Il mio primo incontro con la filosofia avvenne, tra le altre cose, all’insegna di un pensiero forte, duro, militante – tanto più che all’epoca si stava diffondendo la moda del pensiero debole. Certo, avrei potuto incontrare il pensiero debole, anziché quello forte, ed esserne fatalmente attratto tanto quanto venni conquistato dall’hegelismo poderoso del mio primo maestro (o dall’ontologia di Emanuele Severino). Il caso, la psicologia o altro possono benissimo spiegare (o evitare di farlo, quindi in maniera a sua volta debole) tali propensioni – ma non è che importi molto, né a me né ai miei eventuali lettori, tanto più che fa caldo e si ha voglia di pensieri rinfrescanti.
Se però torno con la memoria ai miei vent’anni, quel che più mi affascina (e terrorizza) è il ricordo delle cene (spesso ebbre) durante le quali qualsiasi cosa poteva essere affrontata, proprio perché investita dalla potenza del concetto. Poco importava che vi fossero conoscenze empiriche, queste stavano senz’altro in secondo piano, bollate come particolarità non sempre interessanti. Anzi, venivano talvolta considerate addirittura degli impedimenti alla comprensione profonda della realtà, quasi che i fatti, per loro natura disordinati e frammentati, non sempre inquadrabili in un sistema coerente, fossero una realtà sbiadita e di secondo grado. Erano invece la teoria, il concetto, il pensiero – la filosofia come pensiero forte, anzi fortissimo – quel che doveva stare sempre in primo piano.
Ne ricordo parecchi di questi simposi ebbri e forti ad un tempo. Si parlava davvero di tutto: di Irlanda del Nord, di Pol Pot, di immagini, di comunicazione, di scuola, di Greci ed Illuministi, di Wojtyla, di linguaggio, di pensiero debole (appunto), di lotta, di militarismo e antimilitarismo, di simboli, di Khomeini, della tenerezza di Kant nei confronti del mondo, di rivoluzione (e come poteva mancare?), dell’attualità di Marx, ed anche della sua inattualità, di migranti, di indiani d’America, di Clint Eastwood, di libri (tanti, fiumi di libri e di parole), di marche di whisky, di eros, di scuola, di educazione, di giovani, di movimenti, di Arafat e di Palestina, di musica pop e di musica classica…
Ma la cosa straordinaria era che su ognuna di queste cose, anzi, magari su un solo aspetto o piega di essa, su un singolo concetto o una determinata parola, si aprivano discussioni interminabili, che duravano ore, e che si accendevano di furore, come se da quella discussione dovessero dipendere le sorti del cosmo.
Ne ricordo a tal proposito una, di queste discussioni surreali – s’era d’estate, in una Milano torrida nella seconda metà degli anni ’80 – che vedeva come protagonisti principali il mio mentore filosofico e la sua compagna insegnante, i quali dibattevano come indemoniati sulla differenza tra urlo e grido: la discussione si protrasse per due ore buone, ben al di là di ogni ragionevole confine sia semantico che temporale; la si poteva forse reggere perché impreziosita da raffinate disquisizioni antropologiche, che però si alternavano senza soluzione di continuità a rozzi nonché concretissimi esempi – quasi degli ululati, specie da parte del primate maschio – che venivano rovesciati sugli astanti, i quali eravamo poi io giovincello e la padrona di casa, una cara amica nonché prof proustiana, la quale guardava i due spaventata ed ammirata ad un tempo, mentre io guardavo lei che guardava loro che si guardavano attorno e discutevano e concionavano… anche se in realtà, l’unico vero sguardo rivelatore sarebbe stato quello lanciato sulle bottiglie, che si andavano vuotando a ritmo sostenuto e spargendo in maniera disordinata, nel bel mezzo della tavola imbandita…
mi piace,perchè mi ricorda i miei di vent’anni (1970) e le accese notturne discussioni e bevute, per cambiare il mondo; no, in realtà per liberarsene. Oggi “la Potenza ebbra del concetto” fa paura, alzare la voce per passione dell’idea è vissuto come un’aggressione personale, tutti se ne fregano del pensiero, basta star bene. E, come allora, ho il sentimento di essere una marziana tollerata se sta quieta. Meno male che leggere Severino ma aiuta a dimenticare la coda all’ufficio postale, le niaiserie della televisione e soprattutto i luoghi comuni detti senza pensare a cosa significhino: “bisogna vivere il più a lungo possibile”, “la vita è troppo corta…”. Ma cosa ci trovano di cosi’ appassionante, se non le idee?
com’è il libro. La lucina!
intrigante la copertina…
ciao Mario, goditi i boschi e le poche lucciole rimaste.
ciao Carla!
avevo parlato de La lucina qui:
https://mariodomina.wordpress.com/2013/07/11/psicosofie-estive-4-lombra-della-verditudine/
è un racconto magnifico e devastante al contempo
l’ho ordinato in biblioteca ieri …
(La strada di Cormac McCarthy è piaciuto molto anche a me!)
grazie per la segnalazione!
ciao Mario 🙂