Die Welt ist tief,
und tiefer als der Tag gedacht
(F. Nietzsche)
La rappresentazione della totalità è un antico sogno, e non solo delle filosofie o delle religioni. La filosofia greca nasce evocando il tutto, e cercando di individuarne senso ed origine. E, tutto sommato, da lì non si è più mossa nei successivi 2500 anni. Anche le religioni, con la geniale e consolatoria invenzione di dio, evocano un ente sommo che riconduca a sé tutte le cose, altrimenti frante, irrelate ed incomprensibili.
Tuttavia è evidente come il tutto o la totalità (che, tra l’altro, sono concetti con sfumature semantiche diverse) non siano mai esperibili, se non in termini di immaginazione (che è base ineludibile dell’astrazione). Il tutto non si presenta mai qui e ora – poiché è ovunque e sempre. È insomma uno di quei concetti-limite soggetti ai continui alambicchi e rovelli della ragione (un po’ come il nulla, l’essere, il tempo, il divenire), su cui da sempre si discute e, presumo, sempre si discuterà in maniera pressoché inconcludente.
C’è però una modalità di accedere al tutto che trovo interessante e forse più soddisfacente di quella speculativa: le sue elaborazioni ed espressioni estetiche. Mahler è certo uno di quei musicisti che aveva ben chiaro il progetto, perseguito lungo tutta la sua vita, di dare alla propria musica (che in verità non è mai “propria”) tale respiro universale e totalizzante. E se c’è una sua opera che tenta di assurgere alla dimensione di opera-totale, quella è propria l’immensa Terza Sinfonia – non a caso la più lunga della sua produzione. Una sinfonia che si propone di rappresentare la natura nella sua totalità – nientemeno!
L’opera d’arte – specie laddove aspira a rappresentazioni totali, come in questo caso – ha il vantaggio di delimitare l’illimitato, se così si può dire, di trarre determinazioni dall’indeterminato-smisurato: così come il paesaggio pittorico è una de-limitazione della natura, cui però viene conferito un sentimento di fusione con essa, e dunque molto vicino alla totalità, allo stesso modo le sinfonie mahleriane, nella loro compiutezza temporale evocano sentimenti di comunanza col tutto, che altrimenti non sarebbero esperibili.
Io posso pensare il tutto, ma in questo pensare non sento un bel niente – mentre altra cosa è avvertirne la presenza (è l’esperienza che il filosofo tedesco Georg Simmel definisce Stimmung nelle sue riflessioni sul paesaggio – termine complesso da tradurre in lingua italiana, che raccoglie in sé il sentire in termini di una comune atmosfera spirituale).
Mi verrebbe a questo punto la tentazione di avvicinare tale forma cognitiva al terzo grado di conoscenza individuato da Spinoza: quell’intuizione intellettuale (amor Dei intellectualis) che è un più-che-sentire, la completa metamorfosi della ragione in passione.
Certo, la natura spinozista (Deus sive natura) non è già più quella evocata da Mahler nella Terza sinfonia – una natura che è qui piuttosto conflittuale, contraddittoria, spesso grottesca e deforme (Mahler infila sempre nelle sue sinfonie una qualche danza macabra), ma, pur con le dovute differenze, il progetto sonoro totalizzante ci apre una porta tanto sui suoi orridi quanto sulle sue celestiali bellezze. E ci dice: noi siamo quello!
Noi siamo [I] la potenza dell’inizio – materia bruta, danza bacchica, perenne mutare di forme (qui fa capolino Goethe);
noi siamo [II] la svagatezza e l’eleganza dei fiori di campo;
noi siamo [III] la varietà caotica ed organizzata del mondo animale – ma anche la sua ferocia;
noi siamo [IV] diurni e notturni (O Mensch! Gib Acht! – sta attento, uomo! intona il Contralto, cantando alcune frasi tratte dallo Zarathustra nietzscheano);
noi siamo [V] fanciulleschi cori angelici e [VI] esseri destinati all’amore divino ed universale;
ma noi siamo anche infinito struggimento – è questo, io credo, il senso ultimo e profondo dell’immenso adagio conclusivo.
Il divenire organicistico (ben poco darwiniano) che Mahler parrebbe mettere in scena in questa sinfonia – al di là del suo fastidio per la musica a programma – è però piuttosto affetto da circolarità e da interno dinamismo dialettico. La sua è sì una visione spiritualistica, che si pone nel solco che da Goethe arriverà poi a Bergson (dalla materia emerge lo spirito), ma non tutto è così chiaro e lineare: la pesantezza della materia da cui sgorga la vita, plasticamente rappresentata nel primo poderoso movimento (quasi una sinfonia a se stante), ritorna con i suoni densi e squassanti dei corni, dei tromboni e della sezione ritmica anche alla fine: persino al culmine del sentimento amoroso, e della trasfigurazione divina di ogni cosa, l’ombra dell’inizio, della materia, dell’inerzia (e se si vuole della morte) fa capolino. O Mensch! Gib Acht! Sei fatto per la gioia e per il dolore; sei un essere ancipite, frammisto di tenebre e di luce. E poi, non ti illudere, polvere eri…
Il fatto poi che l’ascolto – specie dal vivo – della musica di Mahler, scuota non solo l’animo, ma anche il corpo, mi porta a pensare che siamo di fronte ad un coinvolgimento totale, che riesce a raggiungere le fibre più intime e profonde del nostro essere – che però è il medesimo essere, la medesima sostanza di cui ogni cosa è fatta. Natura sono io che ascolto, natura è questa musica che ci avvolge, natura è la scattante ed appassionata direttrice d’orchestra con tutti i musicisti e i coristi all’unisono (quasi 200!), così come natura son tutte le cose – le infime e le altissime (o che a noi così paiono).
E natura è questa lacrima ghiacciata, che per un’ora e quaranta è rimasta appesa al mio occhio, e che in quell’istante fugace che separa il ritorno del suono nel silenzio da cui era sorto dall’esplodere dell’applauso, può finalmente sgorgare e rigarmi e bruciarmi il volto.
bellissima trasparenza di un suono interiore cristallizzato.
ti prendo la musica…
ciao Mario 🙂