La peste di Tadzio

tadzio

Chi volesse cimentarsi in una sorta di “esperienza estetica totale”, potrebbe ad esempio passare un’intera giornata in compagnia di un precipitato artistico che nel Novecento ha avuto pochi eguali: cominciare al mattino leggendo La morte a Venezia di Thomas Mann; ascoltare – possibilmente dal vivo – la Quinta Sinfonia di Mahler (con particolare attenzione al celebre Adagietto), ed infine compiere l’opera con la visione del film di Luchino Visconti Morte a Venezia (se non ricordo male l’omissione dell’articolo non fu casuale). Se poi al malcapitato fruitore dovesse restare tempo, potrebbe anche provare a dare un occhio al melodramma di Britten – ma credo che già così la sopportazione estetico-percettiva avrebbe raggiunto il livello di guardia. E quella che si annunciava come una straordinaria esperienza estetica volgerebbe ben presto in un asfittico incubo estetizzante.
(Un mio amico filosofo, a tal proposito, soleva dire che, insieme a psicologismo e narcisismo, l’estetismo è uno dei grandi mali che affliggono la nostra epoca – e tutti e tre questi -ismi confluiscono nel male più grande di tutti, che è poi il solito nichilismo. Io non so se avesse ragione, ma certo di alcune morbose manifestazioni socioantropologiche occorre tener conto).
Naturalmente questa “esperienza estetica totale” cui occorrerebbe dedicare un’intera giornata, senza distrazione alcuna, finisce per essere assolutamente non spontanea, programmata e decisa a tavolino com’è. Fruizione sinestetica di opere e contemporanea autoosservazione: era questo il progetto che qualche settimana fa ero ben deciso a realizzare in una domenica di aprile, ma qualcosa è andato storto, e le tre esperienze si sono frantumate e distribuite su un arco temporale più ampio, che ha fatto fallire l’esperimento. Forse la preferenza per una passeggiata, o la tiepida ed invocata aria primaverile che mi ha distratto, oppure il sopraggiungere di altri pensieri – insomma l’indigestione estetica è stata alla fine sventata.
Ma rileggendo il racconto di Thomas Mann, e riguardandone con calma la versione cinematografica di Visconti (molto fedele, almeno nell’intenzione estetica e filosofica), la mia attenzione si è vieppiù spostata dal tema della bellezza (incarnata da Tadzio, che oltretutto Visconti aveva a lungo ricercato in un celebre e documentato viaggio), a quello della morte o, per la precisione, dello spirito mefitico che aleggia tra quelle pagine e visioni: tanto che il colera che si va diffondendo a Venezia durante la permanenza di Gustav von Aschenbach, finisce per diventare il tema dominante.
Certo, gli ideali di arte e bellezza; la missione dell’artista (il celebrato scrittore del racconto di Mann, che diventa il rarefatto ed ossessionato musicista nel film di Visconti – figura che allude, già nel nome, chiaramente a Mahler); i riferimenti all’ascesa erotico-conoscitiva di Platone (con citazioni dal Fedone) e al problema del rapporto tra sensibilità e spiritualità; il desiderio, reso esplosivo e però insoddisfacibile dalla sua manifestazione omoerotica; la vita, l’amore e la morte – tutto questo ha un peso essenziale in tali opere, ma questa volta, più di altre, quel che vi ho sentito maggiormente è stato l’alitare impalpabile della peste (influenzato forse dalla recente lettura della Metafisica della peste di Sergio Givone, che pur non dedicando un capitolo – che invece sarebbe stato doveroso – a La morte a Venezia, lo cita però in una nota in apertura del saggio).
Una peste che all’inizio è solo una leggera vertigine, una sensazione di vuoto, ma che via via prende le fattezze di una malattia spirituale, di una contaminazione dell’anima che si manifesta visivamente in alcune maschere deformi  che compaiono nel corso del viaggio dell’artista verso la decadenza (oltretutto siamo a Venezia) – il grande artista che vorrebbe fermare il tempo e che, non essendo certo di averlo saputo fare con la propria arte (o trovando ciò piuttosto insapore ed incolore e ben poco vitale), giunge al gesto grottesco di farsi tingere i capelli e coprire le rughe, diventando a sua volta una maschera. E persino il volto meraviglioso ed innocente dell’adorato Tadzio finisce per diventare una maschera, specie in quel gesto simbolico sulla battigia, inutilmente e plasticamente messo in scena per un Aschenbach morente, quell’indicare un punto del cielo all’orizzonte, “nell’immensità promessa”, che finisce per svelare l’intimo significato della peste e della malattia spirituale: il nulla.
Che è poi la medesima frantumazione del suono che, dopo lo struggente abbandono evocato dall’Adagietto della Quinta Sinfonia, conclude la parabola mahleriana nell’azzurra ed impalpabile trasparenza del finale della Nona Sinfonia. Pura melancholìa dissolutoria.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

16 pensieri riguardo “La peste di Tadzio”

  1. se pensiamo all’estetica come al risultato di un processo degenerativo o generativo sbagliamo, nulla di più lontano dalla verità. L’estitca è, l’estitca non diviene. Ogni dolore, ogni patimento ogni angoscia è, non diviene, per questo l’intimo significato della peste non è il nulla.

  2. anche io sono d’accordo sul fatto che chi ama l’estetica non ha nulla a che fare con il nichilismo, proprio perchè ama la vita e ama l’estensione del bello.
    mi è molto piaciuta l’analisi del romanzo Morte a venezia, ho letto il libro e lo ritengo uno dei capolavori di Mann…è riuscito a creare un’atmosfera a tratti straziante in un giusto contesto.
    ha colto le sfumature delle personalità, i dialoghi stimolanti, gli sguardi.
    tutto questo lo trovo molto lontano dal nichilismo.

  3. il fatto è Carla, che qui MD all’apparenza mostra di esserne d’accordo, ma quando scrive “E persino il volto meraviglioso ed innocente dell’adorato Tadzio finisce per diventare una maschera, specie in quel gesto simbolico sulla battigia, inutilmente e plasticamente messo in scena per un Aschenbach morente, quell’indicare un punto del cielo all’orizzonte, “nell’immensità promessa”, che finisce per svelare l’intimo significato della peste e della malattia spirituale: il nulla.” ecco, qui MD mostra il proprio vero volto nichilista, poiché la peste che disvela l’intimo significato, cioè il nulla, intende propriamente appunto che “la peste è il nulla”.

    E in conclusione con questo bellissimo finale… “Che è poi la medesima frantumazione del suono…” evoca appunto l’assoluta differenza delle cose dal loro significare , il mondo frantumato appunto , che non avendo alcun vincolo fra le sue parti, fra oggetto e significare dell’oggetto, in conclusione è nulla. Nichilismo appunto.

  4. alla fine è tutto relativo alle nostre impressioni, al nostro vissuto, e al nostro umore…è difficile definire una cosa cosi: indefinibile
    come può essere la complessità di un’intuizione.
    non esiste un giudizio assoluto, perchè è l’assoluto che ti frega.

  5. :-)))
    non è che fai lo strizzacervelli per mestiere?
    tutte le cose sono il tutto, logico, ognuna a suo modo FORMANO il tutto. Per avere una visione ampia e integrale delle cose è necessaria l’esperienza e una buona dose di …chiamiamolo adattamento ma non so, non è facile trovare una parola sola che esprima una completezza.
    ad ogni modo non si arriverà mai a conoscere il tutto
    da ciò si può dedurre che il tempo è infinito…come lo spazio e come l’universo.

  6. Il tutto è ogni cosa che vediamo e se prendi una mucca il tutto è la mucca e se prendi e la mucca e le sue corna, il tutto è la mucca con le sue corna, ecc.,. Impossibile ti sarà il conoscere tutte le cose che la mucca è. Il tutto è l’identità, tutte le cose sono la diversità.impossibile conoscere la diversità, verità è conoscere il tutto.

  7. sono con te Carla. ma ascoltare è nuovamente un eterno e è quel “SE si…” che ha portato nella verità scompiglio, cioè quel “SE si..” ipotetico che oltre a farci davvero diversi ha portato il mondo nella sfera del dominio, sfera del dominio che è resa possibile se il mondo lo frantumiamo e “crediamo” ( con VOLONTA’) di poterlo dominare.
    Il mondo è il sacro e è inviolabile, noi crediamo di poterlo violare, ma infine e per l’eterno non ci riusciamo.

  8. allora rileggi quello che hai scritto, troppe vocali vicine, fanno attrito.
    e poi non venire a parlarmi di mondo, è un concetto troppo grande per stare in una pagina!
    la volontà è potere, ma sempre circoscritto all’umano, io aspiro a cose più alte…

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