Terzo lunedì: la “madre” di tutte le decolonizzazioni

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Premessa biografica.
La scoperta, peraltro tardiva, di uno scritto femminista dei primi anni ’70 che si intitolava Sputiamo su Hegel, ebbe su di me un duplice effetto. Da una parte fui turbato (e al contempo divertito per la singolarità del titolo), poiché si sputava proprio nel piatto nel quale stavo mangiando da tempo, oltretutto con gusto: Hegel era il filosofo che più avevo studiato (e amato) e che maggiormente aveva condizionato la mia formazione filosofica nonché la mia concezione del mondo, della storia, della politica. Dall’altra, quella scoperta non era certo casuale, dato che si innestava su una parallela frequentazione di ambiti di pensiero radicalmente critici (tra cui, ovviamente, quello femminista), non solo nei confronti della tradizione filosofica, ma soprattutto della società e delle sue strutture categoriali.
Una mia cara amica e compagna di studi, con la quale condividevo l’assunto marxista della stretta connessione tra teoria e prassi, mi disse un giorno che non capiva perché mai dovesse studiare tutti quei filosofi uomini, che avevano elaborato teorie di dubbio valore universale (al più potevano essere semiuniversali), e nei quali, soprattutto, finiva per non riconoscersi. Ecco allora che “sputare su Hegel” non era solo un gesto simbolico o provocatorio, quanto piuttosto un chiedersi radicale e straniato – che non valeva solo per le assoggettate di sempre, ben poco contemplate in quel “Soggetto” cui il filosofo tedesco dava una suprema importanza – se il discorso filosofico che andavo studiando sui libri riguardasse o meno la mia esistenza e l’esistenza collettiva nella quale ero immerso.
Che è come dire che lo studio della filosofia non è equiparabile allo studio di qualsiasi altra cosa, un qualche oggetto o una qualche materia che sta di fronte a me (per quanto utile e finalizzato possa questo studio poi rivelarsi). La filosofia è una forma di conoscenza che dovrebbe garantire il massimo di universalità e di generalità e, addirittura, di verità, con il minimo di neutralità e di distanza: de te fabula narratur. Altrimenti, tanto vale gettarla o, appunto, sputarci sopra.
Chi filosofa ha cioè il diritto insopprimibile di chiedersi, quasi per statuto: prima di tutto se la cosa lo riguarda davvero, e in secondo luogo se chi ha pensato quelle cose le ha pensate davvero nella maniera più ampia e comprensiva, così tanto da ri-comprendere tutto e tutti, domandante compreso. Altrimenti di che universale staremmo parlando?
Credo che il pensiero femminista sia stato quello che, più di ogni altro in questi ultimi decenni, è stato in grado di rivolgere tale domanda non solo alla società ma anche alla filosofia – mettendone per ciò stesso in crisi i fondamenti. E molti indizi ci fanno supporre che siamo solo all’inizio della nuova epoca – multiversale, non più universale – che si annuncia.

1. Nei materiali che vi ho girato come “provocazione” della discussione di stasera – e cioè il Manifesto di rivolta femminile di Carla Lonzi e il video Il corpo delle donne di Lorella Zanardo e Marco Malfi Chindemi – parrebbe compiersi un ciclo che inizia con l’apertura di una prospettiva rivoluzionaria e si chiude quarant’anni dopo con una sua radicale sconfessione e negazione: quasi che la parola e il gesto liberatori e l’invocata necessità di riappropriazione di sé e del proprio ruolo sociale, fossero destinati a generare per reazione contraria un mostro mercificato ed irriconoscibile. Un corpo libero sì, ma di prostituirsi integralmente: un corpo di donna esibito e pornografico, che è poi l’altra faccia del corpo sepolto nel burqa.
Stasera proveremo a dar conto di alcune tappe fondamentali del pensiero femminile e femminista, che rimane comunque – al di là di ogni ripiegamento o “normalizzazione” – l’elemento critico e pensante di quello che si va sempre più rivelando come evento epocale, ben più di ogni trasformazione sociale o antropologica in corso.

2. Il primo “femminismo” risale alla Rivoluzione francese e a ad alcune correnti illuministiche, specie negli ambienti anglosassoni. Fu Mary Shelley (o meglio Wollstonecraft), l’autrice di Frankenstein, a parlare di parità tra i sessi.
In seguito anche Harriet Taylor e il marito John Stuart Mill – celebre filosofo inglese, nonché assertore di tesi molto radicali per l’epoca (ben oltre il liberalismo), teorizzarono diritti ed uguaglianza per le donne: in particolare Taylor rivendica non solo il diritto di voto, ma anche l’indipendenza economica. Da qui seguirono tra Otto e Novecento le celebri battaglie delle suffragette per la conquista del diritto di voto (ottenuto tra il 1918 e il 1920, in Inghilterra e negli Stati Uniti).

3. Ma è nel Novecento che si apre un altro ben più radicale capitolo del femminismo, in particolare con due autrici-simbolo della svolta:

-Virginia Woolf, che nel saggio Le tre ghinee (1938) parla per la prima volta di differenza anziché di parità. Chiamata ad impegnarsi con uno scritto in senso antifascista (si era alla vigilia della seconda guerra mondiale) Woolf radicalizza il discorso, andando ben oltre la questione storica e contingente (per quanto urgente) e rivendicando la necessità di immaginare un’altra storia ed un altro modello di società, visto che quelli prodotti dagli uomini grondano sangue, guerra e ingiustizia.

-Simone De Beauvoir, che col voluminoso testo teorico-analitico Il secondo sesso (1949) mette il dito sulla piaga: il vero nodo è cioè quello dell’identità e della produzione storica della soggettività femminile. Chi e che cosa decide delle categorie femminile/maschile, dei ruoli e delle gerarchie? De Beauvoir mette proprio in discussione che ci sia un ordine naturale (biologico) assoluto che debba valere per l’ordine sociale.
In particolare è sul corpo e la sua biologizzazione che si apre un’importante riflessione: la donna è vista come imprigionata nel suo corpo e quasi sepolta nella sua funzione sessuale e riproduttiva (la biologia come destino, la donna come oggetto sessuale dei desideri maschili), laddove l’uomo è libero ed in grado di trascendere tale condizione.
Il nodo che dunque De Beauvoir mette in luce chiaramente è quello del rapporto o del confine tracciabile tra natura (immutabile e necessaria) e cultura (storicamente determinata e variabile). “Donna non si nasce, si diventa” – e dunque tale condizione può mutare…

4. Su questa base, viene elaborata la fondamentale distinzione tra sesso e genere, che costituirà la base categoriale per molte pensatrici successive, specie del femminismo radicale americano (anche se, come vedremo, verrà a sua volta messa in discussione da alcune di esse, poiché sesso e corporeità, a loro volta, non sono elementi biologici assoluti ed immodificabili).
In sostanza, sulla base del discorso di De Beauvoir, la domanda diventa, sia in ambito filosofico che sociale e storico, ben più radicale: “che cos’è una donna?” – si domanda De Beauvoir, che si chiede anche come mai la stessa domanda non se la faccia un uomo. I filosofi fin dall’antichità hanno dato risposte “in negativo” (per non dire imbecilli e a bassissimo tasso di razionalità, al che vien da pensare in che cosa fossero davvero così sapienti), come accade ad esempio a Platone (che ringrazia gli dèi di non esser nato donna) o ad Aristotele, e sulle sue orme al teologo Tommaso d’Aquino: la donna è sempre marcata dall’assenza, dal non essere qualcosa piuttosto che esserlo – la donna è, in ultima istanza, un uomo mancato, che è come dire un non-uomo, dunque un niente.

5. Tra le pensatrici europee, assumono grande importanza le riflessioni della filosofa francese Luce Irigaray, che conia (e critica) la categoria di fallogocentrismo (fallo-logòs-centrismo). Non si tratta solo del fallo (simbolo di un potere che però è materialissimo), ma anche del discorso che sul fallo viene costruito, e che informa il mondo e il suo linguaggio.
Il lavoro analitico di Irigaray comincia con il saggio Speculum: l’altra donna (1974). Nella prima parte – di taglio psicoanalitico – viene ricostruita una figura della donna come speculare all’uomo, cioè come ciò che “assente” definisce un uomo “presente”: il fallo (che genera un ordine simbolico preciso) è il pieno, l’attività, il tutto, laddove specularmente la vagina – alterità che si vede riflessa nello specchio – diventa il vuoto, la passività, il niente. L’inferiorità femminile è così funzionale al ruolo di indiscussa superiorità maschile, ed in qualche modo la fonda.
Vi è poi, nella seconda parte, un’analisi filosofica che tratteggia l’altra donna – questa volta non attraverso lo specchio, ma lo speculum (quello strumento cioè che serve a guardare dentro le cavità del corpo, specie l’organo genitale femminile) – un’altra donna che risulta invisibile, inesistente, proprio perché non viene vista e riconosciuta dagli occhi dell’uomo (e della donna immaginaria) riflessi nello specchio dell’ideologia e della legge del padre.
Vi è qui una interpretazione originale del mito platonico della caverna, su cui però non possiamo soffermarci. Quel che invece è bene mettere in rilievo del discorso di Irigaray, che verrà sviluppato nei saggi successivi, è la non neutralità del linguaggio, e la conseguente necessità di decostruire l’ordine simbolico maschile e patriarcale a partire dal discorso (lògos) che definisce, nomina, dis-pone, ordina, gerarchizza, ecc. Basti pensare alla definizione stessa di uomo – l’universale della specie umana che comprende entrambi i generi, uomini e donne, ma che nomina soltanto il primo genere, sottintendendo (e nascondendo) l’altro.
Il linguaggio non è mai neutrale, ma sempre situato e determinato storicamente (ed anche “sessuato”, come lo definisce Adriana Cavarero, una tra le più innovative pensatrici italiane): il bambino che lo apprende non riceve mai messaggi neutri, bensì sempre orientati, che contengono una determinata concezione del mondo (una Weltanschauung precisa). Le parole non sono affatto indifferenti, ed anzi strutturano la nostra mente, il nostro modo di essere e di comportarci.

6. Da queste, che sono solo alcune tappe appena accennate, si viene sviluppando un pensiero plurale della differenza (o delle differenze o delle diversità) che tende a criticare e a superarare anche la storica distinzione tra sesso e genere: non solo i generi ma anche la corporeità e il sesso sono costruzioni sociali (dunque relative: i filosofi francesi Deleuze e Guattari, ad esempio, parlano di n sessi, non solo di due, e pensatrici come Donna Haraway o Rosi Braidotti metteranno in discussione proprio la dicotomia genere/sesso).
Ma soprattutto – con l’emergere di nuove istanze, rivendicazioni, soggetti e categorie sociali che intendono emanciparsi non solo formalmente ma sostanzialmente – si viene a complicare il quadro delle relazioni tra i soggetti e le forme di dominio che li riguardano.
E di fatti il nodo vero è quello della autodeterminazione (e dunque della autonominazione, autodefinizione ed autofondazione) dei soggetti che sono plurali per loro natura. Così come non esiste una soggettività maschile neutra, unica ed universale, non si dà nemmeno un’alterità femminile univoca: tutte le soggettività sono produzioni storiche e sociali, non dati naturali. Si muovono e confliggono, non stanno immobili e date una volta per tutte.
Faccio un esempio (che è insieme teorico e pratico): una donna afroamericana lesbica di una determinata classe sociale finirà per non riconoscersi non solo “nel” soggetto sociale maschile che la vuole dominare, ma nemmeno in una determinata classe o genere o razza che vorrebbero imporle un ordine simbolico e materiale che ne negherebbero la soggettività più profonda.
I soggetti plurali sono cioè irriducibili alle categorie: la più radicale forma di liberazione è, da tal punto di vista, l’uscita dal ghénos.
Ecco allora che il pensiero femminista e della “differenza” tende a mettere in crisi non solo la dualità classica maschile/femminile con la logica del dominio patriarcale che vi sta dietro, ma ogni logica di dominio e di inferiorizzazione. Funziona cioè da detonatore e da contagio della rivolta di tutti gli schiavi e colonizzati – che però non possono essere liberati da altri che non siano loro stessi (pena un’ulteriore fase del dominio e della colonizzazione).
Il femminismo è dunque la “madre di tutte le decolonizzazioni” – e già la parola “madre” di quell’espressione linguistica va a sua volta criticata e decostruita, proprio per le ragioni denunciate da Luce Irigaray.

7. Infine: la questione maschile
Autocoscienza, ricontrattazione, liberazione di uomini e donne (o meglio di tutti i soggetti plurali e degli n sessi) da ogni forma di dominio (di genere, di classe, di razza, ecc.) – sarà un percorso che ciascun soggetto dovrà fare in maniera autonoma e non eterodiretta.
Qual è, però, la peculiarità del percorso di un soggetto che è stato oppressore per secoli e millenni? Sartre scrisse a tal proposito nel 1965: «Dal momento che si vieta la contro-violenza agli oppressi, poco importa che si muovano dolci rimproveri agli oppressori (del tipo: equiparate dunque i salari o, almeno, fate un gesto; un po’ di giustizia, per favore!)» – che è come dire che solo facendo “rotolare le teste” si potranno sanare le ingiustizie. Ma questo non ci farebbe ricadere in una logica (già vista e dagli esiti purtroppo infelici) di guerra e di dominio? Dove starà allora il discrimine tra “guerra” distruttiva e “conflitto” ricostruttivo?
Se è comunque vero che il potere maschile (così come ogni potere oppressivo) dovrà essere contestato ed abbattuto dall’esterno, sarà bene che gli stessi suoi complici (uomini o donne che siano), prendendo ad esempio il lungo, difficile, talvolta doloroso ed insieme gioioso percorso di autoconoscenza e di autocoscienza qui delineato, ed incarnato da generazioni e moltitudini di donne – intraprendano un loro peculiare percorso di liberazione, che consenta una reale ricontrattazione in tutte le sfere dell’intersoggettività.

Come detto in apertura, il pensiero femminista finisce così per rifondare un modo di intendere la filosofia non più uni-versale (a priori) ma multi-versale (a posteriori: l’universale da fare, di cui parlava Sartre), che abbia come motto il socratico (e rivisitato) conosci te stess*, e che praticherà lo straniamento come metodo costante della sua attività (che non sarà solo teorica ed astratta dalla vita sociale, ma inevitabilmente pratica ed esistenziale): uno straniarsi come uscita da sé – da un soggetto cioè noto ma non conosciuto – che solo consente una ri-definizione del proprio ruolo, senso e significato in relazione agli altri ruoli, sensi e significati, nessuno dei quali è calato dall’alto o dato una volta per tutte.

[Nota. La traccia di questo scritto, per la parte storica, deve alcune idee al capitolo “Femminismo e filosofia” del volume Le filosofie del Novecento di Fornero e Tassinari, un’introduzione non certo esaustiva ma pur sempre interessante al pensiero femminista. Un ringraziamento di tipo “esistenziale” lo devo invece all’amica e filosofa Nicoletta Poidimani]

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

3 pensieri riguardo “Terzo lunedì: la “madre” di tutte le decolonizzazioni”

  1. Quando, con la rivoluzione industriale, la borghesia ha capito che la donna era molto più produttiva degli uomini in un’ampia fetta della produzione industriale ed agricola, nonch’è in tutti quei settori che possono essere definiti come “cura” (sanità, educazione, ecc), la donna, appunto, ha potuto ottenere un’autonomia dal capofamiglia: che esso sia il padre o il marito. Ma non dal capitale.
    La parità ottenutà è di tipo sotrattivo: ora anche l’uomo non ha più quel poco potere che deteneva: quello sulle donne.
    La democrazia vuol dire che il voto di una donna e quello di un uomo sono uguali: proposizione amissibile solo se diciamo prima che l’uomo e la donna sono uguali.
    Se fino alla rivoluzione industriale il controllo della sessualità femminile era di dominio del capofamiglia, dopo di essa, le donne lo hanno ottenuto ma rispetto agli uomini. Finalmente hanno potuto dire: “questo uomo è mio”.
    Hegel mi ha insegnato ha conciliare le differenze con le similarità, cosa possibile soltanto sciogliendole nella storicità, nel movimento, della cosa. Così si comprende che il maschile nasce dal femminile.

  2. @caosliquido: certo, la questione della “proprietà” e quello dei ruoli di genere sono inscindibili.
    Hegel, al di là degli sputi che si è preso (del resto se li è presi anche il buon Marx) ha ancora molto da dirci su differenze, storicità, conflitti, uguaglianza e libertà (non formale)…

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