La giornata comincia a letto con la quantificazione dell’urina fatta durante la notte, l’apposizione di Epinitril (un cerotto alla nitroglicerina, che ho scoperto essere un vasodilatatore) e il gioco dell’emissione e dell’immissione di aria dai polmoni catarrosi attraverso un puff dotato di una graziosa rotella rossa da far girare due volte fino a sentire un clic. Poi continua in cucina, dopo una breve passeggiata in corridoio con l’ausilio di un bastone, eseguendo nell’ordine: misurazione della pressione arteriosa e dei battiti cardiaci, rilevazione della glicemia, iniezione di insulina, assunzione di Lansoprazolo a scopo di protezione gastrica, colazione leggera, assunzione di 125 mg di furosemide (molecola che favorisce la diuresi) e Pritor (antiipertensivo).
Si tratta ora di attendere l’ora di pranzo, quando si ripeterà il rito dell’insulina e si provvederà, subito dopo il pasto, all’assunzione della cardiospirina atta a fluidificare il sangue – ma il cardiochirurgo dice che è pessima per le funzioni renali. Sonnellino pomeridiano di un paio d’ore e poi, alle 16 in punto, è l’ora di Norvasc, una pastiglia dal duplice effetto: agisce sulla pressione e ossigena il cuore.
Terzo controllo glicemico a cena, e, subito dopo, assunzione di Cardicor, la pastiglia bianchissima dal nome inequivocabile che vince la palma della piccolezza e che quasi sparisce nel palmo della mano prima di finire in bocca. Tentativo di posticipare il sonno con un film in prima serata (possibilmente western), che fallisce sempre dopo 5-10 minuti. Non più tardi delle 9.30 è già tornato a letto, e, guardando l’orologio, lamenta che la notte sarà lunghissima, e che non passerà mai (mentre una voce dall’altra stanza maledice l’orologio tirato fuori dal cassetto e perfettamente funzionante). Poco prima di coricarsi potrebbe esser necessario pungersi per la quarta volta un dito per rilevare la glicemia (mica che sia troppo bassa o alta), ricordarsi di togliere il cerotto dal petto e inspirare il puff tra i denti (o le labbra malferme, qualora la dentiera sia già stata riposta). Talvolta occorreranno dieci minuti di ossigeno, per facilitare la respirazione, che di notte appare faticosa: fame di aria, la chiama il medico (dispnea, con nome più tecnico ma meno chiaro). In verità la notte è il momento più difficile della giornata: paura del buio (come i bambini, tanto che certe volte vuole la lampada accesa), senso di soffocamento, dormiveglia, diuresi frequente… Ma mi è ben chiaro di che paura radicale si tratta.
Questa la giornata-tipo di mio padre, reduce da una insufficienza cardiaca che lo ha portato alle soglie della morte ai primi di agosto (“scompenso congestizio destro da cardiopatia ischemica complicato da fegato da stasi e insufficienza renale acuta oligo-anurica trattata con dialisi; vasculopatia carotidea e coronarica; diabete mellito in terapia insulinica” – questa la severissima diagnosi di dimissione ospedaliera): in una parola, il cuore non pompa più a sufficienza e il primario, per farmelo capire, mi stringe prima la mano con una presa decisa, per poi ridarmela mollemente, quasi facendola scivolare via: ecco, il cuore di suo padre pompa in questo modo. Per ora lo abbiamo riportato in vita (evoca la parola “miracolo”, ben poco scientifica), ed è come rinato e resuscitato, ma… fino a quando… chi può dirlo? Il medico di famiglia, sempre molto ottimista, evoca il termine “marasma” per definire la difficoltà di far quadrare i valori (i numeretti e le soglie che sintetizzano quantitativamente un organismo) e dunque di imboccare la via giusta per riportarli ad una accettabile normalità: tocchi lì e squilibri qui, aumenti laggiù e peggiori quassù, stabilizzi da un lato e sfasci dall’altro.
(Un caso molto interessante di conversione dialettica della quantità in qualità – ma ne siamo proprio sicuri?).
Certo, lo so bene, e del resto mi ero già informato sulla frazione di eiezione, e su tutta una serie di complicati nomi e faccende cardiache riassumibili nell’immagine di una macchina che può fermarsi da un momento all’altro per il venir meno della centrale elettrica (ma, di nuovo il cardiochirurgo, che è più ottimista del medico di famiglia, sostiene che si possa vivere bene anche con il 40% di FA).
Questo – fatto salvo il lato affettivo e di cura (che non coincide con “le cure”) – è un crudo referto clinico e la cruda registrazione della cruda condizione quotidiana di migliaia e migliaia di ammalati anziani affetti da malattie cardiovascolari, o simili, cui è stata allungata la vita di svariati anni dalla medicalizzazione diffusa e dalle stregonerie della tecnica. Avevo già descritto un paio di anni fa, attraverso la cronaca di un intervento e della riabilitazione seguitane, la declinazione personale di questa condizione generale. Ne riparlo qui per registrare una contraddizione che mi dà da pensare, nonostante la sua apparente ovvietà: una parte di mio padre reagisce con una straordinaria resistenza aggrappandosi alla vita e ad ogni filo che questa gli tende (artificiale o naturale che sia) in maniera irriflessa, oscura e silenziosa: quel che i medici definiscono talvolta “la fibra di un tempo”. Bios allo stato puro. Un’altra parte però – quella più minuscola ma lucidissima e cosciente – evoca di tanto in tanto l’arrivo di “una morte secca” – queste le parole esatte da lui utilizzate. “Se avessi le forze prenderei una corda e…”, questo è arrivato a dire qualche altra volta.
Ed io non so che cosa augurargli – né che cosa augurare al me stesso proiettato in una simile condizione, da qui a qualche anno.
(Mi consola il fatto che a distanza di un mese stia meglio, ha ripreso un poco di vigore e il marasma è alle spalle – senonché: il piano inclinato non è certo reversibile, il futuro appare quantomai incerto, e l’esito finale, prima o poi, com’è ovvio che sia, certissimo e implacabile. Però va bene così).
Caro amico, fatti animo, siamo tutti insieme con te!
caro filosofiazzero, balsamo sono le tue parole
Caro Mario, da qualche parte ho letto, di L: Pirandello, “se si guarda negli occhi un animale, tuti i sistemi filosfici del mondo crollano”. E’ ciò che provo ogni volta che in ospedale, dove faccio il volontario, incontro lo sguardo di un morente. Gli umani arrivano sempre in ritardo ad essere sé stessi fino in fondo. Ma forse anche queste son solo questioni di lana caprina, e la tecnica esige ben altro rispetto che non le capre! Con affetto.
concordo xavier, e grazie!
sembra che il titolo voglia compensare in qualche modo questo crudo risvolto reale che prende piede nella quotidianità di migliaia di persone…
l’uomo cerca sempre un equilibrio…
anche da parte mia una buona stretta di mano e tanta forza!
@carla
la poesia mi è giunta “lacustre e leggera come l’aria d’estate”
“I nostri cari siamo noi, e noi siamo i nostri cari.”
Portiamo loro appresso nonostante tutto, positivo o negativo.
Coraggio, “Sempre avanti” ricordi? Ovunque e comunque.
Certo LexMat, grazie!