(d’estate la filosofia si immalinconisce, forse perché non sufficientemente temprata dai ghiacci della sistematica razionalità nordico-teutonica…)
Il 21 giugno mi trovavo a passeggiare e, avendo notato quanto la vegetazione si fosse infoltita e arricchita di forme e colori nel giro di poche settimane, ho provato a figurarmi una sorta di plenitudine della verditudine, un picco, un vertice, qualcosa che contenesse in sé il compimento, la perfezione, il momento apicale di tutto quel che avevo dinanzi agli occhi, subito dopo il quale comincia inesorabile il declino, lo sbiadire di quel verde brillante, il suo lento sbocconcellarsi ed infine l’apoptosi (similmente all’allungarsi delle giornate dovuto al raggiungimento del punto di declinazione massima del moto apparente del sole lungo l’eclittica, fenomeno noto come solstizio d’estate).
Immagino che le mie sensazioni fossero del tutto illusorie sul piano scientifico (forse un po’ meno dal punto di vista estetico), ma questi pensieri hanno richiamato alla memoria due episodi teoretici – se così si può dire – circa la modalità della percezione delle forme e del divenire.
Il primo è parecchio lontano nel tempo, risale addirittura ai primordi dei miei studi filosofici, durante il primo esame che diedi con Giovanni Piana (e del quale riparlerò presto a proposito di certi miei studi leibniziani): quel docente bizzarro e trasandato mi pose una questione che lì per lì non compresi pienamente, e che riguardava la gradazione percettiva; se non erro l’esempio che mi sottopose riguardava i colori, in particolare mi chiese di riflettere sulla nostra capacità di discernere i vari passaggi cromatici, fin dove essa potesse spingersi e fosse oggettiva, con quale acribia e precisione noi riusciamo a seguire gli ondeggiamenti del divenire naturale – provo qui a tradurre, ma ho in mente solo la faccia di Piana che mi pone la questione partendo da Hume e il mio tentennare, molto meno le sue parole e quel che provai a rispondergli.
L’altro pensiero è un po’ più chiaro e ravvicinato, anche se non sono ancora riuscito a ritrovare il passo che me lo aveva innescato (ma prima o poi ci riuscirò): quasi sicuramente si tratta di un testo di Laurenti su Eraclito, che rifletteva sulla concezione del divenire, in particolare sui passaggi degli opposti l’uno nell’altro. Esemplifico: qual è il momento preciso in cui il giorno diventa notte e la notte ridiventa giorno? Quando cessa la pace e comincia la guerra o viceversa? Questi snodi (un po’ come i gradienti dei passaggi percettivi da un colore all’altro, o come il picco plenitudinario da me ricercato nella vegetazione) sono in realtà più nostre rappresentazioni cartografiche della realtà di quanto non siano oggettive.
Potremmo in verità affermare che il giorno e la notte convivono perennemente in media res, e che noi percepiamo l’una solo perché è al grado massimo di visibilità mentre l’altra rimane sullo sfondo, ma entrambi gli opposti sono in perenne movimento. La luce che sorge con l’alba continua a crescere indefinitamente di chiarità, di intensità (di “realtà” potremmo dire), ma senza mai fissarsi, mentre le tenebre si ritirano ai margini (un po’ come l’odio empedocleo) pur rimanendo sempre sottotraccia, finché tornano sulla scena e si prendono finalmente il loro spazio, emarginando la luce (che però non sparisce mai, pena l’annichilimento della realtà). Per quanto concerne la pace e la guerra, poi, la compenetrazione è ancora più evidente (un amico filosofo sosteneva che la guerra “incombe” sempre, quasi a dire che la pace è solo ciò che ne maschera i preparativi).
Però quella faccenda del giorno e della notte, un po’ come la vegetazione e i colori, con quella loro plenitudine – l’attimo impercettibile, poiché sfuggente, di pienezza – che ha dunque in sé la contaminazione del divenir-altro, dell’autonegarsi, della contraddizione (ossessione per Severino, infinito godimento per Hegel) – ebbene mi danno parecchio da pensare. Da una parte l’esigenza di fissare i momenti apicali, netti, quasi dei punti fermi che ci impediscano di deragliare – l’essere che si staglia chiaro e nitido; dall’altra il tentativo di rendere plasticamente il fluire degli enti – il divenire, il succedersi cangiante delle proprietà e delle forme (l’immenso progetto goethiano).
Gli è che ci affanniamo a teorizzare, cartografare, catalogare… e poi, magari, ci sfugge proprio l’essenziale, quello che solo i matti o i poeti o i bambini talvolta colgono: la plenitudine e la con-fusione in e con essa – sentire prima ancora di comprendere.
Baciato dagli dèi è chi quelle forme possiede entrambe, e viverle gli è concesso nel modo più pieno, poiché sono le porte d’accesso a tutte le forme.
D’ estate ….. Forse i Greci filosofavano solo in inverno sui monti della Tessaglia? Fai bene a citare la morte programmata delle cellule o la declinazione massima in quanto nel mondo fisico sia animato che inanimato il divenire è la forma, rapido nella natura animata, lento in quella inanimata. Non esiste forma senza divenire se non come astrazione , spesso utilissima , come nelle carte geografiche o nelle svariate tassonomie , e i momenti apicali nel mondo fisico sono momenti come tutti gli altri.
Al di fuorii dell’astrazione una forma che non sia amorfa nel suo
continuo divenire ci farebbe inorridire ; il nostro cervello stesso è un
continuo divenire per adattarsi alla realtà con un incessante lavorio
di cui non siamo consci
scusa Franco, non ti ho nemmeno dato il benvenuto!
Chissà, forse quella certa tonalità malinconica di certi filosofi greci è dovuta proprio al caldo… se non ricordo male era stato Leibniz in qualche lettera a dire che si filosofa meglio al freddo: sarà per questo che pensava che il nostro rimane comunque il migliore dei mondi possibili?
“sentire prima ancora di comprendere”
il problema potrebbe consistere nel fatto che non sempre ciò che sentiamo è gradevole da sentire. E forse allora cerchiamo di comprenderlo, inquadrarlo, dare un senso anche a ciò che percepiamo come un controsenso, scovare delle ragioni nell’irragionevole, o inventarne di sana pianta..
Pensare pensare pensare, forse per soffocare e ammutolire ciò che sentiamo, senza riuscire a dare un nome ad ogni cosa nel mutamento, o fissarle con le parole, come le farfalle con gli spilli.
Ricordo di aver letto che gli antichi egizi avevano 37 nomi diversi per indicare quello che noi semplicemente chiamiamo cielo. Al confronto noi siamo a corto di parole, questo e poco ma sicuro… e tendiamo a semplificare sempre più, tagliando via complessità e ramificazioni. Fino al limite di nominare essere tutto ciò che è, e non essere ciò che gli si oppone. Un bel taglio netto e ci sentiamo più al sicuro.
D’alto canto sarebbe impossibile dare un nome all’ infinita gradazione di ogni colore, comprese le mescolanze e le sfumature.
Sappiamo però che ogni specie animale vede i colori in modo diverso a seconda della morfologia dell’occhio di cui è dotata. Alcuni animali non vedono affatto i colori: il mondo appare loro nella gamma delle tonalità di grigio. Ma anche le forme, le grandezze e le proporzioni appaiono loro in modo diverso.
…quanto a me (per esempio) psico-farmaci estivi, e non!
Interessante ke queste psicosofie siano state inaugurate con il seminatore di Vincent Van Ghog come immagine.. uno spargere di semi sotto un sole estivo cocente…ehehehehe