Quattro anni sono probabilmente pochi per fare i conti con il nazismo – laddove Heidegger, ad esempio, ne ebbe a disposizione una trentina, senza peraltro farli mai davvero. Un mio docente sosteneva che l’opposizione antinazista di Heidegger stesse tra le righe delle sue lezioni su Nietzsche dei tardi anni ’30, al che mi verrebbe da rispondere: bah! Heidegger era e rimane un nazista.
Richard Strauss (che morì nel 1949) era oltretutto un musicista, non un pensatore – per quanto fosse stato probabilmente, almeno negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, il più grande musicista vivente – ma non si era particolarmente compromesso col regime, ed anzi si era persino impuntato e aveva ottenuto una sorta di dispensa direttamente dal Führer, a proposito della sua collaborazione con lo scrittore ebreo Stephan Zweig, il suo librettista preferito. Salvo poi comunque dovervi rinunciare e diventare un artista del Reich, volente o nolente (ad un certo punto venne nominato presidente della Reichsmusikkamer nazista).
Ecco perché in questi casi provo un certo imbarazzo (ne avevo parlato a suo tempo, a proposito di alcuni fascistissimi poeti), anche se in verità l’imbarazzo (o meglio, la vergogna) dovrebbero essere dell’artista – ma chi è morto non può più provare alcunché. Di solito se ne esce distogliendo lo sguardo dall’autore e dalla sua accidentata biografia, fatta (come per tutti) di luci e di ombre, e ci si concentra solo sull’opera, come se si fosse fatta da sola e come se si stagliasse limpida, al netto delle scorie e delle sozzure della storia (sia individuale che collettiva). Ma si può fare davvero?
Sì e no. No, perché la storia (e l’etica) bruciano a lungo, e talvolta si riattizzano anche sotto gli strati di terra induriti dal tempo. Sì perché l’opera non è mai solo roba sua, ma nostra.
E allora mi piace immaginare questo vecchio signore bavarese, dopo i fasti di mezzo secolo, e la tempesta attraversata nell’ultimo decennio (quando già il suo genio si era comunque affievolito, e chissà, magari era questa la sua inconscia opposizione all’orrore nazista), affacciarsi alla finestra, leggere al chiarore tenue del crepuscolo alcune poesie di Hermann Hesse – che trova affini ad una poesia di Joseph von Eichendorff (poeta romantico tedesco amato anche da Schumann) – e rimanerne così impressionato da mettersi subito al pianoforte, nonostante l’indolenza degli anni, così da scrivere quattro Lieder tra i più belli e struggenti del secolo (i cosiddetti Vier letzte Lieder):
L’estate rabbrividendo
s’avvia in silenzio verso la fine.
A foglia a foglia l’oro cade
a terra, dall’alto albero d’acacia.
[…]
Ora il giorno mi ha spossato
ed allora il mio ardente desiderio
è di accogliere con gioia la notte stellata
Siamo giunti così al tramonto (Im Abendrot, che è il titolo dell’ultimo Lied, quello tratto da Eichendorff). La coppia di allodole si leva in volo sognante per l’ultima volta nell’aria profumata. Il vecchio Richard chiude gli occhi e – spossato dal suo lungo vagabondare – si commiata da tutto e da tutti. Il suo ultimo canto perdura:
O immensa e silente pace!
così profonda nel rosseggiante tramonto…
– e la voce del soprano giunge cristallina fino a noi, qui e ora. E Adolf Hitler è cenere inerte, per sempre alle nostre spalle.
***
[non a caso ho scelto un quadro di Van Gogh: non solo per l’allodola, ma in qualità di tipico rappresentante dell’arte degenerata che i nazisti avrebbero voluto ridurre in cenere, come avrebbero poi fatto con milioni di umani: spero a tal proposito che i folli Bücherverbrennungen e le manifestazioni dedicate all’entartete Kunst abbiano provocato al buon Strauss per lo meno dei forti bruciori di stomaco]
Io sono un’ignorantissima, non solo perché la mia formazione è stata prettamente tecnico scientifica ma anche perché nonostante abbia letto tantissimo ho un handicap mnemonico per cui non sono in grado di fare citazioni o riferimenti, mi resta dentro solo il succo del discorso.
La premessa era per dire che non argomenterò in maniera dotta come spesso succede in questo blog.
Ma la domanda implicita/esplicita se si può fare davvero mi ha toccato.
Insomma è lecito accettare opere pregevoli se l’autore non prende netta posizione nei confronti del male quale esso sia?
Senza fare nomi, una volta discussi con una mia amica su di un autore famoso che scriveva sotto l’effetto della droga producendo opere mirabili. Io sarò bacchettona ma se uno ha bisogno di alterarsi per produrre non lo reputo valido e faccio volentieri a meno delle sue fantastiche opere.
Ma se ci sono di mezzo la pelle, le botte e la tortura forse è comprensibilmente umano, se non si ha possibilità di andarsene per i più disparati motivi, che ci si adatti a vivere con il male ritagliandosi al meglio uno spazio di vita.
Marta
cara Marta, non mi pare affatto che tu non abbia argomentato bene il tuo pensiero, cogliendo “il succo del discorso” (poco importa che sia dotto e forbito o meno).
Ho solo una perplessità sull’accostare il “male” (com’è ad esempio quello apicale della shoah) a cose come il drogarsi, che certo bene non fa, ma in linea di massima non fa male agli altri.
Sul “salvarsi la pelle” la questione è piuttosto bruciante, soprattutto perché è fin troppo facile concionare sulle debolezze o gli errori altrui, quando non è la propria pelle ad essere in gioco, e non si è in prima persona a dover fare una scelta radicale. C’è però chi l’ha fatta, chi ha scelto una pericolosa e rischiosissima libertà, dunque è possibile farlo.
Ieri sera, dopo un concerto sulla memoria, ho incontrato un partigiano novantenne (uno degli ultimi) della Repubblica dell’Ossola, che è venuto a “ringraziarmi” per quelle canzoni antimilitariste – “lei ringrazia me?”, gli ho risposto balbettando, mentre mi stringeva le mani come fossero tenaglie.
Ecco, lui la scelta – durissima e rischiosissima – l’ha fatta, una volta per tutte.
C’è una spinta interiore che muove (che ha mosso) pochi (in %) indomiti eroi a ribellarsi ma non è da tutti, altrimenti nessun despota andrebbe mai al potere. La natura umana è prevalentemente da gregge per quieto vivere dentro il proprio giardinetto. C’è poi un attaccamento alla vita cui pochi hanno voglia di rinunciare in nome di principi per il bene di tutti oltre che di sé stessi.
Per quanto riguarda il “male” era solo un esempio attribuendo alla parola ciò che viene considerato negativo per l’uomo. Non ho studiato filosofia quindi le mie sono considerazioni da profana come pure l’uso dei termini.
I partigiani mi commuovono sempre e mi chiedo se i pochi ancora in vita sentano la puzza di bruciato che avanza dove il lassismo è scambiato per libertà e dove la democrazia è finita da un pezzo.
Il male (violenza gratuita, disprezzo del “diverso”, anche se visibilmente “uguale”) è in natura, è dentro di noi. Connota il biologico e, quindi, l’umano. Nessuno può dire: io sono irriducibilmente altro. Il nazismo ci appartiene, come specie, obtorto collo. La lotta contro l’ideologia nazional-socialista è una lotta con la parte peggiore di noi stessi. Nessuno può esorcizzare Caino, nostro fratello di latte.
@ Carlo
Chissà se è proprio del tutto così, Carlo. Se cioé il male é in natura e, come tu dici, dentro di noi. E soprattutto se i parametri che ne identificano il suo riconoscimento siano sempre chiari o immutabili nel tempo: ciò che ci schifa oggi, un’ottantina di anni fa per molti era il possibile inizio di un’avvenire prospero e felice, ben lontano dalle conseguenze nefaste che si sarebbero riversate su milioni di altri umani inermi, a loro volta giudicati “il male” da combattere e da estirpare.
@xavier
Il Male è un fenomeno percepito ed elaborato dall’ideologia di ogni aggregazione sociale. Il suo profilo evolve nel tempo. Il mio discorso era circoscritto alla dimensione psicologica. Chi odia Caino, teme il Caino che dimora tra le pieghe della sua psiche.
@ Carlo
E’ senz’altro vero quel che tu dici, ma non é, anche, che la dimensione psicologica individuale e quella sociale del male siano molto più intrecciate fra loro di quanto non si creda?
@xavier
La struttura psicologica individuale si forma e si determina nelle relazioni interpersonali, La variabile indipendente è la società in cui ognuno di noi trova dimora. Ma poi ogni individuo reagisce a suo modo e così si creano le varie personalità. In condizioni di necessità il “male” relativo diviene uno strumento soggettivo/inter-soggettivo che consente a noi di difenderci dall’ambiente circostante, se vissuto come pericoloso.
Stavo riflettendo come soprattutto in momenti di crisi ci sia nell’uomo la tendenza, che può essere urgenza, impulso generato dalla paura, a semplificare spiegazioni e visioni del mondo.
“Ideologie” come il nazismo altro non sono che il frutto bacato di emozioni esclusivamente viscerali scarsamente o per nulla rielaborate, che s’incarnano ipso fatto in un sentimento di odio, e che provengono dal primo istinto di sopravvivenza, quello legato all’emozione della paura. Perché la paura ha bisogno di trovare un capro espiatorio su cui scaricarsi. Questo meccanismo di reazione adattativa accade sia in piccoli gruppi di due o poche persone, che nel corpo sociale esteso.
Ma ricordo anche gli esperimenti di Laborit sui ratti in condizione di stress: due ratti chiusi in gabbia dalla quale non potevano fuggire, sottoposti a scariche elettriche, cominciavano a lottare fra loro.
Ciò significherebbe che quando il contatto con l’ambiente è pericoloso, se non fa piacere, se è doloroso, o cominciate a fuggire oppure, se non potete fuggire combattete, vale a dire vi orientate verso l’ambiente per distruggere l’oggetto del vostro risentimento.
E in genere si trova sempre qualcuno sul quale scaricare il risentimento. Se è così, se questo accade anche all’uomo, e non solo ai ratti, la possibilità che in condizioni di stress sopraggiugano ed abbiano la meglio reazioni di quel tipo, è sempre possibile.
Quindi non so, ma forse bisognerebbe cercare di sconfiggere il malessere, più che il “male”.
Ossia concentrare gli sforzi per eliminare le cause che potrebbero provocare il manifestarsi del male.
Ovviamente questa è solo una delle possibili spiegazioni che stanno dietro a certi comportamenti “umani” e rispettivi sentimenti di odio. È un’ipotesi che senza essere espertissima in materia mi sembra anche intuitivamente ragionevole e plausibile.
Il fatto è che da quando la signora Montalcini ci ha lasciato, ho cominciato a leggere qualcosa di più sui meccanismi delle emozioni eccetera, e questo sta facendo impallidire qualsiasi precedente ipotesi su concetti quale male e bene – se in larga misura siamo determinati dalle reazioni emotive del corpo-mente.
Può darsi che io abbia scoperto l’acqua calda, e che conoscete queste cose meglio di me. Quindi mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, e cosa si sa di “abbastanza certo”.
@rozmilla
Il malessere favorisce l’aggressività. Vero, a livello biologico (corpo-mente). Contrastare il “male” (percepito) nel sociale (con le leggi) è utile per impedire il caos, per consentire una convivenza accettabile. Altrimenti: homo homini lupus (nazismo). Sotto traccia nell’uomo/donna sono radicate, comunque, pulsioni che possono sempre manifestarsi in misura eclatante, se viene accesa la miccia dello stato di pericolo.
Quando il “diverso” con la sua presenza ti provoca, scatta il fenomeno “Caino” ed allora sono dolori!
Io, guardandomi allo specchio, riesco a scorgerlo e non nego mai la sua presenza. Il “biologico” è il fattore che limita ogni comportamento razionale. Siamo, purtroppo, “agiti” dalla “pancia” ed è questa la ragione principale per cui questo paese sta implodendo (Siamo in buona compagnia, ovviamente).
@ Carlo
Quindi mentre le società possono creare i lupi, questi possono a loro volta condizionarne il percorso, sopprattutto allorchè alcune pulsioni “biologiche” collettive prevalgono su ogni altro tipo di analisi razionale. E’ la paura, quindi, quella “miccia dello stato di pericolo”, di cui parli, ed é lei, di conseguenza, il potenziale soggetto regolatore di ogni comportamento umano? E, preso atto di questo, altro non si può?
@ Carlo
Mi scuso per il probabile eccessivo schematismo, ma non sono convinto che lo scarto tra i cosiddetti comportamenti individuali (personali) e quelli collettivi (pubblici) sia così ampio da non poter essere quasi mai coincidente,
@xavier
Non ti scusare, l’importante è intendersi.
Sono gli “uomini-lupo”, che aggregandosi, danno forma alle società, rinunciando in parte alla loro “lupitudine”. Poi il pelo riprende a crescere e si organizzano in sotto-gruppi di interessi elitari (lupeschi), contrapponendosi agli interessi generali (giustizia , bene-comune). Ed è qui che si instaura la coincidenza di cui parli.
I singoli (in gruppi ristretti) tendono a distinguersi nel bene (agnelli) e nel male (lupi), mentre la “pancia” inconsapevole accomuna i “molti” che “non sanno quello che fanno”.
@ Carlo
Pur essendo uno scettico “naturale” ho la pretesa di credere nella capacità umana di liberarsi dalle proprie catene, certo in tempi lunghissimi e attraverso percorsi ben più ardui di quelli di Mosè, ma so anche purtroppo che tutto questo al momento non é né razionale, né forse granché intelligente. Intanto speriamo che i poveri lupi e gli impacciati agnelli non ci abbiano ascoltato.
@Xavier
La “pretesa di credere” necessita di fondamenti su cui fare leva. Sfuggono a me come a te tutti i parametri che giocano sullo scacchiere del reale. I “tempi lunghissimi” non si conciliano con le urgenze del presente. Essere “scettici” non basta. Occorre essere “realisti”. Cioè consapevoli che il formicaio umano, vincolato dal biologico e dalle risorse assai scarse, tenta di progettare un “futuro” che non c’è. Per il tempo che ci è dato cerchiamo di limitare i danni nel nostro orticello. L’entropia (disordine) è l’unica legge che sembra ormai prevalere. Mi auguro di non assistere all’implosione del mondo degli umani-lupi-lemuri.
@ Carlo
Quadretto devastante, quasi il richiamo ad un “si salvi chi può” in Titanic-style, che tuttavia non condivido. E non certamente per eccesso di ottimismo: il mio essere scettico si riferiva proprio a questo, il non essere cioé dalla parte di una speranza a tutti i costi e a una fiducia senza limiti nel trionfo finale del bene: non é un film della Disney. Però, se essere realisti é importante, essere più realisti del re può essere letale, poichè comporta una resa anticipata davanti ad un “nessun altro futuro possibile” che, se così fosse, toglierebbe ogni senso anche al presente. Non mi importa di limitare i danni del mio orticello oggi: in nome di che cosa, di un “salviamo il salvabile”, di un disperante “life is now”, o di un “al domani pensino quelli che verranno”, se verranno, naturalmente? I tempi saranno lunghissimi per una sola ragione: perché un pressoché incontrastato sistema di dominio ormai esteso a tutto il pianeta, sta dettando i modi i tempi e i luoghi attraverso cui imporre la propria supremazia sul futuro. E di conseguenza su ogni sistema sociale fino ad ora conosciuto. Che tutto questo possa comportare nel suo tragitto dio solo sa che tipo di sconquassi, é cosa già evidente da una ventina d’anni, ma siamo solo agli inizi. Così come, sia pure in ritardo (sempre e purtroppo, maledizione!), si può ancora una volta resistere.
“sistema di dominio ormai esteso a tutto il pianeta”
@Xavier
“Comporta una resa anticipata davanti ad un “nessun altro futuro possibile” che, se così fosse, toglierebbe ogni senso anche al presente.”
Dopo molti “sconquassi” forse qualcuno si salverà ma il prezzo sarà talmente alto che non possiamo, oggi, neppure immaginarlo.
La vita, caro xavier, al di fuori del nostro orticello, non ha molto senso. I cosiddetti “valori” sono solo “auto-illusioni”.
Ci resta solo l’imperativo: male non fare, paura non avere.
…forza e onore!!!
@ Carlo
Dipende da cosa si intende per orticello, caro Carlo, poichè per alcuni esso non é che la somma di tutti gli orticelli sottratti agli altri, e per raggiungere questo scopo e tutto ciò che ne consegue, di imperativi ne trovano quanti ne vogliono. E questo non mi sta bene, o meglio, non mi fa stare bene voltare la testa dall’altra parte, non mi riesce “naturale”, che vuoi farci, “valori” o no, anche se ora son vecchio e malandato, non mi piacciono i prepotenti, non sopporto le ingiustizie, non so tacere quando “sarebbe il caso” (?), e anche se tutto questo non migliorerà di un grammo né il resto della mia poca vita, né quella di chi ha avuto o avrà il caso di incontrarmi, preferisco così che far finta di niente o al massimo, a “catastrofe” avvenuta, uscirmene con un “io l’avevo previsto, ma ero al bar”.
@xavier
L’orticello è, banalmente , tutto ciò che è alla nostra portata (alla mano). Ciò su cui abbiamo voce in capitolo e su cui possiamo esercitare una qualche influenza. Il perimetro dell’orticello è, quindi, molto “ristretto”. Lo stato d’animo per cui non riusciamo a “sopportare” le ingiustizie è, in linea di principio, lodevole, ma danneggia solo il nostro umore senza arrecare vantaggio alcuno ai malcapitati su cui focalizziamo il nostro pensiero. Il “tutto” è più grande di noi, singoli individui, Dobbiamo prenderne atto. Anche l’aggregazione di più persone che si prefiggevano di cambiare il mondo ha determinato, nella storia, sciagure inenarrabili. L’equilibrio, faticosamente raggiunto, su certe questioni collettive, non riesce mai a consolidarsi nel tempo e l’imprevisto è sempre dietro l’angolo, con l’effetto “gambero”: passi indietro. Quando le variabili da controllare sono praticamente infinite, i progetti imbastiti inesorabilmente fanno naufragio. Cosa potrebbe invertire questa tendenza? iniettare nel cervello di ogni individuo (6/7 miliardi) una mole talmente vasta di conoscenze scientifiche e umanistiche, da far sì che l’umanità, alla richiesta di salvaguardare la dignità e il bene comune, potesse rispondere all’unisono: “ho capito, procediamo hic et nunc.” Ma questa, come tu ben sai, è pura fantascienza. Quindi: niente bar, ma una ragionevole modestia di intenti, finché morte non ci separi.
@ Carlo:
«La vita al di fuori del nostro orticello, non ha molto senso». Questa attitudine post-monodiana confligge con la tua metodica volontà di [ultima] parola. Se ritieni che nulla abbia senso più della biologia che ci in-forma consegnati al silenzio. La fonazione [a maggior ragione la scrittura] è una attività surrettizia.
@Luca
Dentro al mio orticello (privato), trovo interlocutori disponibili. E questo mi basta. La tua esortazione al “silenzio” mi lascia del tutto indifferente.
@ Carlo
Non mi pare di aver espresso altri che una “ragionevole modestia di intenti”, senza alcuna pretesa di salvare il mondo: il termine “resistere” non può certo travalicare i limiti del suo significato. In quanto al resto, ognuno decida pure il perimetro del proprio mondo come meglio crede, di certo, però, non esiste alcun muro di cinta che, al momento critico, gli garantisca alcuna immunità o protezione da chi vorrà entrarci con o senza il diritto di poterlo fare.
@ Carlo:
È al di fuori del «tuo orticello» che sentenzi la «vita non abbia alcun senso». E poiché mi considero al di fuori del «tuo orticello» mi sento chiamato a rispondere di questa insensatezza che menzioni con malcelato piacere. In secondo ed ultimo luogo il blog che ci ospita non mi risulta essere né il «tuo orticello» né, tantomeno, «privato».
Pardon caro Luca, non voglio prendere le difese di nessuno ma, a me sembra che anche Carlo abbia il diritto di esprimere il suo pensiero come chiunque altro. Non mi pare abbia intenzione di imporlo come verità assoluta.
Poi, secondo me, o almeno è così che io l’ho intesa, quando parla del suo orticello, credo intenda dire che ognuno può davvero agire solo negli ambiti che è riuscito a (diciamo) conquistare nella sua esistenza. Ad esempio, se qualcuno è un insegnante potrà darsi da fare per insegnare ed educare eccetera. Così in altri ambiti e situazioni, ognuno cercando di fare del proprio meglio. Se ci si riesce. E a volta le condizioni sono difficili, e non è detto che si riesca sempre.
Forse Carlo è un po’ pessimista, ma non mi sembra un disfattista né un nichilista.
Poi, cosa ne sai che lui provi un “malcelato piacere” nel dire ciò che dice? Perché non potrebbe dirlo con dispiacere? Come dire, “purtroppo è così”. Ad esempio io lo interpreto nel secondo modo.
In ogni caso, sempre secondo me, ognuno dà alla vita il senso che vuole, può o riesce a darle.
Non so, in certi momenti si cerca di cercare “il” senso della vita, in altri si arriva a pensare che non ne ha alcuno, a meno che non glielo diamo noi.
@Rozmilla
Ti ringrazio per la tua sensibilità.Come al solito mi togli le parole di bocca. Il femminile che tu esprimi sa guardare lontano, oltre il confronto/scontro che il maschile propone instancabilmente (coazione a ripetere). La questione ovviamente ha a che fare con il biologico e quindi con la violenza che è insita nell’azione del maschio che cerca di perpetuare il proprio dna.
A presto
@Luca
L’ “orticello” non è questo Blog, dove io sono solo “ospite saltuario”.
Per il resto il tuo giudizio su di me pecca (etimologicamente: non coglie il bersaglio), come ha ben illustrato Rozmilla.
Ti auguro, comunque, un buon 2013.
@ Rozmilla
La sensatezza (non il buon senso) delle donne mi commuove e mi rinfranca sempre: ha la capacità di riportarmi con piedi per terra, allorché corro il rischio di risultare nulla più che un “onesto” sputasentenze. Grazie Rozmilla per avere almeno in parte mitigato le spigolosità del piccolo dibattito in corso fornendomi qualche elemento in più di riflessione. Tra noi maschi si corre sempre il rischio di fare i galletti. Temo sempre che il famoso “orticello” finisca col rappresentare una sorta di barriera verso il mondo e alla fine possa indurre ad una indifferenza pericolosa, che, fra l’altro, non mette nessuno al sicuro da nulla. Milioni di donne e di uomini sono state le vittime preferite di questa trappola mortale. Per questo mi inquieto e rischio di uscire dalle righe. L’Ormelli, più colto e forbito nell’eloquio, starnazza meno e va’ più dritto al nocciolo filosofico.
@ Rozmilla,
certamente il signor Carlo ha facoltà di «esprimere il suo pensiero come chiunque altro». Ma il suo ritenere che nulla abbia senso eccetto la nostra sfera di prossimità è quanto di più remissivo ed al contempo egocentrico sia dato registrare. Perché dovrebbe avere senso il sostenere che “in generale e per lo più” [come dovrebbe premettere sempre uno scettico ben armato di scetticismo] nulla ha senso? Perché la sua ragione deittica [del suo essere, cioè, Carlo qui e ora] dovrebbe valere come fondamento intangibile al suo stesso scetticismo [che chiamerei rassegnazione] a dispetto di se stessa? Se nulla ha senso non può aver senso neppure il corroborare “sensatamente” tale affermazione. E’ caratteristico dell’estremismo scettico quello di non dubitare mai del medesimo sostrato cognitivo che formula una tale complessiva architettura di infondatezza.
Da ultimo, cara Rozmilla: mi trovi in disaccordo quando scrivi che Carlo «non mi pare abbia intenzione di imporlo come verità assoluta». Rileggiti i suoi interventi. Tutti.
Io mi sono semplicemente posto come antitesi [certamente senza invito] alla pretesa, certa, insensatezza dell’universo-mondo perorata dal signor Carlo con l’ossessività di un mantra. Sul «malcelato piacere» posso transigere. Niente più che una sensazione. Ma, cara Rozmilla, che differenza può fare il mio percetto in un mondo sovranamente indifferente?
@ Carlo:
la/ti ringrazio dell’augurio che ricambio. Il mio invito al silenzio non era coortativo nei suoi/tuoi riguardi ma una [così almeno penso] necessaria conseguenza della sua/tua logica. Il sapere invece che anche lo scettico più ferreo ancora si batte con le parole per di-mostrare ad altri l’insensatezza del tutto mi suggerisce che non tutto è, propriamente, senza senso.
@ xavier:
Non ritengo d’esser né più colto né più forbito della media dei frequentatori di questo blog. Forse più diretto. E di questo la/ti ringrazio. Perché la schiettezza, in materia di idee, mi sembra meritevole di rispetto.
Ho seguito la vostra discussione, e l’ho trovata interessante. Ho espresso più volte la mia opinione in merito al riduzionismo biologico, e non sto qui a ripetermi. Ed ammiro anche lo sforzo di trovare punti di contatto, di superare le incomprensioni (che pure accadono in ogni tipo di discussione, sia essa virtuale o reale), e di andare al di là della logica dello scontro – per quanto il “pòlemos” sia pur sempre il sale della filosofia (e, sempre secondo un’ottica “naturalistica”, della vita medesima). Forse bisognerebbe ogni volta dichiarare preventivamente da quale punto di vista si parla, su quale piano ci si intende mettere, quale significato attribuiamo a determinati concetti, ecc., operazione che renderebbe il dibattito alquanto farraginoso – anche se in verità i componenti della “community” che si è costituita attorno a questo blog (e non solo) un po’ si sono annusati, se non proprio conosciuti, tanto per usare ancora biometafore.
Per quanto concerne poi quella faccenda del “malcelato piacere” (che anch’io non intendo attribuire a Carlo, così come mi sforzo di non attribuire nulla a nessuno, se non nei limiti di quanto scrive), mi è tuttavia venuta in mente quell’intuizione di Lukacs (filosofo militante, che usava l’accetta, non certo il cesello), a proposito degli apocalittici-pessimisti (sul genere Schopenhauer, per intenderci), il cui pensiero non è forse alieno da una certa posa o gusto, socialmente e storicamente determinati. Insomma: esiste anche una vera e propria “estetica” del cupio dissolvi.
Ci ho pensato di recente a proposito del film di Von Trier “Melancholia”, al quale vorrei però dedicare un post, che ci darà magari occasione di approfondire la questione.
(il mio commento si è incrociato con quello di Luca Ormelli, che dunque ho letto solo dopo; le sue argomentazioni a proposito dello scetticismo mi pare aggiungano altro materiale interessante di riflessione)
Ciao Xavier
Non ho fondamenti, non amo l’egocentrismo, le mie sono solo riflessioni in punta dei piedi. Non mi “batto” per alcunchè. Il “cupio dissolvi” lo lascio ai depressi e agli eroi (bella morte dannunziana). Sono un corpo che vive nel mondo fisico. Un attributo del mio corpo è l’attività cognitiva, che è emersa “temporibus illis”, per ragioni contingenti.
il “pòlemos” non è il sale della della mia visione (minimalista) dell’orticello. Non mi “riduco” al biologico, in quanto mi ritengo da sempre biologico al 100%.
Se uno crede, in compagnia del buon Platone, che il “suo pensiero” sia “altro” rispetto al corpo che abita ovvero che sia un ente astratto (io, anima, mente, ecc.) che trascende la fisicità della natura, allora io dichiaro a lui; davanti al tribunale della storia (con la “s” minuscola): “non mi oppongo vostro onore!”. Gli “starnazzi” da cortile, come dice Xavier, mi sono estranei, come, del resto, i “noccioli filosofici” (spesso vanno di traverso).
Non voglio corroborare “sensatamente” nulla. Vivo, come posso e basta. E spero che nessuno per questo si proponga di mettermi in croce. Anche perchè, pur volendo, non potrei, purtroppo, resuscitare.
vedi Carlo, il problema è che l’idealista (Platone o chi per lui) finisce per averla sempre vinta, per lo meno da un punto di vista epistemologico, poiché dichiarare di “essere solo corpo” è, appunto, un’idea-un concetto-un’idea (per cantarla con Gaber), tanto quanto dichiarare di essere qualcosa di più di un corpo, ed è anzi difficile concepire qualcosa di più ideologico e di meno universale ed oggettivo della “natura” (temo esistano tante nature quante sono state le culture comparse finora, per non parlare di filosofi, scienziati, preti e ideologi vari). Così come ciascuno ha il proprio corpo – o meglio la propria idea di corpo. L’alternativa secca (ma richiederebbe un impossibile ritorno pre-umano o pre-tecnologico o pre-non-so-bene-cosa) sarebbe quella di limitarsi a vivere la propria fisicità-corporeità, che dunque non sarebbero nemmeno nominabili o identificabili. Dunque (sempre idealisticamente) nemmanco esisterebbero, né in quanto enti astratti né in quanto enti concreti. Perché non ci sarebbero “enti”, ma qualcosa che non viene né nominato, né discusso, né affermato e nemmeno negato.
Dopo di che non è che le idee stiano in un altro mondo, esse sono tutte di questo mondo, tangibilissimo ed immanentissimo. Si può benissimo essere idealisti (e filosofi) senza per forza credere nell’iperuranio o nella necessità dello spirito.
(Decisamente istruttiva, oltre che piacevole, a tal proposito, la lettura della “Storia di un corpo” di Pennac).
@Luca: se dovevo essere schiettissima, devi sapere che la prima cosa a cui avevo pensato è stata …
la carta vetrata: ce ne sono di tanti tipi, alcune servono a togliere la ruggine, altre a lisciare il legno.
Ma, direi che oltre alla facoltà di esprimere il proprio pensiero, io tengo conto anche della difficoltà di esprimere esattamente il proprio pensiero, per cui cerco di interpretarlo con una certa flessibilità e complessivamente mi pare che il pensiero di Carlo sia abbastanza noto – come dice Mario, ci siamo annusati già da qualche tempo – ; quindi per lo stesso motivo non mi sembra necessario sospettare che lui proponga il suo pensiero come un assoluto. E spero che questo possa valere per tutti noi, almeno di questo piccolo gruppo di frequentatori più o meno assidui, anche se non stiamo a ribadirlo ogni qualvolta.
Comunque ho provato a rileggermi gli interventi, e tra l’altro ho letto che Carlo scrive che non basta essere scettici ma sarebbe meglio essere realisti. Mentre è Xavier che dice di se stesso di essere uno scettico “naturale” (come ha sempre sostenuto del resto).
Mentre non sono riuscita a trovare dove Carlo ha scritto che la vita non avrebbe senso.
Ma, sempre rileggendo ciò che ha scritto, si potrebbe dire che il “senso” della vita in generale, ossia per questa nostra umanità errante (e non tanto per i nostri destini particolari), pare che secondo Carlo sia fortemente condizionato dagli istinti che limitano l’uso delle facoltà razionali – anche se ciò non toglie che sia individualmente che collettivamente non si tenti e non si abbia sempre più o meno tentato di farne uso. Soltanto che pare che l’uomo sia bravissimo a fare un pessimo uso anche delle facoltà razionali (come di quasi tutto).
[Uno dei problemi più gravi, a mio avviso, è che “salendo nella scala degli ordini di apprendimento entriamo in regioni di modellazione sempre più astratte, dove i fini e le motivazioni sono inabissate ai livelli neurologici e psicologici, e quindi sempre meno accessibili al controllo consapevole” (Bateson, citato a braccio). ]
E aggiungo di mio che anche lanciando uno sguardo a 360° sulla storia dell’umanità, è difficile dire che l’umanità ne esca molto bene, o dire con leggerezza che, visto come ha sempre proceduto, abbia qualche possibilità di modificare il suo percorso, ossia il suo modo di essere nonché modus operandi.
Quale miracolo dovrebbe accadere per fare in modo che questo succeda? Perché l’uomo dovrebbe diventare all’improvviso migliore di ciò che ha sempre dimostrato di essere? Dammi una motivazione, un appiglio, e sarò felice di afferrarlo.
Nel corso della commemorazione della giornata della memoria, sono andata a rileggermi l’elenco dei genocidi che sono avvenuti nel corso della storia. Prova a darci un’occhiata, in Wikipedia, alla voce genocidio. E ovviamente non sono nemmeno tutti. Ad esempio mi pare che nella lista sia stato omesso il genocidio degli irlandesi da parte di Cromwell, e non saprei dire di quali e quanti altri non abbiamo conservato memoria storica.
Ma prima di Carlo, mi pare che anche fior fior di filosofi (Sini, Schiavone e Severino, anche se in modi diversi) ci abbiano informato di come l’umanità non potrà proseguire per molto di questo passo; e che svariati scienziati abbiano già abbondantemente tentato di metterci in guardia sul fatto che ad esempio le risorse, più o meno breve termine, non potranno bastare per tutti. E non credo sia dovuto soltanto ad un malcelato gusto per il catastrofismo se in tanti da più parti ci avvertono che stiamo distruggendo le possibilità della vita su questa terra.
Detto questo, ritengo che sia meglio renderci conto che (come umanità) siamo un pessimo soggetto;
ma che sapere che siamo portatori di un male congenito, è un male minore rispetto ad illudersi di essere dei candidi angioletti. Mentre se lo sai “magari” hai qualche possibilità in più di prevenirlo.
Anche perché come umanità abbiamo anche dimostrato (ad esempio nei confronti di Hitler) di essere più portati ad illuderci piuttosto di capire fino a che punto le cose avrebbero potuto mettersi tanto peggio.
Mi rendo conto che il discorso è vastissimo, per cui ci sono alcune cose che mi sembra di condividere con Carlo, per quello che mi sembra di capire dei suoi interventi, mentre per tutto il resto non so dire.
Un saluto.
Una bella matassa, piena di colori, composta dai filati più diversi, tra loro non sempre in cromatica armonia, ma nell’insieme un bell’effetto. Questo é quel che mi piace di questo blog, dove, a parte qualche piccolo inciampo che ha anche fatto “audience”, le opinioni non hanno mai pretesa di verità, ma aiutano, eccome, a guardare un po’ più in là del proprio naso. Le differenze non devono costiture un ostacolo, così come non è necessario raggiungere intese a tutti i costi, e se qualche volta il livello é “troppo” alto, c’é posto anche per chi ne riequilibra gli eventuali eccessi teorici.
@ Luca Ormelli
Non me ne voglia, carissimo, ma a volte mi scatta l’irrefrenabile sindrome fantozziana che tende a incensare il primo che passa, così, per il gusto di farlo. Questa volta è toccato a Lei, ma ce ne sarà per tutti. Invecchiando ci si divide in due categorie: quelli che mandano a cagare tutti, e quelli che ammirano sfacciatamente chicchesia, così, ad esempio, si spiega in parte la smisurata ammirazione di buona fetta degli italiani per un venditore di tappeti.
@ Carlo
Nessuna critica, a ognuno le sue scelte. Le nostre sono profondamente diverse e ce lo siamo spiegato.
Grazie a tutti!
…sullo scetticismo: lo scetticismo degli scettici non è scetticismo assoluto che si autocontraddice, come tanti usano dire, senza capire, ma è rivolto solo contro il dogmatismo metafisico (contro i dogmatici) Non dubita delle cose del mondo, dubita, delle immani architetture “platoniche” “o severiniane” o quant’altre.
Su queste esso dice: mi astengo.
@ filosofiazzero:
amico mio, non c’è dogmatico più perentorio di chi vuol essere anti-dogmatico.
E’ sul dubbio stesso, quando metodico, che si dovrebbe dubitare. Su tutto ciò che resta non posso che concordare con quanto hai scritto: mi astengo.
@ rozmilla:
non mi è chiaro il tuo riferimento alla “carta vetrata”. Puoi spiegarmi meglio per cortesia? Grazie.
@ Carlo:
condivido pienamente quando scrivi: «Vivo, come posso e basta. E spero che nessuno per questo si proponga di mettermi in croce». Ma non mi spiego perché mai, in questo cosmo sovranamente indifferente, vorresti «resuscitare».
Luca Ormelli:
…no, non sono d’accordo, (io che sono sempre d’accordo con tutti, Severino escluso!), c’è diverse gradazioni di antidogmatismo.Stavo pensando a Montaigne, e specialmente a Hume e al suo scetticismo moderato. “Non si può insegnare un nuovo gioco al vecchio maestro!” (Keruac)
@Luca:
Sì, certo. La carta vetrata è l’immagine che mi è balenata come un flash, e che probabilmente allude a qualcosa che io percepisco come ruvido, ruvidino o ruvidone, con varie sfumature di ruvidità. E comunque è solo una mia percezione, quindi niente di eclatante e a cui dare troppa importanza.
Però, “la carta vetrata può rivelarsi molto utile, ma solo se si utilizza il grado di ruvidità idoneo al supporto da trattare. Ad esempio: se si usa quella fine sul ferro sarà un lavoro del tutto inutile; mentre se utilizziamo quella molto ruvida sul legno è evidente che rovineremo la superficie e più che inutile l’esito sarà dannoso.”
[dal Manuale del giovane restauratore, ed. Il Gradiente]
@Md
Volendo comunicare, qualunque cosa si predichi, questa, tu dici, è un concetto. Bene, ne abbiamo già discusso e non è il caso di ri-badire. Io saltuariamente e per un tempo limitato, riesco a vivere la mia fisicità-corporeità in silenzio e con la mente sgombra da pensieri. Questa esperienza mi ha insegnato che il pensiero/parola non connota totalmente l’umano e che il mio io (coscienza) appartiene al corpo che abito. Vigile, nel silenzio, ascolto il battito del cuore e mi commuovo. Sento e sono felice di sentire, mentre il pensiero formale mi sembra lo scheletro di una nave che staziona nell’abisso, in un vuoto di senso che mi raggela. Bisognerebbe rivalutare la poesia come chiave che apre lo scrigno della conoscenza, lasciando le idee/concetti al loro destino (precario).
@Luca
“vorresti «resuscitare». Era solo una battuta.
@Rozmilla
Quando ho “difficoltà ad esprimere esattamente il mio pensiero”, mi fermo e ascolto qualche brano di musica classica. Avvolto nel mio corpo. Buon tramonto (colorato).
@Carlo: sul rivalutare la poesia sfondi una porta aperta, questo blog se ne è sempre occupato, così come ha sempre inteso ribadire la forma plurale e non gerarchica delle conoscenze, la stratificazione dell’umano e l’urgenza di superare tutte le sue scissioni. Quel che non mi convince del tuo discorso – come già ho detto più volte – è il riduzionismo biologico (così come ogni forma di riduzionismo, compreso quello ontologico).
Sul pensiero-scheletro non saprei – però senza scheletro non stiamo in piedi (c’è una bella pagina sullo scheletro nel libro di Pennac).
E non è che i filosofi siano privi di corpo, anzi il loro corpo si riverbera non poco nelle loro opere (a tal proposito sarebbe interessante avviare una ricerca).
Sulla precarietà, beh forse proprio le idee/concetti (e le parole di cui pure son fatte le poesie) sono il tentativo più riuscito di lasciare segni e di rendere meno precario il nostro passaggio su questo pianeta.
Sulla musica infine: ho sempre avvicinato l’argomentare filosofico alla musica classica, in particolare a quella sinfonica. Per me “La Scienza della logica” è pura musica sinfonica, il sorgere di qualcosa dal silenzio, e il compiersi di qualcosa (che si vorrebbe maestoso) nel silenzio da cui era sorto – ma de gustibus…
non ho poi questa preoccupazione di svuotare la mente e di ritrovare il corpo – preferisco lasciare che mente e corpo giochino all’interno di quel tutt’uno che già da sempre sono e mi costituiscono: ho spesso pensieri sanguigni e piedi leggiadri
“riduzionismo biologico”
Ti riporto un estratto di un rapporto sullo stato dell’ambiente naturale.
“Il metodo riduzionista nasce dall’esigenza reale di semplificare, scomporre e analizzare la realtà complessa, riducendola in ciò che è più semplice, nelle sue componenti essenziali. Le parziali conoscenze acquisite attraverso questo metodo non sono però sufficienti a spiegare ogni aspetto dell’insieme scomposto: non sempre, partendo da alcuni elementi, attraverso una costruzione razionale, matematica, si possono far derivare tutte le successive proprietà. In altri termini, quando ad un sistema complesso si attribuisce, senza adeguate verifiche, la somma delle proprietà che derivano dalla conoscenza delle parti che lo compongono, questa operazione diventa un errore metodologico, spesso conseguente ad una scelta ideologica: quella riduzionista. La biologia, la neurobiologia o la psicologia – discipline che si occupano specificatamente di sistemi complessi – hanno messo in luce come, nella complessità di tali sistemi, costituiti da parti più semplici che interagiscono tra loro, vi siano proprietà emergenti” – Riduzionismo biologico e determinismo genetico di Gianni Tamino
Da qui parto. Parto dall’uomo, nella sua interezza (non scomposto con il metodo riduzionista) e sintetizzo la mia ipotesi: il pensiero umano, per quanto sofisticato possa essere, è una “qualità emergente” nei processi evolutivi delle strutture biologiche. Non una parola di più, né una parola di meno.
“senza scheletro non stiamo in piedi” solo da un punto di vista fisico …, mentre le strutture teoriche (della mente) sono solo paradigmi contingenti, de-strutturabili da nuove produzioni formali. Anche la “Scienza della logica” …
“non ho poi questa preoccupazione di svuotare la mente e di ritrovare il corpo”
Io, se possibile, ancor meno. Mi alleno solo perché ne ricavo una piacevole sensazione di benessere. Chi (non sto parlando di te) non vuole abbandonarsi alle sensazioni del corpo (che definirei: mentalismo; banalmente: rigidità mentale) probabilmente teme di perdere il controllo e, quindi, di divenire un ente in-difeso, di essere in pericolo (cifra che richiama la sopravvivenza della specie).
“preferisco lasciare che mente e corpo giochino all’interno di quel tutt’uno che già da sempre sono e mi costituiscono: ho spesso pensieri sanguigni e piedi leggiadri”
“Mente e corpo giocano” da sempre senza il tuo benestare pre-ventivo (cosciente). I pensieri “sanguigni” puzzano lontano un miglio di Biologia (che tu metti alla porta, ma che; malandrina, rientra dalla finestra).
In quanto ai piedi, per quanto leggiadri, mi auguro, per te, che non abbiano una qualche attinenza con le elaborazioni filosofiche (battutaccia!).
beh certo, il termine “sanguigni” non era stato scelto a caso;
ma – appunto – il tuo partire da lì, né una parola di più né una di meno, è un partire da una teoria, non da un corpo, semplicemente perché non possiamo fare altro, e sarà eventualmente un’altra teoria – non certo un corpo – a contraddirla
Sulla faccenda del corpo o non corpo, io direi prima di tutto che senza questo corpo, senza questo essermi incarnata, non sarebbe iniziata per me alcuna avventura in questo mondo, questo mondo in cui vivo e respiro e penso eccetera eccetera nelle modalità in cui questo accade. Idem per ognuno che vive. Il corpo è la base.
In seguito, non credo esista una attività, modalità o funzione che valga più di un’altra, ma che piuttosto le funzioni siano interdipendenti. Perciò trovo difficile negare che le cose sono anche come crediamo e pensiamo che siano, ed è per questo che l’effetto dei nostri pensieri non è indifferente sulle modalità delle nostre percezioni. Ma anche che, d’altra parte, l’effetto di ciò che i nostri corpi percepiscono non è indifferente su ciò che diciamo di sentire e quindi sul formarsi e l’evolversi dei nostri pensieri. Non so come si può definire questa cosa – forse retroazione?
Ma certo questo è il campo delle neuroscienze, mentre la filosofia si occupa (mi pare) delle teorie.
E d’altra parte è una teoria quando diciamo che siamo fortemente condizionati dalle funzioni prettamente fisiche, come del resto da ciò che chiamiamo mente (anche se so che alcuni scienziati negano la mente perché non ha corpo, ossia peso, estensione, bensì tutti i processi mentali non sarebbero altro che scambi elettrochimici).
Riconsiderando il tema del post, mi verrebbe da dire che se però avessimo sviluppato una cultura di maggior rispetto anche per i corpi altrui, forse certi orrori non sarebbero accaduti, o avrebbero potuto essere arginati.
In questo senso credo che quello che noi crediamo, ossia la cultura che costruiamo, ha di sicuro la capacità di influire e modificare anche il nostro modo di essere e fare.
Il guaio è che una cultura davvero “umanistica” fa fatica ad affermarsi, ma anzi mi capita di osservare, e temere, che stiamo prendendo una brutta china.
Può essere che alcuni siano molto colti e alcuni molto più sensibili, ma se cultura e sensibilità non sono anch’essi beni distribuiti equamente, quello che conta e pesa alla fin fine non sono i singoli o rari colti ed estremamente sensibili, ma la moltitudine.
Rozmilla, è curioso che tu abbia utilizzato l’espressione “senza questo essermi incarnata”…
“Il corpo è la base” è un’espressione che condivido, intuitivamente ed anche teoreticamente (sono un materialista, marxista, epicureo, innanzitutto) – ma occorrerebbe sempre avere l’accortezza di non assolutizzarla, poiché assomiglia pericolosamente ad un ab-solutus. Cioè non è che “il corpo è la base” sia meno ontologica e fondamentalista di “alla base c’è l’anima che s’incarna e che poi sopravvive al corpo”… O per lo meno c’è anche questo modo di utilizzarla (che è quel che definisco “riduzionismo”).
condivido poi pienamente l’ultima parte del tuo commento, credo che cosa ben più importante sia quel che facciamo con i nostri corpi, dei corpi ed ai corpi altrui
@Md
Io non predico:”Ho un corpo o il corpo “è la base”, ma nella “quiete” dei pensieri (privato di ogni predicabilità, dis-abilitato al pensiero), “sento” il mio corpo e le sue pulsioni. Come accade ad ogni ente biologico. Ovviamente queste due righe scritte, possibili grazie alla mia complessità neurale, mi consentono di comunicare questo “fatto”. Teorizzare è un “fenomeno” del cervello umano.
In effetti non è un modo di dire come un altro, parrebbe una reminiscenza del catechismo. Ma volevo solo dire che senza un corpo fisico io non ci sarei stata proprio in nessun modo, né psichico né altro. Vale a dire, io sono perché prima di tutto sono nata. E quando non ci sarà più il mio corpo non ci sarò più nemmeno io.
La Montalcini, ad esempio, sosteneva l’opposto. In un’intervista diceva che il corpo non è importante, ma è la mente ad essere importante. E aggiungeva, più o meno, quando il mio corpo non ci sarà più, rimarrà la mia mente. Ora questo andrebbe capito, perché secondo me se non c’è più il suo corpo non c’è più nemmeno la sua mente viva, attiva, elaborante. Ma certamente restano i prodotti della sua mente, i suoi pensieri, ciò che ha elaborato, se vogliamo i suoi libri, nel senso dei contenuti dei suoi libri e il suo pensiero. Ed eventualmente anche le azioni che ha compiuto col suo corpo-mente sopravviveranno più del suo corpo soltanto. E in questo senso, se intendiamo l’anima come psyché, si potrebbe ammettere che qualcosa dell’anima, ossia i suoi prodotti, possono sopravvivere al corpo. Come anche possiamo riprodurci in senso fisico. Non a caso la riproduzione è intesa come un modo per perpetuarsi.
Inoltre tutti noi vivendo mettiamo in moto “cose”, fatti eventi che si intrecciano gli uni agli altri, e a quelli degli altri.
Ovviamente non facciamo più la differenza fra corpo e mente, ma è un tutt’uno inestricabile, inseparabile.
Ma non solo. Avevo letto anni fa tutte le varie ipotesi dei filosofi della mente (ora non sono in grado di andarle a ripescare), ma ricordo che l’ipotesi che trovavo più interessante era quella della mente estesa. Nel senso che la mente non si ferma entro i confini del corpo. La mente viaggia, migra, e non siamo dentro il nostro corpo come dentro uno scafandro ermetico. Dentro e fuori sono definizioni troppo drastiche per non essere false.
Forse di assoluto c’è questo groviglio al quale è impossibile dare un nome. Meglio non dire. Non è un problema di definizioni. Meglio fermarsi prima di rompersi i denti.
“Chacun expérimente sa propre conscience comme un absolu. Comment plusieurs absolus seraient-ils compatibles? C’est aussi mystérieux que la vie ou que la mort. C’est même un tel problème que toutes les philosophies s’y cassent les dents.” (Simone de Beauvoir)
molto interessante, rozmilla; e questa faccenda della “mente estesa” – che piace molto anche a me – mi richiama alla mente l’idea aristotelico-averroista di “intelletto attivo”.
C’è poi il corpo sociale, su cui occorrerebbe aprire un altro ordine di ragionamenti…
…e il corpo morto!