetto è un semplice attributo dell’oggetto.”
– del tutto in linea con il pensiero spinozista. Le tue due ultime proposizioni, infatti, starebbero a pieno titolo nel primo libro dell’Etica. Il quale difficilmente può non essere considerato un trattato ontologico.
Se alzi la posta, non so se potrò rilanciare. J Tempo fa avevo preso in mano un libro di conversazioni fra Einstein e i suoi amici cervelloni, e devo dire che mi è stato del tutto impossibile capire di cosa stessero parlando. Questo è quanto, nel senso specifico che il mio cervello è un quanto storicamente limitato.
Poi mi dovete almeno spiegare cosa significa che “il soggetto è un semplice attributo dell’oggetto” (a me non sembra tanto semplice da capire)
“Tu ritieni che Dio giochi a dadi con il mondo; io credo invece che tutto ubbidisca a una legge, in un mondo di realtà obiettive che cerco di cogliere per via furiosamente speculativa” [Einstein a Born, 1944 – curioso che uno scienziato parli di “tutto” e “unicità” da ricavare per via “speculativa”, addirittura in modo furioso…].
Ma Einstein rincara la dose: “Lo credo fermamente, ma spero che qualcuno scopra una strada più realistica – o meglio un fondamento più tangibile – di quanto non abbia saputo fare io”. Et voilà, dopo la “fede” c’è anche il “fondamento”.
Per Bohr (da non confondere con Born) non esiste “un mondo quantistico”, ma soltanto “un’astratta descrizione quantomeccanica”.
Evidentemente anche i “cervelloni” sono dei quanti limitati…
@Md
Apprezzo che tu abbia riconosciuto che scienza e filosofia possano andare “a braccetto”. Del resto tu sai benissimo che molti filosofi iniziarono la loro carriera accademica studiando materie scientifiche.
Einstein rimase sempre fedele al “realismo” e asserì che la “quantistica” era incompleta come teoria. Se non riuscivamo a localizzare una particella nello spazio, era dovuto solo alla nostra ignoranza. Al contrario Born postulò che ciò che non veniva osservato (non esisteva) ovvero non era localizzabile in alcun posto determinato (inconoscibilità oggettiva). E non dipendeva dalla nostra ignoranza. Quindi, era assurdo chiedersi dove fosse una particella. Questa poteva essere in più punti contemporaneamente, ad ognuno dei quali veniva assegnata, con calcoli statistici, la relativa probabilità.
Insomma una “querelle” ontologica in piena regola.
A presto.
sono riuscito a leggere solo ora.
inquietante come rispondi (in maniera positiva) al mio domandarmi se hegel tenda al paradosso attuale.
se vai sulle news di filosofia.moderata troverai tal marco che vede severino come un “perfetto” continuatore di Hegel-
Come lo fu Heidegger, d’altronde.
se ciò fosse darei ragione a carlo, ma non nelle argomentazioni ovviamente.
diciamo che il tuo post è un tentativo di incuriosire il novizio alla filosofia.
questo non è possibile.
il prof cavini lo spiega bene.
la filosofia è l’amore del sapere per il fatto di volere sapere.
Una cosa da conquistare, una cosa che costa fatica.
La gente non vuol far fatica.
Hegel la fa diventare quasi matematica nella sua ferrea logica.
La matematica non piace.
Molto spesso la matematica è paradosso, vedi quantistica, ma questo porta al non-senso.
Io ricerco il senso come lo ricercava einstein.
senza paradossi (dio non gioca ai dadi)-
a me dio non interessa come a l’ebreo freud.
(vedi i video di serafino massoni)
mi interessa il senso filsofico, cioè tramite la consocenza.
mi chiedo se l’ontologia non si sempre paradosso e questo mi
inquieta.
purtroppo la fantasia al potere cioè l’arte è SOLO decorativa.
solo un sollievo. (vedi 4 discorsi sull’arte del SOMMO Carmelo Bene)
mi sembra che sia quello di cui parli: sollevarsi, prender fiato.
far di cornicetta a me pare.
mi chiedo se invece anche tu non abbia desiderio di qualcosa foss’anche più trascendentale, ma che stia attento alle credenze religiose (atti della storia che di trascendente hanno nulla!) e agli esperimenti da topo di laboratorio: utili ma senza senso.
Non lo so, Spinoza sta tornando di Moda….mi sembra così naif il suo panteismo….nn lo so!
Alla fine l’unico concreto nonostante tutti i rimproveri che becca è Cartesio-
Forse lui sulle masse avrebbe molto più presa!
@baodichan
non saprei proprio da dove cominciare (troppe sollecitazioni, alcune delle quali non mi sono chiare) – e allora non comincio nemmeno, dico solo una cosa sulla fine: non mi piacciono le mode filosofiche, e dunque guardo con sospetto al fatto che Spinoza ritorni di moda; in verità – come ogni grande pensatore – dovrebbe essere sempre com-presente e “contemporaneo”.
Quanto al suo panteismo non può essere naif perché, semplicemente, non è panteismo, e il fatto che l’Etica si apra con la parte prima dedicata a “Dio” non è un indizio a carico.
hai ragione, ho esagerato!
md ha scritto [Mi spiego: poiché la filosofia (come tutta l’attività teoretica) utilizza segni, parole, concetti e proposizioni, non può che porsi sul piano dell’astrazione. Ciò è pacifico, e non c’è nemmeno bisogno di ricordarlo. Ma, paradossalmente, è solo la filosofia (la buona filosofia) ad essere in grado di superare tale astrattezza in tutt’altra direzione: quello della concretezza, da intendersi in termini di correlazione]
d’altronde in questo sunto c’è direi il succo delle questioni!
sta poi alla brava gente “darci dentro”!;)
Stavo pensando che il tuo invito è quello di non fermarci sbigottiti davanti alle teorie ontologiche o metafisiche, che non sono poi così strane o sovrumane; anche perché non solo il linguaggio dei filosofi e nella fattispecie degli scienziati, è farcito di quegli stessi concetti ontologici e metafisici, ma anche tutti noi quando parliamo li utilizziamo abbondantemente, magari senza rendercene conto.
Piuttosto mi pare si tratti di comprendere che non tutte le teorie che affrontiamo possono essere messe sullo stesso piano (cose già delle e ridette, ma tanto vale ripeterle ancora).
Per esempio, se sul piano ontologico arriviamo a dire che “il soggetto è un semplice attributo dell’oggetto”, che è un punto di vista che guarda il mondo “da nessun dove” (come direbbe il prof. Cavini), sul piano strettamente umano non si può più dire la stessa cosa, perché sul piano umano il soggetto ha non solo il diritto ma anche il dovere di non essere un “semplice attributo dell’oggetto”, ma di essere se stesso come soggetto, con tutte le conseguenze di responsabilità che questo comporta.
Trovo importante riuscire ad assumere punti di vista diversi, e a non confonderli, per avere una visione (e una vita) poliedrica, e non univoca o stereotipata. Voglio dire che ognuno di noi può anche mettersi nei panni dell’ontologo, senza però smettere di essere all’occorrenza anche l’uomo comune che va a fare la spesa al supermercato, gode della bellezza della natura, coltiva amicizie, ascolta musica, fa ginnastica e canta a squarciagola. Eccetera eccetera e chi più ne ha più ne metta: pluralità di intenti e volizioni, per essere uomini possibilmente più integrali.
Perché il sospetto, che sempre mi rimane, è che se la conoscenza (che sia ontologia o metafisica o scienza) non è utile a farci vivere meglio, allora non è vera conoscenza. La conoscenza “dovrebbe” in un certo senso tornare indietro e migliorare la vita anche sul piano pratico. Che sennò, allora sì che è soltanto illusione …
(e lo dico anche se so bene che c’è chi sta benissimo a credere che sia proprio un’illusione)
@ rozmilla
già ma è proprio nella quotidianeità del presente che il nichilismo si annida e troneggia.
il punto di vista di cavini è in realtà quello di Parmenide o Severino.
cioè l’io come attributo, MA non dell’oggetto come tu ritieni BENSI’ del DISCORSO.
Infatti il guaio è quello che la stragrande maggioranza delle persone confonde l’astratto (l’io) come il reale e l’oggetto come estensione/utilità alla LORO verità (discorso).
in realtà vi sono 2 verità, l’oggetto che è il presupposto al nostro discorso e l’io ne è solo l’ancella.
la persona normale è come il filosofo non ti preoccupare!
solo che vaga nella notte, e perciò non sa cosa è la bellezza della natura, cosa è l’amicizia, cosa è la musica etc…
non sa niente, e si limitasse a quello….uccide la possibilità dell’ALTRO tramite la VIOLENZA del IO SONO tal o tal’altro.
Ma non c’è io caro Rozmilla, tutti noi paghiamo dazio all’incubo peggiore il NICHILISMO….siamo già morti come sosteneva BENE. Vittime inermi delle ruote del potere (non dico politico).
dunque le persone che incontro sono tutte uguali, non lo sanno…ripetono all’infinito il loro discorso e non capiscono MAI che è il discorso di Volontà più grandi di loro.
Cioè dei discorsi: capitalismo, patriarcato etc..etc…etc…..
Ma questi discorsi non sanno niente.
non sanno della verità: ciò che abita FUORI.
l’unico dentro che esiste è quello dei suoni e dei simboli.
indicamenti dell’eterno tolto.
ecco che il senso allora (e in fin dei conti l’ho sempre saputo) unico è qulla malinconia del passato.
cioè abbiamo creato il tempo per averne malinconia.
la scienza e la storia che vedono dritto davanti a se NON SANNO NIENTE.
come diceva PARMENIDE alla fine si torna nell’eterna ghirlanda dell’essere. (cioè dell’istanza grammatica del discorso).
Forse dopo queste mie parole vorrai approfondire, ma soprattutto capirai il perchè del mio vacuus sensi.
dove è la mia ANIMA?(alias discorso)
Dobbiamo tornare in NOI nel NOSTRO discorso: non quello della MASSA. per me è un MUST.
Grazie Bao. Cercherò di approfondire …
Ma intanto vorrei solo precisare che l’ultima parte del mio prec. commento si potrebbe semplificare in poche parole dicendo:
“prima vivere e poi filosofare”,
come consigliava ai ragazzi (giovani filosofi) il prof. Sini.
E anche questo potrebbe essere un MUST. Non ti pare?
Per il resto, cerco di non essere troppo severa con le persone “normali”, dal momento che, come tutti quanti, vivono una condizione umana e sociale bella zeppa di condizionamenti.
Mentre sento di dover essere decisamente più critica verso i soggetti e le entità, simboliche o meno, che hanno “troppo potere”.
Buon fine settimana.
@rozmilla:
la “curvatura ontologica”, proprio perché curva e dunque circolare, volge al “basso”, non resiste più di tanto nei cieli dell’astrazione.
Me lo mostrano con grande chiarezza quei naturali soggetti filosofici che sono i bambini: a 10 anni sono perfettamente in grado di astrarre e di reggere l’astrazione per un tempo (e su argomenti) insospettabili. Ma poi, ad un certo punto, virano, più che “in giù”, verso e dentro di loro: è molto difficile (lo è forse per come è fatta la specie) sentirsi meri “attributi di un oggetto”, modi della sostanza – anche se è l’unica “verità” che mi sento di avanzare.
L’antropocentrismo è potentissimo e, appunto, ci fa sentire meno impotenti e soli nel cosmo – anche se ciò comporta immaginare chissacché sulla nostra importanza. Certo, importanti lo siamo, ma “per noi” e con misura – e conoscere serve a vivere meglio (o dovrebbe). Ma laffuori, nei cieli dell’ontologia, spira un’aria gelida e indifferente.
essere severi innanzitutto con se stessi; implacabili con gli uomini di potere; indulgenti ed ecumenici nei confronti di tutti gli altri…
Quante “ricette”, ragazzi! Bisogna esser grandi cuochi per venirne a capo,senza far confusione con gli ingredienti, le dosi e i tempi di cottura. Specie in un mondo che privilegia il tutto e subito dei surgelati.
Non ne dubito, Md, e in ogni caso mi auguro che
“ad un certo punto, virano, più che “in giù”, verso e dentro di loro”;
Cosa non molto diversa di quando Bao dice: “tornare in noi, nel nostro discorso” – o no?
E nei giorni scorsi mi chiedevo se “l’eterno ritorno” di Nietzsche non descriva e significhi proprio questo moto circolare.
Poi, il tuo ultimo commento mi aveva fatto pensare ad una frase della Weil, su “quali” sono i diritti di un uomo …
Ma visto che ormai siamo scivolati nell’ironia, forse ci sta meglio una battuta di Woody Allen al peperoncino:
“E’ conoscibile la conoscenza? E soprattutto, come facciamo a saperlo?”.
ciao