Trovo quantomeno strana, e talvolta disdicevole, l’abitudine di alcuni editori italiani di tradurre (e tradire) il titolo di un testo di un’altra lingua, così da darne una presentazione in alcuni casi fuorviante. Se è vero che il titolo è un frammento del testo, allora non si capisce perché anziché Pollicina (Petite Poucette), il breve pamphlet di Michel Serres sulle nuove generazioni nativo-digitali sia stato tradotto Non è un mondo per vecchi, scimmiottando malamente il romanzo (poi film) di Cormac McCarthy.
Detto questo, il testo di Serres è una scorribanda alla velocità della luce (e in salsa francese) della rottura epocale che le nuove tecnologie digitali stanno generando nel mondo della cultura: cambio di paradigma dell’oggetto cognitivo, liberazione dei corpi dalle caverne del sapere, superamento dell’ordine concettuale (addirittura!), fine della dittatura della pagina e dell’ordine libresco, e così via.
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Mese: giugno 2013
Amletismi – 16
L’orizzontalità degli enti, dei viventi, e dunque degli umani, parrebbe esser garantita da un pensiero ontologico ferreo e stringente. Com’è che non ne consegue allora una altrettanto garantita ed universale orizzontalità etica, politica, sociale?
Umana natura onnilaterale
[Pubblico qui di seguito il mio contributo al saggio collettivo Corpo e rivoluzione: sulla filosofia di Luciano Parinetto, a cura di Manuele Bellini, edito da Mimesis nel 2012. Si tratta di una riflessione, a partire dall’opera e dal pensiero di Parinetto, sul concetto di natura umana in Marx, Spinoza, Rousseau e dintorni]
Natura umana e Ganzheit nell’opera di Luciano Parinetto
“Non occorre tornare all’età dell’oro,
occorre diventare oro.
A cominciare dal proprio corpo”.
(Faust e Marx)
1. Prologo extravagante
“Progetto infinito”: questa la caratterizzazione che Parinetto dà dell’essere umano, in quella meditazione estrema e finale in versi, a proposito del “montaggio” che caratterizza il fenomeno morte, intitolata Extravagante. Sorella morte. Una vera e propria summa del suo pensiero intorno al concetto di natura umana, concetto-progetto quant’altri mai: “Noi siamo, che gli diamo un nostro senso / nel progetto perpetuo che noi siamo”.
Bambini plastici al teatro filosofico
Sono ancora stordito dagli occhi spalancati di Giorgia mentre snocciola ragionamenti complessi sul rapporto tra tutto e intelligenza, o mentre tenta di stabilire una relazione tra l’apeiron di Anassimandro e l’atomismo; oppure dalla fronte corrucciata di Manuel che cerca le espressioni giuste per liberarsi dalla tempesta mentale da cui è assalito; o ancora dalla serietà di Aryuna, dai sorrisi esili di Loris, di Seba, di Stefano (che intervengono a raffica); dai dubbi limpidi di Lancine o dalle certezze interrogative di Lorenzo… e potrei continuare a lungo…
Il solito professorone Hegel insinuerebbe il sospetto di una conduzione surrettizia del dialogo, che è poi esattamente quel che pensa degli urbani e raffinati dialoghi platonici, dove i personaggi sono “figure plastiche della conversazione”, e dove addirittura “avviene come nell’interrogazione catechistica in cui le risposte sono già prescritte”. Eppure qui – al di là del fatto che sia la proposizione dei temi che la conduzione da parte mia sono chiare ed esplicite – non mi pare ci sia nulla di pre-scritto o pre-ordinato. Ogni volta le medesime teorie, parole e concetti fanno la loro comparsa sulla scena del teatro filosofico, ma ogni volta producono effetti diversi su quelle loro menti plastiche. Perché quel che conta, più delle teorie, delle parole e dei concetti, sono, appunto, le menti precoci pronte fin d’ora a discernere, a interpretare, ad accogliere o a rifiutare.
Rumore di fondo
«State a sentire. Gli ospedali pubblici delle grandi città dispongono di spazi in cui si rimane parcheggiati su sedie a rotelle o lettighe: sono lì per le urgenze; prima e dopo la risonanza magnetica o un’altra analisi; prima di essere operati, per l’anestesia, o dopo, per il risveglio… Si può aspettare lì da una a dieci ore. Scienziati, ricchi e potenti del mondo, non evitate questi luoghi in cui si viene a contatto con sofferenza, pietà, collera, angoscia, grida e lacrime, talvolta preghiere, esasperazione, suppliche di chi chiama invano o maledice chi non risponde, silenzio teso degli uni, sgomento degli altri, rassegnazione dei più, anche riconoscenza… Colui al quale non è mai capitato di mescolare la sua voce a questo concerto dissonante senza dubbio conosce la propria sofferenza, ma ignorerà sempre che cosa significa “noi soffriamo”, la comune lallazione emanata dall’anticamera della morte e delle cure, purgatorio intermedio in cui ciascuno teme e si augura una decisione del destino. Se vi ponete la domanda: che cos’è l’uomo?, attraverso questo vocìo date, sentite, capite la risposta. Prima di averlo ascoltato, anche un filosofo non è che uno sciocco.
Ecco il rumore di fondo e la voce umana che sovrastano i nostri discorsi e parlottii».
(Michel Serres, Non è un mondo per vecchi)
Verità minori
Già filosofi meno pretenziosi e umili come Lessing dichiaravano di accontentarsi di verità minori a fronte dell’Unica Verità Maggiore (e a Lessing mi ha fatto pensare l’apologo della compianta Franca Rame, narrato postumo dal suo compagno di una vita). L’Unica Verità Maggiore appare poi risibile, ma soprattutto inutile (come per sua natura non può non essere), accanto a verità minori – ma dovute e necessarie – quali quelle richieste da un corpo martoriato di un giovane concittadino che entra vivo ed esce morto dalle spire dello Stato. E la cui verità (sempre minore) esce ora di nuovo stritolata e negata dalla kafkiana Macchina della Giustizia.
Resta il fatto che l’immagine quantomai vera e vivida del volto tumefatto e devastato di Stefano Cucchi – che però non mi sono sentito di esporre – è lì ad interrogarci.
(In)utilità della filosofia
[Riporto la traccia del mio intervento all’ultimo incontro del Gruppo di discussione filosofica, presso la biblioteca di Rescaldina. I Lunedì filosofici riprenderanno in autunno]
“La filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale”.
“La nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo”.
Due frasi – una dal sapore popolaresco e canzonatorio, l’altra corrucciata dalla serietà hegeliana – che giungono ad una medesima conclusione: la filosofia come qualcosa di inutile, cioè privo di uno scopo determinato (non ha importanza qui il contenuto dello scopo; ciò che importa è che vi sia una finalizzazione dell’attività: faccio questo per ottenere quest’altro, purché mi sia utile, cioè vantaggioso, che mi apporti dei benefici – anche se poi esistono scopi reconditi, eterogenesi dei fini, beni che si rivelano mali, insomma una casistica esageratamente varia).
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