La nostra ricognizione sui “chiaroscuri” dell’esistenza esordisce con l’opposizione inizio/fine – forse la più tipica coppia dialettica (insieme a nascita/morte, che anzi, per certi aspetti, la fonda): probabilmente se noi umani fossimo immortali non ci faremmo alcuna domanda sul senso della vita (e della morte), e dunque anche la questione del sorgere e del dissolversi delle cose e dei viventi non ci angoscerebbe granché.
Ho introdotto l’argomento giustapponendo tre pensatori molto distanti tra loro, sia in termini temporali che teorici, ma che proverò a far interagire: Anassimandro, Leibniz, Arendt.
I filosofi delle origini, che ricercavano l’arché, si posero il problema dell’inizio in un modo radicale e totalizzante, se è vero che arché è da intendere più correttamente con la ricerca dell’elemento che sostiene, sorregge, impera (l’esempio della parola archeologia, composto da archaios=antico è fuorviante, meglio archi-tettura, archi-trave o arcangelo, retti da archèin=comandare: ciò che è primo, quindi il primo costruttore, la prima trave, il primo angelo) – insomma la ricerca dell’arché si caratterizza come la ricerca della (prima) legge che regge le sorti del mondo e di tutti gli esseri: architrave e sorgente del tutto-natura, ovvero della physis.
Ed è proprio da uno dei primi filosofi che ricaviamo una tipica teoria “dialettica” volta a spiegarci l’origine (e la fine) di tutte le cose. Anassimandro, allievo di Talete e, con ogni probabilità, maestro o collega di Anassimene (i quali, com’è noto, avevano rispettivamente identificato l’arché nell’acqua e nell’aria), è forse il primo filosofo ad utilizzare, in un contesto fisico-scientifico qual è quello della scuola di Mileto, una categoria meta-fisica: l’àpeiron.
La parola àpeiron viene tradotta da alcuni studiosi con “infinito” (ciò che non ha confini, in quanto negativo di peras, ovvero limite, termine, confine, od anche cosa compiuta), ma è concettualmente preferibile tradurre con “indeterminato, informe, illimitato”. Ciò che non ha forma e definizione. La mia preferita è proprio in-forme.
È un concetto usato da diversi filosofi, ma che in Anassimandro assume un significato particolare, che ci viene reso dall’unico, peraltro celeberrimo, frammento che ci rimane dei suoi scritti:
«Principio degli esseri è l’àpeiron… da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo».
Avevo definito su questo blog quella di Anassimandro una “cosmologia crudele”, anche se “crudeltà” è una caratterizzazione più psicologica di quanto non sia filosofica, mentre qui occorrerebbe far valere la nuda oggettività, la constatazione di una legge eterna e necessaria, qual è quella che marchia ogni essere fin dal suo sorgere come pre-destinato alla distruzione e al tramonto. A ben vedere, il punto di vista di Anassimandro è quello della fine, più che dell’inizio: ogni essere, ogni ente, ogni vivente, proprio nel suo provvisorio sottrarsi all’informe, è destinato a pagare la sua occupazione di suolo dell’essere con il prezzo della dissoluzione. Quasi che la necessità non stesse nel suo sorgere quanto, soprattutto, nel suo tramontare.
D’altro canto, in Anassimandro echeggia anche l’orrore dei greci per l’informe e l’indeterminato: solo nelle forme compiute ci può essere bellezza e perfezione, per quanto caduche esse siano. L’àpeiron dispone con somma giustizia il limite, la misura delle cose – assumendosi in qualità di sfondo metafisico l’onere terribile dell’indeterminatezza e del caos, da cui ogni forma sorge e a cui, inesorabilmente, ritorna. Gli enti, le cose, gli esseri viventi – brillano il tempo di un battito di ciglia prima di essere risucchiati nella notte scura da cui provengono.
Facciamo ora un salto di 2000 anni. Analizzeremo brevemente una teoria, che ad alcuni può apparire bizzarra fin nel nome, di un filosofo del tardo ‘600: la monadologia di Leibniz. La useremo in modo un po’ arbitrario accostandola alla concezione “naturalistica” di Anassimandro, perché proprio nella “monade” – cioè in una sorta di forma compiuta che se si vuole è agli antipodi dell’àpeiron – viene intravvisto il significato più profondo della vita e di quella umana in particolare.
Monade è parola greca che viene da monas, mònos=uno, singolo, solo. Leibniz vede in questa “unità spirituale” o, se si vuole, “energetica”, un livello diverso della realtà che si sottrae alla dimensione fisico-naturale e al ciclo vita/morte, nascita/distruzione, spiegabile con semplici meccanismi di composizione/scomposizione.
La monade è un’anima, una mente, uno spirito – un centro di energia – che è ciò che caratterizza la vera essenza dell’universo, del mondo (realtà essenziale e invisibile che però necessità di un corpo). La monade sorge e tramonta “tutt’a un tratto”, dice Leibniz, per creazione o annientamento – qui è difficile determinare se si tratti di qualcosa di immortale o di eterno; occorrerebbe calarsi nel testo ed entrare nel laboratorio leibniziano, ma noi ci limiteremo ad estrapolare una frase dalla Monadologia:
«Io ho dunque pensato che se l’animale non ha mai un inizio naturale, non può avere neppure una fine naturale; e che non solo non ci sarà mai generazione, ma nemmeno distruzione assoluta, né morte intesa nel senso rigoroso del termine […]. Si può dunque affermare che non solamente l’anima (specchio di un universo indistruttibile) è indistruttibile, ma lo è anche l’animale stesso, sebbene la sua macchina spesso perisca in parte, e perda o prenda spoglie organiche». [Mon. 76-77]
Quel che possiamo ricavare dalla teoria di Leibniz a beneficio del nostro discorso, è che la vita umana – l’essenza specifica dell’essere umano – non è più concepita all’interno di un segmento fisico-naturale che si compie entro un ciclo di nascite/morti, ma fuoriesce da quei confini per un compito spirituale, etico, conoscitivo più alto (il molteplice rispecchiamento dell’universo, che diventa così una sorta di multiverso monadico). Che è poi quello della realizzazione della perfezione della monade – o, meglio, dell’avvicinamento progressivo a quella perfezione. Noi, insomma, non siamo fatti per nascere e morire, semplicemente, ma per conoscere e partecipare ad un livello della realtà diverso (se si vuole “superiore”) rispetto a quello fisico-naturale.
Infine, andiamo a vedere che cosa pensa in proposito una filosofa contemporanea: Hanna Arendt, nel suo libro Vita activa scrive una celebre pagina sul significato della nascita, che rovescia del tutto il punto di vista anassimandreo e quello della necessità naturale.
La Arendt riflette sul tema della “natalità” conferendogli un’importanza fondamentale. Se la nascita fosse solo una questione biologica o animale (come ad esempio vorrebbero Schopenhauer o il punto di vista scientifico più gretto e determinista), non varrebbe quasi la pena di parlarne. Arendt lega strettamente la natalità alla categoria umana di attività, intesa come il modo peculiare degli umani di essere umani, ben al di là del lavorare (soddisfazione dei bisogni primari) o del produrre (costituzione di un mondo durevole oltre i vincoli naturali). La vita activa è la vita politica nella sua accezione più alta, la libera determinazione di sé e del proprio mondo in relazione con altri, la sfera delle attività interpersonali, libere e disinteressate.
La natalità viene poi avvicinata ad altre categorie poco praticate dalla filosofia, e che ne chiariscono ulteriormente il significato ultimo: miracolo, promessa, fede, speranza. Si tratta di termini legati alla tradizione religiosa piuttosto che a quella politico-filosofica, ma la luce che gettano sul concetto di “nascita” è quanto mai illuminante. La nascita di un bambino, esattamente come l’attività umana, è la rottura più radicale che si possa dare della fatalità e della necessità naturali: in genere si pensa al rapporto tra nascita e morte come alla linea che congiunge due eventi biologici necessari che comportano l’inevitabilità del corso vitale e il suo precipitare verso la rovina e la distruzione. Non solo: la specie sembra vincere sempre sul singolo perché questi, morendo, non può sopravvivergli. Ma Hanna Arendt rovescia la prospettiva:
«Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare».
Il fatto della natalità viene addirittura a fondare (“ontologicamente”, cioè alla radice) la facoltà umana dell’agire. Nella natalità viene così vista la possibilità di un nuovo inizio, la promessa, la fede e la speranza di un nuovo mondo che può rompere con la fissità naturale, la ciclicità, ciò che è dato, la struttura immobile della realtà. E tale miracolo si ripete sempre, ogni volta che qualcuno nasce – la “lieta novella” dell’avvento è che “Un bambino è nato fra noi” (si veda H. Arendt, Vita activa: la condizione umana, Bompiani 2005, p. 182).
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Al termine di questa ardita giustapposizione di filosofi così distanti tra di loro (giustificata però dal fatto che la filosofia è profondamente unitaria, è un unico discorso e linguaggio e lògos che da 2500 anni circola e si arrabatta sempre sulle stesse questioni) – si è aperta la discussione, molto interessante e pertinente. Impossibile renderne qui la varietà e le sfaccettature, quel che mi sembra di dover mettere in rilievo è che chi è intervenuto ha preso molto sul serio quelle teorie e quei concetti, e ci si è misurato, tentando una libera interpretazione (inevitabile, dato che si trattava di estrapolazioni e di decontestualizzazioni) – ma soprattutto guardandoli da più punti di vista, girandoci attorno, cogliendo nuove sfumature. E, infine, provando a coniugarli con il nostro tempo, le nostre esistenze, la nostra quotidianità – e, magari, spingendo un po’ più in là lo sguardo verso l’umanità intera e le future generazioni, di cui dovremmo tutti sentirci responsabili. L’astrattezza filosofica (che pure è attraente e ha il suo fascino) ha insomma urgenza di approdare al territorio etico-politico.
Concludo riportando un solo episodio che mi consente di citare, di nuovo, il buon Leibniz: uno dei partecipanti fa un discorso sul concetto di materia e riferisce, ad un certo punto, dello stupore che si prova guardando un vivente, anche infimo, al microscopio (mi pare abbia parlato di muffe). Il medesimo stupore leibnizano di fronte al pullulare della vita in ogni dove:
«Di qui si vede che c’è un mondo di creature – di esseri viventi e di animali, di entelechie e di anime – anche nella più piccola porzione di materia.
Ogni porzione di materia può essere concepita come un giardino pieno di piante, o come uno stagno pieno di pesci. Ma ciascun ramo delle piante, ciascun membro dell’animale, ciascuna goccia dei loro umori, è a sua volta un tale giardino o un tale stagno». [Mon. 66-67]
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[Nota: apokatàstatis è parola greca che indica il ristabilimento, la restituzione, il ritorno al primo stato (il ritornare allo stesso punto, ad esempio nel ciclo degli astri), e che assume, in ambito filosofico-religioso, il significato di reintegrazione, alla fine dei tempi, di ogni cosa creata. Ricordo che quando ebbi a studiare la filosofia medioevale, la mia immaginazione fu molto colpita dall’uso che di quel concetto aveva fatto Scoto Eriugena.
Andrebbe poi svolta un’analisi sul pensiero catastrofico-apocalittico della nostra epoca, amplificato a dismisura dai mass-media e dalla rete, partendo proprio dalla constatazione che “apocalisse” non è distruzione finale, quanto piuttosto rivelazione (così come i Testimoni di Geova traducono più correttamente il titolo dell’ultimo libro della Bibbia) – ovvero disvelamento di ciò che è nascosto; così come, curiosamente, la parola “catastrofe” contiene il verbo greco strepho, che ha a che fare con il volgere lo sguardo (eventualmente rovesciandolo). Ecco: più che rimanere ossessionati – o pericolosamente affascinati – dal terrore della fine, dovremmo aprire bene gli occhi, anzi spalancarli del tutto].
Molto bello.
I due pezzi con cui chiudi (da “Al termine di questa ardita…” in giù) valgono tutto il Post per quanto sono ricchi, puliti, chiari.
Non saprei cosa altro aggiungere.
Grazie.
eccezzionale ..affascinante grazie
Ottimo articolo, molto profondo concettualmente e ricchissimo di riferimenti. Aggiungo soltanto che mi ha sempre colpito il concetto di Anassimandro secondo il quale il fuoriuscire dalla sfera dell’essere per entrare nel circuito del divenire era foriero di colpa e ingiustizia, ingiustizia che si doveva ‘curare’ e redimere solamente con la morte e perciò con il ritorno all’indeterminato, al di là di ogni individualizzazione ‘colpevole’. Questo senso di colpa è rimasto praticamente immutato lungo quasi tutto il corso della civiltà occidentale e non solo, dato che è stato il sostrato più fertile sopra il quale sono state costruite le religioni monoteistiche del peccato e dell’espiazione, come quella cristiana appunto. Grazie mille per questi spunti interessanti, continuerò a seguirti!
Grazie a te Giuseppe.
Hai ragione, quel pensiero di Anassimandro è foriero di una intera costellazione di significati che giacciono nel sostrato profondo della mentalitá occidentale.