Nel celebre ritratto – plastico ed antioleografico – che Hegel ci consegna di Socrate nelle sue Lezioni berlinesi, il filosofo tedesco parla ad un certo punto di “raffinata urbanità attica”. Quell’espressione ha sempre stuzzicato il mio immaginario, tanto da cercare di rappresentarmi praticamente (non solo teoreticamente) a cosa alludesse Hegel e se ciò corrispondesse o meno alla realtà ateniese del V secolo a.C.
A sentir lui, si tratterebbe della «capacità di muoversi liberamente nelle relazioni più libere, una loquacità aperta ma sempre vigile che, mentre ha una sua intima universalità, allo stesso tempo sa cogliere il giusto vivo rapporto con gli individui e con la situazione, in cui essa si muove». I dialoghi socratici sarebbero pertanto «da annoverarsi tra i modelli più perfetti di questa cultura fine e socievole» (Lezioni sulla storia della filosofia, La Nuova Italia, vol. 2, p. 52).
Ora, io non so se gli americani siano capaci di “raffinata urbanità” o di “intima universalità”, ma certo non si può dire che manchino loro gentilezza e socievolezza.
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