“Anna avrebbe voluto morire
Marco voleva andarsene lontano
qualcuno li ha visti tornare tenendosi per mano”
(Lucio Dalla)
Gli adolescenti mi danno da pensare. Forse perché cerco di ricordarmi com’ero io all’epoca e provo un certo disagio nel figurarmi goffo, inadeguato, inadatto – sempre in conflitto con un mondo pronto indifferentemente ad assorbirmi o a stritolarmi. “Quante balle si ha in testa a quell’età […] a vent’anni si è stupidi davvero“, cantava Francesco Guccini – anche se i suoi 20 anni corrispondono ben poco a quelli di oggi, e tantomeno a quella fascia del tutto aliena che va dai 14 ai 18.
Mi vien però da dire che se i bambini sono naturalmente disposti alla filosofia – dato che si fanno tante domande e chiedono in maniera petulante ed asfissiante “perché?”, allora lo sono anche gli adolescenti, magari per ragioni diametralmente opposte, dato che non si chiedono un bel niente (o sono indotti a non farlo), e quando per avventura si fermano a chiedersi qualcosa, lo fanno da una posizione di radicale straniamento. Lo esemplifico con tre scene – due di vita vissuta, una di vita fittizia e rappresentata.
1. Arrivano ciondolanti e con il loro passo babbuinico a gruppi di 3, 4 talvolta anche 8 o 10. Vanno subito al distributore di snack, bibite e caffé, chiedono di cambiare la moneta, danno l’immancabile pugno per il resto o la cioccolata acquosa, e stazionano per un buon quarto d’ora sorbendosi piano le loro schifezze dolciastre. Io passo un paio di volte raccomandando di tenere bassa la voce, di non disturbare chi studia o chi legge, le solite cose. Se son pochi si piazzano da qualche parte per un altro quarto d’ora e tutto finisce lì. Qualche volta ce n’è uno più turbolento che vuol giocare a nascondino, e se gli do retta è finita. Le ragazze di solito sono più sornione, e alternano discrezione a euforia, senza soluzione di continuità. Ma se si presenta il gruppone – tutti alti come pertiche e più dinoccolati che mai – non so proprio dove farli mettere. Contrattiamo spazi e modalità, ma non ce n’è. Prima o poi stonano e son costretto ad accompagnarli fuori. Persino sottobraccio.
L’altro giorno mi sono parecchio stufato di questa situazione, e ho immaginato una possibile soluzione. “Ma come! – mi son detto – continuiamo a predicare che la biblioteca accoglie tutti, che in biblioteca ci deve essere uno spazio per chiunque entri, di qualsiasi età, fascia sociale, provenienza culturale; che è uno degli ultimi presìdi del comune e della socialità, e poi non riusciamo a trovare un posto per gli adolescenti?”
Certo, collocare chi per definizione è incollocabile – straniato – non è semplice, ma è una partita che va comunque giocata. E io voglio farlo. Ho così deciso che una stanza sarà solo per loro, e che ci potranno fare più o meno tutto quello che vorranno. Probabilmente appiccheranno fuoco e io verrò licenziato, ma un tentativo lo devo pur fare…
2. Ho appuntamento con M.B. alle 11 di domenica, per parlare di Marx. (Detto così sembra quasi la celebrazione di una messa laica).
M.B. fa l’ultimo anno di liceo artistico e ha un’insegnante di filosofia che fatica a seguire. Così ogni tanto mi chiede qualche delucidazione. Lo faccio molto volentieri – tanto più che, come in questo caso, si tratta di un pensatore che mi è particolarmente caro, e m’incuriosisce vedere l’effetto che fa in un ragazzo nato sul finire del secolo scorso.
Poi, dopo un’ora e mezza fitta, con il timore di avergli ancor più confuso le idee e prima di congedarci per il pranzo, mi parla della sua passione per il writing, e mi fa qualche confidenza. Mi dice in particolare una cosa che mi colpisce – e che si collega al filo di questo post: “non so dire di preciso perché io disegni e faccia graffiti, ma posso raccontare come questa cosa ha avuto inizio nella mia mente: succedeva che parlassi con le persone e che loro, ad un certo punto, smettessero di ascoltarmi. Magari arrivava qualcun altro, e io sparivo, mi rendevo conto di diventare invisibile. La mia reazione è stata questa: tornare visibile usando la superficie di un muro abbandonato ai margini della città”.
(Magnifico! – ho pensato, pur con il rispetto che merita un disagio – una reazione vitale che in un colpo solo fa diventare visibili persone e non-luoghi!)
E poi – non so dire se collegandolo a ciò – mi dice che lui ogni tanto si ferma e si chiede “perché”. E conclude: “vedo che molti, la maggior parte, non lo fa. Ma io lo devo fare, ne ho bisogno. Ho bisogno di staccare”.
Si tratta di evidenti esperienze stranianti.
3. Infine il film che suggerisce il titolo al post. Un giorno questo dolore ti sarà utile. Non so dire se il dolore – l’inadeguatezza, la sensazione di anormalità e di sociopatia, la solitudine – di cui soffre James, il diciassettenne protagonista del film (che è poi tratto da un libro di Peter Cameron), gli tornerà utile un giorno. O se non sarebbe meglio per lui sottoporsi al processo di normalizzazione cui viene costantemente richiamato.
Forse quel suo essere “profondo e sensibile” in una città e in un mondo che non lo sono granché, lo farà soffrire ancora di più. Ma certo non può far nulla per fermare lo straniamento da cui viene costantemente assalito. Non è lui a decidere di straniarsi, ma qualcosa che assomiglia ad una potenza (essa sì) estranea. Come un nodo alla gola che gli impedisce di respirare. La sensazione di essere fuori luogo. Il disadattamento reciproco tra lui e la società, lui e gli altri – e di fatti la domanda straniante rimbalza come in un gioco di specchi.
Non ci può far niente – perché è oltretutto l’esperienza fondamentale dell’essere vivi, del sapere di esserlo, e del non accontentarsi di esserlo e di sapere di esserlo. Un circolo vizioso che quando ti afferra non ha soluzione né vie d’uscita.
Però – grazieaddio – James non è ancora stravolto dall’angoscia come gli umani delle tele di Munch. Ha dalla sua la leggerezza dell’età, e una certa dose di ironia nel guardare agli adulti, ben più assurdi di lui. Ecco perché brinda tutte le volte che può a quella cosa strana e sfuggente che è la vita. Prosit!
***
Nota. La seconda foto ritrae in un gesto inequivocabile uno dei tanti adolescenti dinoccolati che, ormai lungo l’arco di un quindicennio, sono passati nella mia biblioteca. E che mi hanno reso la vita impossibile, e però divertente e piena di gradite sorprese.
L’ultima foto ritrae una delle opere di M.B., espressione vitalissima di gioia creativa che nasce dal disagio. Criminalizzare per questo gli adolescenti sarebbe – esso sì – un atto criminale.
“Straniamento” mi piace questo concetto deleuziano. Chissà con un poco di fantasia si può dire rivoluzionario, persino con un suo divenire. Anzi sicuramente con un suo divenire, forse la questione è più profonda, difficile da gestire -perchè Deve essere ingestibile- mi sia permesso delirare. Ho letto con piacere e con molto interesse, come sempre. Grazie.
grazie, aeroporto2: certo, affinché lo straniamento sia “utile” (termine peraltro ambiguo) è bene che muova verso qualcosa, divenga e sia… sì, rivoluzionario mi piace, anche se oggi sa, appunto, di “delirio”
mi sono permessa di prenderti Simone…è bellissima!
grazie 🙂
io ho letto solo ora, e scusami se sono sembrata sfacciata a pensare prima di tutto a ciò che volevo “prendermi”.
molto intenso e realistico ciò che esponi, il riferimento a episodi reali dela tua esperienza, dei ragazzi di oggi….
è importante la comprensione, il tentativo, almeno, di comprendere.
cara carla, hai fatto benissimo, non c’è mai sfacciataggine nel “prendersi” le perle, anche perché sono, per definizione, di tutti;
è vero, occorre almeno tentare, e seminare senza requie – generosità e dépense!
L’ho “presa” anche io. Una faccia, degli occhi, un sorriso, una espressione così non sono nemmeno definibili!!! Una creatura sublime!!! L’ho “presa”, ma chi l’avrebbe potuta prendere davvero? O non è nemmeno concepibile?
….Eroico m.d., alle prese con i nipotini (come zio, intendo, non ancora come nonno) indisponenti! Hai voglia tenere a bada le tenere squadracce adolescenziali:ci voglion nervi saldi e un gran senso dell’humor, o un paio di pittbull messi a gentile disposizione dall’amministrazione comunale. Last but not least sarebbe indossare una maschera carnevalesca con l’effige del Sig. I. La Russa, detto anche Caino Squarciaciechi per il sorriso gentile ed il suo eloquio, quello sì, a dir poco straniante. A meno che, una volta riuniti i ragazzotti nell’apposita stanza a loro destinata, non si pronunci la fatidica frase “Nessuno uscirà vivo di qui!”: non si sa mai che sortisca almeno un po’ di silenzio, ma non ne sono certo.
Molto giusta la tua decisione mettere una stanza a disposizione dei ragazzi. I ragazzi non hanno mai un posto dove stare, se non sulla strada, o negli oratori – il che è tutto dire …
Xavier la butta sul sarcasmo, perché di certo non sarà facile. Ma è importante farlo.
Mi incuriosisce molto questo progetto. Tienici al corrente dell’evoluzione. E tanti tanti auguri …
Per carità, niente sarcasmo, l’argomento é troppo serio per ridurlo a semplice questione di incompatibilità generazionale. Si trattava solo di suggerimenti in extrema ratio, fra l’altro assai poco efficaci: i terribili adolescenti sono in grado di superare ben altre prove! Ne ho qualche vago ricordo quando, giovane fragile, solo e insicuro,mi credevo d’essere uno spaccamontagne. Che tenerezza!
Xavier, non era una critica: i tuoi commenti mi piacciono e divertono sempre molto. Inoltre sono con te quando accenni ai nervi saldi e al senso dell’humor. Pensa che sto quasi decidendo di partecipare a uno stage di umor terapia, il prossimo we – che non solo con gli adolescenti, ma in tutti i casi può rivelarsi molto utile riuscire a sdrammatizzare, che è come avere l’abilità di girare le frittate senza farle cadere a sfracellarsi sul pavimento. Ma a dire il vero, gli adolescenti di cui parla md, li conosco solo per sentito dire. I miei nipoti adolescenti fin sono troppo perfettini e sottomessi, che quasi quasi preferirei vederli un po’ più ostinati e ribelli, invece che così “normalizzati” e adolescenti modello. Ma quale modello? Da brividi: non è tutto oro quello che luccica …
Tutte le generazioni hanno avuto a che fare con le altre generazioni, è sempre stato così….
Beh, caro filosofiazzero, stavolta mi hai battuto sul mio stesso terreno: più ovvio di così c’era soltanto “I negri hanno il ritmo nel sangue” e “Di mamma ce n’é una sola”, tralasciando, naturalmente, l’ancor più abusato “Non ci sono più le stagioni di una volta”!
Si potrebbe anche aggiungere “mai dire mai” – ma neanche “sempre” …
Ed è certo che ogni età ha i suoi problemi …
eppure a me, questa faccenda delle generazioni, torna fino ad un certo punto – soprattutto se si pensa che l’adolescenza è in realtà una costruzione sociale molto recente, parecchio “innaturale” (tanto per abusare di un termine, però non ho mai sentito parlare di animali adolescenti: o cuccioli o adulti), ma, soprattutto, della più diabolica gallina dalle uova d’oro che il capitale dell’iperconsumo abbia mai congegnato;
diciamo piuttosto che le “età” si stiracchiano ad arte un po’ come ci pare…
…nulla è innaturale.
O cuccioli o adulti, mi pare esagerato. Mi ricorda quando mio padre all’età di 12 anni andava a scavare le fondamenta, che lo calavano la mattina e lo tiravano fuori la sera; che poi anch’io, che a 17 anni avevo già un figlio, ne so qualcosa. E nei paesi poveri, anche lì si diventa adulti in fretta, che fin da bambini si sudano il pane. Nelle società con un certo grado di benessere, invece (per quanto discutibile) i ragazzi hanno un cuscinetto di tempo per studiare e crescere, e questo non è male. Il problema semmai è quando non riescono a diventare indipendenti, perché non trovano lavoro, e le case e la vita in genere è troppo cara. E anche questo è un aspetto della “crisi”, che si paga caro. Si sa che nei paesi del nord i ragazzi escono di casa molto presto, ma credo ci siano delle politiche che favoriscono il distacco dalle famiglie di origine.
Comunque per “età” mi riferivo a dei passaggi che sarebbero quasi obbligati, a partire dal piano fisico, e che nell’adolescenza può provocare effettivamente dei problemi di ri-adattamento fra se e il mondo. E la vecchiaia, non lo è di meno.
Che fino alla fine degli anni 50 la categoria dei “giovani” si limitasse ad una semplice connotazione anagrafica, almeno nella nostra penisoletta, é cosa abbastanza risaputa. Ma la potenza dei mercanti non é solo quella del saper vendere, ma all’occorrenza quella di inventarsi i compratori. Ed eccoteli serviti su un piatto di plastica, con le “loro” mode, il riconoscersi nei “loro” mondi, e il connotarsi attraverso i “loro” segni. Tutti dentro variabili apparantemente diversificate (in pratica dal reddito), ma infine tutti comunque “ggiovani” (meglio se con due G, é più convincente),overossia polli, da spennare come i loro babbi e le loro mamme, che in buona parte son quelli che pagano. Dopodichè, una volta avviata la baracca, il resto fa parte della storia del nostro costume, con appresso le relative contraddizioni. Galline dalle uova d’oro? Certamente, caro m.d., e per giunta uova giganti, da far impallidire anche i poveri struzzi.
P.S.: cara Rozmilla, non mi sono affatto sentito criticato, cosa per altro legittima da parte di tutti da queste parti, e ti ringrazio per le belle parole sul conto dei miei scritti.. Da vecchio permaloso mi permetto di distinguere fra ” scettico” (che magari fa, come il sottoscritto, dello spirito di patata), e cinico (che usa il sarcasmo molto più dell’ironia). Se a volte ti sembro sarcastico, allora può voler dire che sono molto più stronzo di quel: che credo, Capirai che orrore!: un vecchio stronzo é senz’altro peggio di un giovane stronzo!
Va bene, Xavier. Dipende molto dal significato che diamo alle parole. Per esempio a me l’ironia piace, ma qualche volta la trovo fin troppo aristocratica e altezzosa, come uno sguardo un po’ troppo dall’alto e a di traverso, talvolta persino alle spalle; mentre il sarcasmo lo trovo più schietto e popolare, anche se magari un po’ duro e talvolta sboccato. L’umorismo invece, l’umorismo quello vero, mi piace più di tutto perché ride delle cose, anche dei guai, insieme agli altri, “con” gli altri e dei guai comuni. Umorismo partecipato: ridiamo insieme, non contro qualcuno.
Detto questo, ammetto di non essere brava in nessuna di queste cose. Non mi applico abbastanza. Ma tu vai avanti e vedrai che io imparo 😉
In molte società, esiste il rito di iniziazione che in realtà riguarda solo i maschi, perchè per le femmine il menarca già svolge questo ruolo di trapasso dallo lo stato di bambina a quello di adulta.
Non trovo così terribile che ci siamo inventati l’adolescenza, mi pare che corrisponda anche a un’esigenza obiettiva, prolungare la fase di formazione in una società complessa come la nostra (si potrebbe citare per far risaltare le differenti esigenze il piccolo gnu che appena uscito dall’utero materno si mette in piedi e dopo qualche minuto è già in grado perfino di correre).
La cosa più grave è però che, senza rito di iniziazione, in alcuni maschi il passaggio ad adulti più che rinviato è eliminato, in certi casi abbiamo gli eterni bambini.
@Vincenzo: una curiosità, quale “rito di iniziazione” immagini per gli adolescenti della nostra società?
Non é così terribile esserci inventati l’adolescenza, ma il tentativo piuttosto riuscito di ridurne a merce ogni sua forma espressiva, questo sì. Fingendo di ascoltarne le istanze, se ne orientano scelte e comportamenti, finendo spesso col disinnescarne anche le “scomode” potenzialità.
Mario, sai meglio di me che un rito esiste in quanto c’è una fede dietro, una condivisione collettiva di significato, e sarebbe vano avanzare astrattamente e singolarmente una proposta.
Storicamente, avviene il contrario, una pratica introdotta apparentemente per tutt’altri motivi, col tempo finisce con l’assumere un carattere rituale.
Xavier, sono d’accordo, ma possiamo affermare che sia un problema confinato all’adolescenza, o non è invece il problema generale della mercificazione nelle nostre società?
Verissimo, Vincenzo. Si tratta di un particolare dentro il generale, che ci comprende tutti. Un particolare delicato, però, perchè riguarda quel segmento di umanità potenzialmente più vivo e rivolto al futuro. Narcotizzarlo prima è più semplice che bastonarlo dopo.