JJR 7 – Rousseau segreto, minore, svagato

“Mai ho pensato tanto, esistito tanto, vissuto tanto
mai sono stato tanto me stesso […]
come nei viaggi che ho fatto solo e a piedi.
La marcia è qualche cosa che anima e ravviva le mie idee:
non posso quasi pensare quando sono fermo,
il mio corpo deve essere in moto
perché vi metta il mio spirito”.

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Concludo l’anno roussoiano (il 300° dalla nascita, che in Italia è passato senza che quasi nessuno se ne accorgesse), con qualche nota sparsa sul Rousseau meno noto, soprattutto quello né politico né antropologico.

1. Vorrei però partire da quella che potrebbe essere considerata quasi la fondazione di un mito. Ad ulteriore conferma del fatto che Rousseau (anche se l’Europa non se lo fila) è massimamente presente nella fibra della sua sensibilità, qualche giorno fa leggevo una recensione sull’ultimo libro del filosofo tedesco Peter Sloterdijk (quello della ragion cinica e della teoria antropologico-ontologica delle sfere), intitolato Stress e libertà, dove inevitabilmente saltava fuori proprio Rousseau. Il filosofo cioè che più di ogni altro ha associato il filosofare all’andare, all’uscire dalla società stressata (per guardarla da fuori) e forse ancor più allo svagare la mente: le sue Rêveries, passeggiate (o fantasticherie) solitarie, scritte in punto di morte (1777-8, tanto che l’ultima viene interrotta), sono un vero e proprio manifesto del diritto alla spensieratezza, e stanno lì a dimostrarlo.
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Menu-necrologio di Natale

Fanny e Alexander_Bergman

Può essere che la parte etica (e/o sentimentale) del nostro ipertrofico encefalo si sia così tanto rammollita da farci inutilmente disperare per quella ben poco gentile disposizione degli esseri viventi a farne fuori altri per nutrirsene (i biologi la chiamano eterotrofia). E d’altra parte l’unica alternativa sarebbe il suicidio. Un nichilismo maggiore, a fronte di un nichilismo minore (maggiore e minore sono però quantomai relativi). Ma la parte più dura ed ancestrale del suddetto encefalo se ne sbatte e continua nell’immane opera trituratrice, divoratrice e distruttrice. È solo l’altra parte – quella molle – che aspetta che giunga il manto / della grande consolatrice…
Ci sono poi le vie intermedie – il vegetarianesimo o, meglio, il veganesimo a cercare di ridurre lo spargimento di sangue. Oppure, l’amara ironia della poesia. Come in questa Coercizione – tra le ultimissime, in punta di morte – di Wislawa Szymborska, che prende in giro un po’ tutti, onnivori, vegetariani e carnivori, e che spero vogliate mettere, magari al posto dei capponi o dei tacchini o dei capitoni, sulle vostre natalizie tavole scarlatte (per il sangue che scorrerà comunque copioso, e che però sulle tovaglie non si noterà, dato che sarà rosso su rosso). Vi è poi la possibilità – come conclude la grande e saggia poetessa – di coprire grida e necrologio con l’inutile ed allegro chiacchiericcio.
Ed è questo il mio augurio – ben poco simpatico e piuttosto rompicoglioni – per il giorno di Natale.
[P.S. L’immagine sopra è tratta dal film Fanny e Alexander di Ingmar Bergman che, se la memoria non mi inganna, si apre – e mi pare si chiuda – con una gran tavolata natalizia e un poderoso discorso del capofamiglia; la scena m’impressionò a tal punto che, quando la vidi al cinema poco più che ventenne, decisi che avrei organizzato qualcosa di simile con l’unico mio nonno superstite, che già vedevo assiso a capotavola, raccogliendo intorno a lui figli e nipoti a decine, sparsi in tutta Italia – una missione impossibile, che infatti non sarei mai riuscito a compiere; di lì a poco, tra l’altro, il vecchio patriarca migrò a miglior vita…].
E ora, finalmente, la poesia di W.S.:
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Forme di vita

Pintoricchio.BanbinGesu

Non è un bel vedere. Sbava ed è tutto accartocciato sulla sua carrozzina. La donna che lo sta assistendo mi dice che ha 14 anni, ma di età mentale non più di 9 mesi. Oltre ad avere questa malformazione genetica, ha avuto grossi problemi gastrointestinali ed è per di più diabetico. Insomma, è vivo per miracolo. Lei gli accarezza i capelli e lui si strofina sul suo braccio. Poi il ragazzo fa una cosa inaspettata: si rivolge a me e mi tocca la mano, in segno di affetto – dice lei. Io non so cosa pensare.
Qualche minuto dopo, mentre faccio la mia passeggiata quotidiana, vengo assalito da una tempesta di pensieri e di emozioni. Pensieri che bruciano e lacrime che sono sul punto di cadere – anche perché…

…c’è stata una fase della mia vita – qualche decennio fa – nella quale ho avuto profondi convincimenti eugenetici. Il monte Taigeto (ammesso sia vera quella crudele usanza spartana) – naturalmente in forma sterile e medicalizzata – mi sembrava una buona e radicale soluzione al problema dell’handicap, delle malformazioni, e a tutto quel complesso drammatico che talune nascite si portano dietro.
Oggi mi vergogno profondamente di quei miei pensieri. Intendiamoci: la donna (o i genitori) che dovessero decidere di non far nascere un futuro bambino con gravi malformazioni, hanno e avranno sempre la mia piena solidarietà – oltre alla condivisione razionale. E non potrò mai perdonare tutti quei porporati e sepolcri imbiancati che da anni strillano contro l’aborto, come se non fosse un dramma per una donna sopprimere una vita che ha in grembo. Ma che ne sanno loro? (e del resto nemmeno io so, posso solo immaginare, com-patire).
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Che cosa si nasconde dietro un semplice bacio…

Femme assise devant la fenetre

“Tutte le cose ci appaiono sotto forma di figure”

Andare a vedere una mostra, specie di pittura, è una cosa che mi entusiasma parecchio – anche se diventa sempre più difficile farlo, volendo evitare folle, grupponi, guide più o meno discrete e visitatori molesti. Del resto le mostre sono eventi democratici e di massa, altrimenti perché mai allestirle? E poi Pablo Picasso era un pittore che amava esporsi ed essere al centro della scena – oltre che essersi ritrovato, non certo suo malgrado, al centro di gran parte del secolo appena trascorso.
Ad ogni modo, muovendomi avanti e indietro per le sale, girando come una trottola e saltabeccando qua e là, con l’accortezza di evitare le onde d’urto delle masse assetate (ed assatanate) di Cultura, ho finalmente potuto ammirare con immenso piacere dei sensi e godimento intellettuale, le opere esposte alla mostra in corso a Milano – la seconda che ho avuto la fortuna di vedere del grande pittore spagnolo.
Riviste alcune cose, viste altre nuove, incuriosito da dettagli biografici, imparato cose che non sapevo, eccetera eccetera. Insomma, una godibilissima lezione di un paio d’ore di storia dell’arte, senza troppi -ismi e tecnicismi – infarcita piuttosto di improvvisi attacchi emotivi, specie di fronte ad alcuni quadri. Quel che segue è un resoconto frammentario e ultrasoggettivo, preso più o meno di sana pianta dal mio libriccino di appunti che sempre mi porto appresso…

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Hegel in Siberia

coverIn realtà era Dostoevskij a stare in Siberia, mentre Hegel l’aveva azzerata, cancellata, annullata, espunta dal suo sistema storico-filosofico. E dunque Dostoevskij non poteva che scoppiare a piangere.
Avevo letto di questo piccolo saggio di Làszlò Földényi da qualche parte, in non so più quale altro libro, e mi aveva molto incuriosito per il titolo. L’autore immagina quelli che poterono essere i sentimenti provati dal condannato ai lavori forzati Fëdor Dostoevskij nell’apprendere la brutale esclusione dall’economia del mondo del luogo dov’era stato confinato e recluso.
Il tutto in poche righe. Cominciamo con quelle di Hegel:
“Anzitutto dobbiamo escludere il declivio settentrionale, la Siberia. Per noi essa è fuori del campo d’osservazione. Tutta la configurazione del paese non è tale da poter essere teatro di civiltà storica, e quindi da farsi avanti con una sua propria fisionomia nella storia del mondo”. (Filosofia della storia, ed. Nuova Italia, vol. I, p. 264).
Ed ora Földényi:
“Possiamo immaginare lo sbalordimento di Dostoevskij quando lesse queste righe al lume di una candela di sego. E possiamo rappresentarci la sua disperazione mentre realizzò che nella lontana Europa, per le cui idee era stato prima condannato a morte e poi esiliato, le sue pene non avevano alcun significato. E solo perché lui viveva queste sofferenze in Siberia, dunque in un mondo che non faceva parte della storia. Per questo motivo, da un punto di vista europeo, non si poteva sperare neppure nella redenzione. Dostoevskij poteva sentire a ragione di non essere stato solo esiliato in Siberia, ma scacciato anche nella non-esistenza… Dove solo un miracolo poteva redimerlo, un miracolo, la cui possibilità veniva esclusa non solo da Hegel, ma da tutto lo spirito europeo contemporaneo” (p. 11).
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Kindertotenlieder

(ai bambini della Sandy Hook di Newtown, ma anche a tutti gli altri sparsi per il mondo, vittime inermi inghiottite dalla follia del nichilismo)

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Io penso spesso: sono solo usciti,
presto saranno di ritorno a casa!
Il giorno è bello. No, non angosciarti,
fanno solo una lunga passeggiata.

Ma sì: semplicemente sono usciti,
ora, vedrai, ritorneranno a casa.
Non angosciarti, la giornata è bella!
Fanno due passi, là, su quelle alture!

Sì, sono usciti un po’ prima di noi,
e non faranno più ritorno a casa!
Su quelle alture li raggiungeremo,
in pieno sole! La giornata è bella
su quelle alture.

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Socrate a San Diego

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Nel celebre ritratto – plastico ed antioleografico – che Hegel ci consegna di Socrate nelle sue Lezioni berlinesi, il filosofo tedesco parla ad un certo punto di “raffinata urbanità attica”. Quell’espressione ha sempre stuzzicato il mio immaginario, tanto da cercare di rappresentarmi praticamente (non solo teoreticamente) a cosa alludesse Hegel e se ciò corrispondesse o meno alla realtà ateniese del V secolo a.C.
A sentir lui, si tratterebbe della «capacità di muoversi liberamente nelle relazioni più libere, una loquacità aperta ma sempre vigile che, mentre ha una sua intima universalità, allo stesso tempo sa cogliere il giusto vivo rapporto con gli individui e con la situazione, in cui essa si muove». I dialoghi socratici sarebbero pertanto «da annoverarsi tra i modelli più perfetti di questa cultura fine e socievole» (Lezioni sulla storia della filosofia, La Nuova Italia, vol. 2, p. 52).
Ora, io non so se gli americani siano capaci di “raffinata urbanità” o di “intima universalità”, ma certo non si può dire che manchino loro gentilezza e socievolezza.
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Individuo e totalità

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Il giovane amico e filosofo Marco Pellegrino, di cui qualcuno forse ricorderà una lunga serie di interventi e di commenti su questo blog intorno al pensiero di Emanuele Severino con l’impegnativo nick di “Profeta”, ha pubblicato qualche giorno fa sul suo blog un breve testo su individuo e totalità, bene e male. Poiché in questi giorni si è molto discusso sulla Botte di individuo e società (a partire dalla questione dei desideri e dei consumi), riporto qui di seguito il post.
Ricordo che Marco è autore di due saggi – La struttura concreta dell’infinito e Del tragico amore – nei quali si impegna coraggiosamente a ripensare e addirittura oltrepassare lo stesso pensiero di Severino. Naturalmente il suo è un punto di vista altro sulla questione – né antropologico né psicologico né sociopolitico e forse nemmeno filosofico in senso tradizionale. Una visione radicale e spiazzante (non saprei dire se dotata di originalità), ma che trovo di grande interesse. Naturalmente si tratta di una scheggia: immagino che chi voglia approfondire tale approccio ontologico, dovrà rivolgersi ai suoi (peraltro densi e voluminosi) tomi.
[So bene che alcuni termini – su tutti Totalità ed Eterno, per di più con la maiuscola – faranno storcere il naso a qualcuno (mentre galvanizzeranno qualcun altro), ma qui si fa filosofia, e quelli sono concetti che hanno piena cittadinanza filosofica. Liberissimo ciascuno di criticarli, ma anche di utilizzarli]

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Libri che accendono la mente (o menti che accendono i libri?)

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Sto usando scientemente una classe di bambini (una quinta elementare) per i miei esperimenti filosofici con quella fascia di età. Non che quelli del passato non fossero “esperimenti”, ma questo lo è un po’ di più perché è finalizzato alla stesura di alcune parti di un libro che sto scrivendo, dedicato alla filosofia con i bambini. La strategia è però un po’ diversa dal solito, perché sto filosofando con loro in maniera laterale, per cerchi concentrici, apparentemente episodica (o, per meglio dire, rapsodica). Il filo conduttore questa volta non è il filo di filosofia, ma il libro. La cosa, cioè, più antifilosofica che ci sia – se si deve dar retta a Platone, che però tra-scriveva abbondantemente i suoi Dialoghi socratici.
E siamo partiti, tra l’altro, dal concetto di libro, dalla sua idea, da quel che esso è come essenza. Questa opera di astrazione è stata compresa così bene che adesso maneggiano perfettamente la coppia astratto/concreto, universale/particolare.
Lo scopo? a parte quello utilitaristico che ho esposto sopra, dimostrando ancora una volta la filosoficità dei bambini? Boh, non lo so ancora di preciso, mi sto facendo guidare da loro – soprattutto dalla loro creatività linguistica, dalla spontaneità e dal vulcano di metafore che ogni volta ne vien fuori. Ora siamo alle “facce” dei libri…
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