Penduli, o voi che vi credete eretti!

C’è un incontrollabile proliferare di ricorrenze, giornate, anniversari dedicati a questo o a quello – tutte cose lodevoli e importanti, per carità, ma il rischio è come sempre quello della saturazione. Troppe voci, troppe cose, ma un unico rumore di fondo – per non parlare della marmellata insapore inodore incolore che ne vien fuori. L’ipercomunicazione, che è per sua natura una iperstimolazione, comporta anche questo pericolo. Ciononostante le celebrazioni servono ogni tanto a rimettere in circolazione autori, temi o testi che altrimenti rischierebbero di rimanere sullo sfondo (o in cantina, oppure in soffitta). È proprio il caso di Giovanni Pascoli – di cui quest’anno ricorre il centenario della morte – un poeta che sa di scuola, di vecchio, di muffa e di polvere, e che in genere rievoca mestizia, fanciullini, onomatopee e cavalle storne (en passant: quanti conoscono il significato dell’aggettivo “storno”? provate a chiedere un po’ in giro…) – un poeta che difficilmente riesce ad uscire dalle noiose aule scolastiche o dai bigi convegni accademici.
Ricordo che quando ero studente all’università, un mio compagno di non so più quale corso aveva cercato di smontare questa immagine passatista (che anch’io avevo in mente), imbastendo per un intero pomeriggio una appassionata apologia del poeta romagnolo, a suo dire ingiustamente rimosso e sottovalutato. A me parve francamente esagerata quella sua requisitoria, però non avevo molti argomenti da opporgli (anche perché non ricordavo quasi nulla di quei versi melanconici e pieni di natura, di uccelli – ciascuno col suo nome ben definito –  di sere morenti e temporali incombenti; e dunque mi limitavo a balbettare obiezioni per lo più scontate).
Oggi so che aveva ragione lui, dato che rileggere Pascoli – e soprattutto riascoltarlo attraverso la voce di qualcuno che lo sappia leggere – è insieme un piacere ed una scoperta (o ri-scoperta). Tecnica, estetica, tematica. È poesia di altissimo livello, raffinata, potente, evocativa. E, talvolta, rarefatta e filosofica, esistenzialista e struggente, come in questa stupefacente Vertigine, dove il consueto sguardo straniante del fanciullino si manifesta attraverso la perdita del senso di gravità, e il rovesciamento di ogni senso e prospettiva. Cosicché la condizione umana si rivela come un “precipitare languido, sgomento”, un vagare “da spazio immenso ad altro spazio immenso”, “di nebulosa in nebulosa”. Un “crescere sotto il mio precipitare” – uno dei versi più belli che mai siano stati scritti…

I

Uomini, se in voi guardo, il mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell’eterno vento;
voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi, all’erbe dell’aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.
Oh! voi non siete il bosco, che s’afferra
con le radici, e non si getta in aria
se d’altrettanto non va su, sottoterra!
Oh! voi non siete il mare, cui contraria
regge una forza, un soffio che s’effonde
laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.
Eternamente il mar selvaggio l’onde
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde.
Ma voi… Chi ferma a voi quassù le piante
vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti
a questa informe oscurità volante;
che fisso il mento a gli anelanti petti,
andate, ingombri dell’oblio che nega,
penduli, o voi che vi credete eretti!
Ma quando il capo e l’occhio vi si piega
giù per l’abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichio di Vega…?
Allora io, sempre, io l’una l’altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d’erba, per l’orror del vano!
A nulla, qui, per non cadere in cielo!

II

Oh! se la notte, almeno lei, non fosse!
Qual freddo orrore pendere su quelle
lontane, fredde, bianche azzurre e rosse,
su quell’immenso baratro di stelle,
sopra quei gruppi, sopra quegli ammassi,
quel seminìo, quel polverìo di stelle!
Su quell’immenso baratro tu passi
correndo, o Terra, e non sei mai trascorsa,
con noi pendenti, in grande oblìo, dai sassi.
Io veglio. In cuor mi venta la tua corsa.
Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi
occhi, tutta la notte, la Grande Orsa:
se mi si svella, se mi si sprofondi
l’essere, tutto l’essere, in quel mare
d’astri, in quel cupo vortice di mondi!
veder d’attimo in attimo più chiare
le costellazioni, il firmamento
crescere sotto il mio precipitare!
precipitare languido, sgomento,
nullo, senza più peso e senza senso:
sprofondar d’un millennio ogni momento!
di là da ciò che vedo e ciò che penso,
non trovar fondo, non trovar mai posa,
da spazio immenso ad altro spazio immenso;
forse, giù giù, via via sperar… che cosa?
La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,
io te, di nebulosa in nebulosa,
di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!

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Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

31 pensieri riguardo “Penduli, o voi che vi credete eretti!”

  1. E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.

    Giovanni, III, 19

    Qui su l’arida schiena

    Del formidabil monte

    Sterminator Vesevo,

    La qual null’altro allegra arbor né fiore,

    Tuoi cespi solitari intorno spargi,

    Odorata ginestra,

    Contenta dei deserti. Anco ti vidi

    De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade

    Che cingon la cittade

    La qual fu donna de’ mortali un tempo,

    E del perduto impero

    Par che col grave e taciturno aspetto

    Faccian fede e ricordo al passeggero.

    Or ti riveggo in questo suol, di tristi

    Lochi e dal mondo abbandonati amante,

    E d’afflitte fortune ognor compagna.

    Questi campi cosparsi

    Di ceneri infeconde, e ricoperti

    Dell’impietrata lava,

    Che sotto i passi al peregrin risona;

    Dove s’annida e si contorce al sole

    La serpe, e dove al noto

    Cavernoso covil torna il coniglio;

    Fur liete ville e colti,

    E biondeggiàr di spiche, e risonaro

    Di muggito d’armenti;

    Fur giardini e palagi,

    Agli ozi de’ potenti

    Gradito ospizio; e fur città famose

    Che coi torrenti suoi l’altero monte

    Dall’ignea bocca fulminando oppresse

    Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno

    Una ruina involve,

    Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi

    I danni altrui commiserando, al cielo

    Di dolcissimo odor mandi un profumo,

    Che il deserto consola. A queste piagge

    Venga colui che d’esaltar con lode

    Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

    È il gener nostro in cura

    All’amante natura. E la possanza

    Qui con giusta misura

    Anco estimar potrà dell’uman seme,

    Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,

    Con lieve moto in un momento annulla

    In parte, e può con moti

    Poco men lievi ancor subitamente

    Annichilare in tutto.

    Dipinte in queste rive

    Son dell’umana gente

    Le magnifiche sorti e progressive .

    Qui mira e qui ti specchia,

    Secol superbo e sciocco,

    Che il calle insino allora

    Dal risorto pensier segnato innanti

    Abbandonasti, e volti addietro i passi,

    Del ritornar ti vanti,

    E procedere il chiami.

    Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,

    Di cui lor sorte rea padre ti fece,

    Vanno adulando, ancora

    Ch’a ludibrio talora

    T’abbian fra sé. Non io

    Con tal vergogna scenderò sotterra;

    Ma il disprezzo piuttosto che si serra

    Di te nel petto mio,

    Mostrato avrò quanto si possa aperto:

    Ben ch’io sappia che obblio

    Preme chi troppo all’età propria increbbe.

    Di questo mal, che teco

    Mi fia comune, assai finor mi rido.

    Libertà vai sognando, e servo a un tempo

    Vuoi di novo il pensiero,

    Sol per cui risorgemmo

    Della barbarie in parte, e per cui solo

    Si cresce in civiltà, che sola in meglio

    Guida i pubblici fati.

    Così ti spiacque il vero

    Dell’aspra sorte e del depresso loco

    Che natura ci diè. Per questo il tergo

    Vigliaccamente rivolgesti al lume

    Che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli

    Vil chi lui segue, e solo

    Magnanimo colui

    Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,

    Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

    Uom di povero stato e membra inferme

    Che sia dell’alma generoso ed alto,

    Non chiama sé né stima

    Ricco d’or né gagliardo,

    E di splendida vita o di valente

    Persona infra la gente

    Non fa risibil mostra;

    Ma sé di forza e di tesor mendico

    Lascia parer senza vergogna, e noma

    Parlando, apertamente, e di sue cose

    Fa stima al vero uguale.

    Magnanimo animale

    Non credo io già, ma stolto,

    Quel che nato a perir, nutrito in pene,

    Dice, a goder son fatto,

    E di fetido orgoglio

    Empie le carte, eccelsi fati e nove

    Felicità, quali il ciel tutto ignora,

    Non pur quest’orbe, promettendo in terra

    A popoli che un’onda

    Di mar commosso, un fiato

    D’aura maligna, un sotterraneo crollo

    Distrugge sì, che avanza

    A gran pena di lor la rimembranza.

    Nobil natura è quella

    Che a sollevar s’ardisce

    Gli occhi mortali incontra

    Al comun fato, e che con franca lingua,

    Nulla al ver detraendo,

    Confessa il mal che ci fu dato in sorte,

    E il basso stato e frale;

  2. Quella che grande e forte

    Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire

    Fraterne, ancor più gravi

    D’ogni altro danno, accresce

    Alle miserie sue, l’uomo incolpando

    Del suo dolor, ma dà la colpa a quella

    Che veramente è rea, che de’ mortali

    Madre è di parto e di voler matrigna.

    Costei chiama inimica; e incontro a questa

    Congiunta esser pensando,

    Siccome è il vero, ed ordinata in pria

    L’umana compagnia,

    Tutti fra sé confederati estima

    Gli uomini, e tutti abbraccia

    Con vero amor, porgendo

    Valida e pronta ed aspettando aita

    Negli alterni perigli e nelle angosce

    Della guerra comune. Ed alle offese

    Dell’uomo armar la destra, e laccio porre

    Al vicino ed inciampo,

    Stolto crede così qual fora in campo

    Cinto d’oste contraria, in sul più vivo

    Incalzar degli assalti,

    Gl’inimici obbliando, acerbe gare

    Imprender con gli amici,

    E sparger fuga e fulminar col brando

    Infra i propri guerrieri.

    Così fatti pensieri

    Quando fien, come fur, palesi al volgo,

    E quell’orror che primo

    Contra l’empia natura

    Strinse i mortali in social catena,

    Fia ricondotto in parte

    Da verace saper, l’onesto e il retto

    Conversar cittadino,

    E giustizia e pietade, altra radice

    Avranno allor che non superbe fole,

    Ove fondata probità del volgo

    Così star suole in piede

    Quale star può quel ch’ha in error la sede.

    Sovente in queste rive,

    Che, desolate, a bruno

    Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

    Seggo la notte; e su la mesta landa

    In purissimo azzurro

    Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,

    Cui di lontan fa specchio

    Il mare, e tutto di scintille in giro

    Per lo vòto seren brillare il mondo.

    E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

    Ch’a lor sembrano un punto,

    E sono immense, in guisa

    Che un punto a petto a lor son terra e mare

    Veracemente; a cui

    L’uomo non pur, ma questo

    Globo ove l’uomo è nulla,

    Sconosciuto è del tutto; e quando miro

    Quegli ancor più senz’alcun fin remoti

    Nodi quasi di stelle,

    Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo

    E non la terra sol, ma tutte in uno,

    Del numero infinite e della mole,

    Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

    O sono ignote, o così paion come

    Essi alla terra, un punto

    Di luce nebulosa; al pensier mio

    Che sembri allora, o prole

    Dell’uomo? E rimembrando

    Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

    Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,

    Che te signora e fine

    Credi tu data al Tutto, e quante volte

    Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

    Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

    Per tua cagion, dell’universe cose

    Scender gli autori, e conversar sovente

    Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi

    Sogni rinnovellando, ai saggi insulta

    Fin la presente età, che in conoscenza

    Ed in civil costume

    Sembra tutte avanzar; qual moto allora,

    Mortal prole infelice, o qual pensiero

    Verso te finalmente il cor m’assale?

    Non so se il riso o la pietà prevale.

    Come d’arbor cadendo un picciol pomo,

    Cui là nel tardo autunno

    Maturità senz’altra forza atterra,

    D’un popol di formiche i dolci alberghi,

    Cavati in molle gleba

    Con gran lavoro, e l’opre

    E le ricchezze che adunate a prova

    Con lungo affaticar l’assidua gente

    Avea provvidamente al tempo estivo,

    Schiaccia, diserta e copre

    In un punto; così d’alto piombando,

    Dall’utero tonante

    Scagliata al ciel profondo,

    Di ceneri e di pomici e di sassi

    Notte e ruina, infusa

    Di bollenti ruscelli

    O pel montano fianco

    Furiosa tra l’erba

    Di liquefatti massi

    E di metalli e d’infocata arena

    Scendendo immensa piena,

    Le cittadi che il mar là su l’estremo

    Lido aspergea, confuse

    E infranse e ricoperse

    In pochi istanti: onde su quelle or pasce

    La capra, e città nove

    Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello

    Son le sepolte, e le prostrate mura

    L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.

    Non ha natura al seme

    Dell’uom più stima o cura

    Che alla formica: e se più rara in quello

    Che nell’altra è la strage,

    Non avvien ciò d’altronde

    Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

    Brani

    Giacomo Leopardi

    La Ginestra

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    CANTI

    XXXIV

    LA GINESTRA

    O IL FIORE DEL DESERTO

    E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.

    Giovanni, III, 19

    Qui su l’arida schiena

    Del formidabil monte

    Sterminator Vesevo,

    La qual null’altro allegra arbor né fiore,

    Tuoi cespi solitari intorno spargi,

    Odorata ginestra,

    Contenta dei deserti. Anco ti vidi

    De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade

    Che cingon la cittade

    La qual fu donna de’ mortali un tempo,

    E del perduto impero

    Par che col grave e taciturno aspetto

    Faccian fede e ricordo al passeggero.

    Or ti riveggo in questo suol, di tristi

    Lochi e dal mondo abbandonati amante,

    E d’afflitte fortune ognor compagna.

    Questi campi cosparsi

    Di ceneri infeconde, e ricoperti

    Dell’impietrata lava,

    Che sotto i passi al peregrin risona;

    Dove s’annida e si contorce al sole

    La serpe, e dove al noto

    Cavernoso covil torna il coniglio;

    Fur liete ville e colti,

    E biondeggiàr di spiche, e risonaro

    Di muggito d’armenti;

    Fur giardini e palagi,

    Agli ozi de’ potenti

    Gradito ospizio; e fur città famose

    Che coi torrenti suoi l’altero monte

    Dall’ignea bocca fulminando oppresse

    Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno

    Una ruina involve,

    Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi

    I danni altrui commiserando, al cielo

    Di dolcissimo odor mandi un profumo,

    Che il deserto consola. A queste piagge

    Venga colui che d’esaltar con lode

    Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

    È il gener nostro in cura

    All’amante natura. E la possanza

    Qui con giusta misura

    Anco estimar potrà dell’uman seme,

    Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,

    Con lieve moto in un momento annulla

    In parte, e può con moti

    Poco men lievi ancor subitamente

    Annichilare in tutto.

    Dipinte in queste rive

    Son dell’umana gente

    Le magnifiche sorti e progressive .

    Qui mira e qui ti specchia,

    Secol superbo e sciocco,

    Che il calle insino allora

    Dal risorto pensier segnato innanti

    Abbandonasti, e volti addietro i passi,

    Del ritornar ti vanti,

    E procedere il chiami.

    Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,

    Di cui lor sorte rea padre ti fece,

    Vanno adulando, ancora

    Ch’a ludibrio talora

    T’abbian fra sé. Non io

    Con tal vergogna scenderò sotterra;

    Ma il disprezzo piuttosto che si serra

    Di te nel petto mio,

    Mostrato avrò quanto si possa aperto:

    Ben ch’io sappia che obblio

    Preme chi troppo all’età propria increbbe.

    Di questo mal, che teco

    Mi fia comune, assai finor mi rido.

    Libertà vai sognando, e servo a un tempo

    Vuoi di novo il pensiero,

    Sol per cui risorgemmo

    Della barbarie in parte, e per cui solo

    Si cresce in civiltà, che sola in meglio

    Guida i pubblici fati.

    Così ti spiacque il vero

    Dell’aspra sorte e del depresso loco

    Che natura ci diè. Per questo il tergo

    Vigliaccamente rivolgesti al lume

    Che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli

    Vil chi lui segue, e solo

    Magnanimo colui

    Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,

    Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

    Uom di povero stato e membra inferme

    Che sia dell’alma generoso ed alto,

    Non chiama sé né stima

    Ricco d’or né gagliardo,

    E di splendida vita o di valente

    Persona infra la gente

    Non fa risibil mostra;

    Ma sé di forza e di tesor mendico

    Lascia parer senza vergogna, e noma

    Parlando, apertamente, e di sue cose

    Fa stima al vero uguale.

    Magnanimo animale

    Non credo io già, ma stolto,

    Quel che nato a perir, nutrito in pene,

    Dice, a goder son fatto,

    E di fetido orgoglio

    Empie le carte, eccelsi fati e nove

    Felicità, quali il ciel tutto ignora,

    Non pur quest’orbe, promettendo in terra

    A popoli che un’onda

    Di mar commosso, un fiato

    D’aura maligna, un sotterraneo crollo

    Distrugge sì, che avanza

    A gran pena di lor la rimembranza.

    Nobil natura è quella

    Che a sollevar s’ardisce

    Gli occhi mortali incontra

    Al comun fato, e che con franca lingua,

    Nulla al ver detraendo,

    Confessa il mal che ci fu dato in sorte,

    E il basso stato e frale;

    Quella che grande e forte

    Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire

    Fraterne, ancor più gravi

    D’ogni altro danno, accresce

    Alle miserie sue, l’uomo incolpando

    Del suo dolor, ma dà la colpa a quella

    Che veramente è rea, che de’ mortali

    Madre è di parto e di voler matrigna.

    Costei chiama inimica; e incontro a questa

    Congiunta esser pensando,

    Siccome è il vero, ed ordinata in pria

    L’umana compagnia,

    Tutti fra sé confederati estima

    Gli uomini, e tutti abbraccia

    Con vero amor, porgendo

    Valida e pronta ed aspettando aita

    Negli alterni perigli e nelle angosce

    Della guerra comune. Ed alle offese

    Dell’uomo armar la destra, e laccio porre

    Al vicino ed inciampo,

    Stolto crede così qual fora in campo

    Cinto d’oste contraria, in sul più vivo

    Incalzar degli assalti,

    Gl’inimici obbliando, acerbe gare

    Imprender con gli amici,

    E sparger fuga e fulminar col brando

    Infra i propri guerrieri.

    Così fatti pensieri

    Quando fien, come fur, palesi al volgo,

    E quell’orror che primo

    Contra l’empia natura

    Strinse i mortali in social catena,

    Fia ricondotto in parte

    Da verace saper, l’onesto e il retto

    Conversar cittadino,

    E giustizia e pietade, altra radice

    Avranno allor che non superbe fole,

    Ove fondata probità del volgo

    Così star suole in piede

    Quale star può quel ch’ha in error la sede.

    Sovente in queste rive,

    Che, desolate, a bruno

    Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

    Seggo la notte; e su la mesta landa

    In purissimo azzurro

    Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,

    Cui di lontan fa specchio

    Il mare, e tutto di scintille in giro

    Per lo vòto seren brillare il mondo.

    E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

    Ch’a lor sembrano un punto,

    E sono immense, in guisa

    Che un punto a petto a lor son terra e mare

    Veracemente; a cui

    L’uomo non pur, ma questo

    Globo ove l’uomo è nulla,

    Sconosciuto è del tutto; e quando miro

    Quegli ancor più senz’alcun fin remoti

    Nodi quasi di stelle,

    Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo

    E non la terra sol, ma tutte in uno,

    Del numero infinite e della mole,

    Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

    O sono ignote, o così paion come

    Essi alla terra, un punto

    Di luce nebulosa; al pensier mio

    Che sembri allora, o prole

    Dell’uomo? E rimembrando

    Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

    Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,

    Che te signora e fine

    Credi tu data al Tutto, e quante volte

    Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

    Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

    Per tua cagion, dell’universe cose

    Scender gli autori, e conversar sovente

    Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi

    Sogni rinnovellando, ai saggi insulta

    Fin la presente età, che in conoscenza

    Ed in civil costume

    Sembra tutte avanzar; qual moto allora,

    Mortal prole infelice, o qual pensiero

    Verso te finalmente il cor m’assale?

    Non so se il riso o la pietà prevale.

    Come d’arbor cadendo un picciol pomo,

    Cui là nel tardo autunno

    Maturità senz’altra forza atterra,

    D’un popol di formiche i dolci alberghi,

    Cavati in molle gleba

    Con gran lavoro, e l’opre

    E le ricchezze che adunate a prova

    Con lungo affaticar l’assidua gente

    Avea provvidamente al tempo estivo,

    Schiaccia, diserta e copre

    In un punto; così d’alto piombando,

    Dall’utero tonante

    Scagliata al ciel profondo,

    Di ceneri e di pomici e di sassi

    Notte e ruina, infusa

    Di bollenti ruscelli

    O pel montano fianco

    Furiosa tra l’erba

    Di liquefatti massi

    E di metalli e d’infocata arena

    Scendendo immensa piena,

    Le cittadi che il mar là su l’estremo

    Lido aspergea, confuse

    E infranse e ricoperse

    In pochi istanti: onde su quelle or pasce

    La capra, e città nove

    Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello

    Son le sepolte, e le prostrate mura

    L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.

    Non ha natura al seme

    Dell’uom più stima o cura

    Che alla formica: e se più rara in quello

    Che nell’altra è la strage,

    Non avvien ciò d’altronde

    Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

    Ben mille ed ottocento

    Anni varcàr poi che spariro, oppressi

    Dall’ignea forza, i popolati seggi,

    E il villanello intento

    Ai vigneti, che a stento in questi campi

    Nutre la morta zolla e incenerita,

    Ancor leva lo sguardo

    Sospettoso alla vetta

    Fatal, che nulla mai fatta più mite

    Ancor siede tremenda, ancor minaccia

    A lui strage ed ai figli ed agli averi

    Lor poverelli. E spesso

    Il meschino in sul tetto

    Dell’ostel villereccio, alla vagante

    Aura giacendo tutta notte insonne,

    E balzando più volte, esplora il corso

    Del temuto bollor, che si riversa

    Dall’inesausto grembo

    Su l’arenoso dorso, a cui riluce

    Di Capri la marina

    E di Napoli il porto e Mergellina.

    E se appressar lo vede, o se nel cupo

    Del domestico pozzo ode mai l’acqua

    Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,

    Desta la moglie in fretta, e via, con quanto

    Di lor cose rapir posson, fuggendo,

    Vede lontan l’usato

    Suo nido, e il picciol campo,

    Che gli fu dalla fame unico schermo,

    Preda al flutto rovente,

    Che crepitando giunge, e inesorato

    Durabilmente sovra quei si spiega.

    Torna al celeste raggio

    Dopo l’antica obblivion l’estinta

    Pompei, come sepolto

    Scheletro, cui di terra

    Avarizia o pietà rende all’aperto;

    E dal deserto foro

    Diritto infra le file

    Dei mozzi colonnati il peregrino

    Lunge contempla il bipartito giogo

    E la cresta fumante,

    Che alla sparsa ruina ancor minaccia.

    E nell’orror della secreta notte

    Per li vacui teatri,

    Per li templi deformi e per le rotte

    Case, ove i parti il pipistrello asconde,

    Come sinistra face

    Che per vòti palagi atra s’aggiri,

    Corre il baglior della funerea lava,

    Che di lontan per l’ombre

    Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

    Così, dell’uomo ignara e dell’etadi

    Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno

    Dopo gli avi i nepoti,

    Sta natura ognor verde, anzi procede

    Per sì lungo cammino

    Che sembra star. Caggiono i regni intanto,

    Passan genti e linguaggi: ella nol vede:

    E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.

    E tu, lenta ginestra,

    Che di selve odorate

    Queste campagne dispogliate adorni,

    Anche tu presto alla crudel possanza

    Soccomberai del sotterraneo foco,

    Che ritornando al loco

    Già noto, stenderà l’avaro lembo

    Su tue molli foreste. E piegherai

    Sotto il fascio mortal non renitente

    Il tuo capo innocente:

    Ma non piegato insino allora indarno

    Codardamente supplicando innanzi

    Al futuro oppressor; ma non eretto

    Con forsennato orgoglio inver le stelle,

    Né sul deserto, dove

    E la sede e i natali

    Non per voler ma per fortuna avesti;

    Ma più saggia, ma tanto

    Meno inferma dell’uom, quanto le frali

    Tue stirpi non credesti

    O dal fato o da te fatte immortali.

  3. «Se uno si ostina a leggere dal punto di vista di uno che legge senza capire, in pochissimo tempo arriva a non capire assolutamente nulla e a essere ottuso per conto proprio.» (Emile Faguet)
    [J.L.Borges, Discussione, cap. “Rivendicazione di Bouvard et Pécuchet”, pag.401]

  4. Il fatto è che uno non può, per non contraddirsi, leggere da un altro e qualsiasi punto di vista che non sia il suo. Quindi, senza passare alla seconda riga di quanto dica Faguet, poichè sarebbe leggere già l’inutile del l’inutile, mi fermo qui.

  5. Le Rozmilla in fondo mi è anche simpatica, e le voglio per questo svelare ancora qualche cosa di mio in modo che ogni volta che crede qualcosa di qualcuno le rimanga l’amato in bocca e si ravveda, magari per andare a lavarsela la bocca… Deve sapere Rozmilla che io sono cresciuto in una famiglia a companatico e Jannacci, alle feste natalizie, le volte che ci si ritrovava tutti si cantava bandiera rossa e poppopo merda de che…in camera mia campeggiava il poster del Che. Non creda di meravigliare quel qualcuno che l’orecchio l’ha molto più fine di lei è le canzoni le ha ascoltate tutte.

  6. Che dire, Md… questa faccenda degli uomini penduli mi fa molto ridere.

    Ma a proposito di portamento …
    – vedi:

    Curiosità: è una pianta che si fa apprezzare per la bellezza dei fiori e del portamento. (!)
    Storicamente comunque, l’interesse per questa pianta, più che per le sue caratteristiche ornamentali, si è concentrato sulle virtù medicinali. Conosciuta fin dai tempi di Ippocrate e Galeno, viene ricordata per la sua azione diuretica da Teofrasto e Plinio. Nel XVIII secolo si scoprirono le sue proprietà cardiotoniche, simili a quelle della digitale. Utilizzato anche nella cura dell’asma (naturalmente a piccole dosi e previa consulto di personale esperto). Il bulbo è talvolta utilizzato come veleno per topi, i quali attirati dall’odore aromatico, affondano i denti e rapidamente giungono alla morte. In particolare, la varietà rossa contiene lo scilliroside, un potente topicida.

  7. Ma come!!!
    “Lei suona il pianoforte e lui la tromba”
    suscitò un pandemonio di critiche
    mentre invece su
    “Penduli, o voi che vi credete eretti!”
    nessuno ha nulla da ridire?”
    Che, tra l’altro, sono tutt’e due endecasillabi…

  8. @filosofiazzero:
    hai ragione Filosofiazzero …
    il mondo è davvero ingiusto 😉

    Che tra l’altro, visto che sono entrambi endecasillabi (mi fido sulla parola, non li sto a contare) me direbbe che si potrebbe riesumare … 😀

  9. Forse più che dal cristianesimo in lui sfiorisce ogni dire del pensiero positivista dell’uomo tutto d’un pezzo e delle promesse disilluse di una scienza autoreferenziale rifugiandosi proprio nella natura del cristianesimo….

  10. @ filosofiazzero
    Ottima osservazione, e sopprattutto scritta in modo davvero spiritoso, sto ridendo da un po’ e non posso che darti ragione!

  11. povero Pascoli! lui a costruire faticosamente un mito sul fanciullino e tutto il resto, mentre voi incalliti e perversi iperfreudiani subito a decostruirglielo e a pensar male…

  12. penduli o voi che vi credete eretti : il fatto di essere penduli invece che eretti nella proposizione indicata non cambia nulla, potrebbe essere messa così: eretti o voi che vi credete penduli… quella che cambia è non so, ma rimanda, non significa che significhi nulla.

  13. … dicci la verità, Md: non siamo stati bravi? Eheh
    Questa mattina pensavo (viste alcune relazioni disastrose fra uomini e donne a cui ho assistito) che non sarebbe una cattiva idea poter segnare una tacca sulla carta d’identità (nota bene: IDENTITA’) sotto la voce segni particolari, quando il soggetto in questione è riuscito a uccidere il leone.
    È curiosa questa cosa. E te ne accorgi proprio dal vivo, purtroppo quasi sempre dopo, se un uomo ce l’ha fatta, o meno.
    Nelle comunità primitive, l’iniziazione consisteva nel superare alcune prove, tra le quali non è raro trovare l’uccisione del leone, appunto. Carinissima poi quella cosa che si appendevano al collo le collane coi denti del leone. Più denti di leoni uccisi avevano al collo, più erano … eccetera.
    Qui in occidente le cose si sono un tantino complicate, anche perché non si può più andare in giro a far strage di leoni, e non ci sono dei leoni veri, in carne ed ossa. I leoni fantasmatici, o metafisici, però, non sono meno feroci, né meno perigliosi.
    Certo che per i cristiani è anche più dura, dal momento in cui hanno inventato quel mito in cui il figlio deve morire per risorgere a nuova vita, che poi non si sa bene a far che, visto che appena dopo deve assurgere in cielo.
    Ammettiamolo: il compito è gravoso, anche perché c’è sempre il rischio che anche il padre risorga dalle sue ceneri. E come impedirglielo?

    Questa mattina leggevo un brano di Enzo Paci, tratto dai Diari Fenomenologici.
    A parte alcuni refusi nel testo, mi pare interessante.
    http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5281

  14. …da questo discorso di Severino io ne ho ricavato il senso di essere trattati con poco riguardo:
    1) perché caricaturalmente ex-cathedra, al limite del ridicolo, ma somministrato come serio, a un pubblico, sembrerebbe di intuire, in istato di soggezione, e dunque di sospensione del giudizio.
    2) perché non viene messo a disposizione degli udenti nessun sapere. Non è una lezione di ingegneria in cui si parla di una trave o di un muro e dei calcoli necessari, dei al materiali, eccetra, forse dove avrebbe senso il silenzio operoso dei discepoli
    3) e non viene messo a disposizione degli udenti nessun sapere perché la le questioni di cui si parla non hanno più alcuna rilevanza filosofica. Se questo discorso fosse stato fatto nel XVII secolo avrebbe (forse)avuto una certa rilevanza e originalità, fatto oggi, anche se travestito da “altro discorso” è sempre un discorso che non ha più rilevanza. Poco importa che ci sia l’ineluttabile eterno a fare da sfondo. I concetti sono i soliti e già macinati e fatti in polvere.
    4) che poi il mondo sia popolato da poveri diavoli che non capiscono un cazzo (tutti noi) questo è un altro discorso.

  15. Giusto ne ha ricavato Husserl e la disfatta della scienza a scapito della filosofia. Brava, la credevo meno perspicace.

  16. @filosofiazzero
    capisco che qui Severino possa risultare molto antipatico , sopratutto quando parla di verità e cioè del popolo bue ed ignorante, ma la verità si fa odiare, per questo amiamo molto di più la falsità e siamo sempre meno autentici (Heidegger), e se non lo ha detto comunque lo ha pensato.

  17. @md: qualche tuo ospite insiste sul monotematico ossessivo. Ovvio che da parte mia non spreco un secondo del mio tempo a leggere commenti o visionare video in cui compare la parola Severino, o lo stesso.
    Sul povero Pascoli, sinceramente non lo conosco molto, ma davvero quel suo “precipitare languido sgomento” da l’impressione di uno che aveva una fifa boia.
    D’altra parte non si può nemmeno pretendere che Pascoli avesse scritto: “Passata è la tempesta, odo gli uccelli far festa”, che sennò non sarebbe Pascoli ma Leopardi!
    Ecco, per lo meno non facciamo confusione di identità … scambiare mele per pere e cose di questo tipo.

  18. da l’impressione… dà con accento.
    ah, lei non spreca sprecando , interessante questo , solita contraddizione, l’ho già sentita qui in questo blog.

  19. “da spazio immenso ad altro spazio immenso”
    Questo verso del povero Pascoli, che esprime lo sgomento di vagare tra gli spazi immensi, mi ha fatto ricordare quell’altro di Ungaretti, “m’illumino d’immenso”, che di certo si contrappone, ad esempio, col piccolo mondo antico che non fuoriesce dalle stanze, o che al limite va a passeggio in giardino.
    Non so se questo sia indice di una certa mania per l’immenso, lo smisurato, il titanico; ma anche paura e terrore, è chiaro, poiché di fronte all’immenso non ci si può sentire che piccoli, minuscoli moscerini. E lo siamo, anche: moscerini che vorrebbero essere qualcos’altro, o che non si accontentano di essere ciò che sono. (su questa tendenza avevo letto un interessante articolo di Pasolini che la descriveva come un vergognarsi di essere ciò che si è, per voler essere altro da sé, e soprattutto “più” di ciò che si è)
    Comunque sia, da piccola donnetta cresciuta leggendo piccole donne, o al massimo piccole donne crescono, faccio fatica a non leggerlo con un’ombra di sospetto, questa mania per lo smisurato.
    Per questo, non so, mi verrebbe da dire che l’immaginazione può fare brutti scherzi.
    Non so se sia vero, ma avevo letto da qualche parte che questa tendenza a vagare negli infiniti spazi, sarebbe una tendenza molto più di genere maschile, che altro; mentre le donne sarebbero più concrete, più interessate al mondo reale, al pratico.
    Un esempio: quando da piccola ho preso coscienza delle “probabili” pressoché infinite dimensioni dell’universo (per come mi venivano descritte, spiegate), istintivamente il mio interesse era di aver ben chiaro dove “io” mi trovavo, in tutto questo infinito immenso spazio. Infatti, avevo persino ampliato la mia collocazione nell’universo, ad esempio modificando il mio indirizzo, scrivendo nome cognome, via, numero civico, città, provincia, regione, nazione, continente, pianeta, nebulosa, universo; così, se per caso qualcuno, se persino Dio avesse voluto scrivermi da quegli infiniti spazi, anche lui poteva sapere dove stavo io. E lì ero, e sono. Finora.
    C’era quella canzone, ricordate, quella che diceva, “Oh dio del cielo/se mi vorrai amare/scendi sulla terra/vienimi a cercare” – era una delle mie preferite.

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