Ottavo (ed ultimo) lunedì: arte e bellezza oltre le scissioni

Partirò per la mia analisi da una delle scissioni fondative (probabilmente la madre di tutte le scissioni) della natura umana, cioè del nostro modo di concepire il mondo e noi stessi: l’opposizione con l’animalità.
Sta proprio qui – nell’opposizione originaria con l’animale, se si vuole il corpo stesso della nostra base biologica – il fondamento di tutta la nostra produzione culturale, spirituale, e dunque artistica ed estetica.
La mia tesi è che la maledizione della scissione – il vivere sempre come decentrati, in altro, al di là e fuori di noi stessi, come straniati – rechi con sé tanto il frutto velenoso dell’alienazione, dell’insoddisfazione, della noia e dell’angoscia, del desiderio mai sopito e realizzato (il nostro essere incompleti, mancanti, la nostra non accettazione della finitezza e della mortalità), quanto il sogno della bellezza e della perfezione.

Su questi temi, un saggio interessante uscito di recente è Filosofia dell’animalità di Felice Cimatti. Egli sostiene come da una parte l’animalità sia più una nostra costruzione di quanto non sia reale (non esiste un animale-universale, se non nella nostra mente), ma dall’altra proprio il nostro esserne usciti (o esserci illusi di averlo fatto) ha condotto a contraddizioni, infelicità, scissioni che possono essere sanate solo ricongiungendo la nostra parte materiale con quella spirituale.
Seguendo una precisa tradizione di pensiero derivata dallo zoologo tedesco Uexkull e dal filosofo Martin Heidegger, Cimatti mette in discussione proprio la differenza fondamentale che passerebbe tra umani e animali, quella cioè che ritiene i primi produttori di “mondo” e gli altri aderenti e inchiodati all’ambiente. Secondo questa tesi differenzialista, gli esseri umani fuoriescono dalla circolarità naturale (che è ripetizione delle medesime leggi biologiche, fondamentalmente riducibili a conservazione e riproduzione), rompono con il loro ambiente, e si affidano all’incertezza e alla precarietà del mondo, cioè di un sovra-ambiente, di una seconda natura molto più mobile e diveniente. Natura è qualcosa di fisso ed immobile, cultura (o spirito) è invece qualcosa di diveniente, in perenne trasformazione.
Non possiamo approfondire questa tematica che ci porterebbe lontano dall’oggetto del nostro discorso di stasera: quel che importava sottolineare era però il tema della scissione e della duplicazione come peculiare del mondo umano: noi siamo la specie perennemente scissa tra un io e un corpo, una mente e la sua base materiale, cultura e natura, e così via.
Tutto ciò produce ovviamente l’illusione di essere speciali e addirittura destinati a dominare la natura e le altre specie. Se ne può anche dare una spiegazione psicologica ed antropologica che appare piuttosto ovvia: la non accettazione della morte, della finitezza, dei nostri limiti spaziali e temporali confligge con la potenza della nostra mente ed immaginazione – dal che, tra le altre cose, derivano l’arte, la religione, la filosofia – produzioni simboliche che vorrebbero bloccare il tempo, fissare le cose, renderci eterni.
Proprio queste tre forme della produzione culturale e spirituale vengono poste da Hegel, uno dei più grandi filosofi occidentali, al vertice del mondo umano. Hegel tra l’altro, al contrario di Cimatti, riteneva una cosa buona, oltre che necessaria, che l’uomo fosse uscito dalla natura e avesse edificato un proprio mondo a sua immagine e somiglianza, caratterizzato da una grande ricchezza di contenuti spirituali: la natura, a suo giudizio, è piuttosto noiosa e ripetitiva, mentre molto più interessante risulta essere il mondo storico umano, con tutto il suo fiorire di civiltà e di cultura.

Per certi aspetti la filosofia nella sua interezza racchiude l’essenza di questa posizione: la filosofia è “idealismo” nella misura in cui è in grado di costruire un sistema di concetti e di idee (una vera e propria struttura logica) in grado di contenere e spiegare l’intero mondo, il cosmo, l’essere.
L’idea, lo spirito, il cogito, ecc. – la linea “trascendente” della filosofia (e della concezione occidentale) è proprio il compimento di una visione che duplica il mondo, ordinandolo secondo uno schema virtuale e ideale (questo avviene già con le idee di Platone, che può essere considerato il fondatore di questo modo di intendere la filosofia): in cielo le idee (eterne), in terra le loro copie sensibili, destinate alla morte. Se noi siamo in grado di comprendere il senso di quel mondo ideale, riusciremo allora a partecipare ad un frammento di eternità.

Questa proiezione in altro (che abbiamo visto concretizzarsi in una supposta uscita dalla natura) produce altri due fenomeni vastissimi e trasversali a tutte le culture umane: la religiosità e l’arte (produzioni quantomai simboliche).
Nella religione si condensano tutte le visioni extramondane ed extramortali: noi proiettiamo in Dio, nell’al di là, nei miti dell’immortalità proprio il nostro bisogno (ed illusione) di durare al di là della morte, oppure cerchiamo in quelle categorie il compimento e la perfezione che non troviamo nella nostra vita quotidiana.
Così, sia la filosofia (per lo meno in una larga parte della sua tradizione) che la religione sembrano voler abbandonare la materia per proiettarsi in ultramondi spirituali e perfetti.

Ma veniamo finalmente al posto che ha l’arte in questo discorso.
Anche in questo caso vi è un procedere dall’elemento sensibile a quello spirituale, intellettuale: l’arte è una sorta di prodotto spurio che non ha ancora abbandonato la materia (ciò vale specialmente per le arti figurative), ma che aspira a farlo. Nella musica e nella poesia questo processo di allontanamento dalla sensibilità si accentua: la musica è suono (dunque è ancora sensibile), ma pare sorgere e terminare nel silenzio, avvolgendosi così di una trasparenza e di una purezza che la allontana dall’elemento materiale e caduco. La poesia è linguaggio allo stato puro – quanto di più lontano dalla materialità siamo in grado di produrre. In sostanza nelle arti vi sarebbe una tensione irrisolta tra materia e spirito, sensibilità e idea, passione e ragione, corpo e mente.
Hegel ha costruito su questa tensione delle vere e proprie gerarchie estetiche, ma io credo che questa sia la cosa meno interessante della sua teoria; molto più interessante è quella tensione che nell’operare artistico sempre emerge tra ciò che è caduco e la forma che invece aspira a permanere: i corpi deperiscono, mentre l’io, l’arte, il linguaggio, la bellezza si protendono al di là della durata dei corpi – si figurano addirittura di essere eterni (per quanto si tratti di un’eternità più fittizia o immaginaria che reale).
Arte, religione e filosofia sono, in tal senso, produzioni meta-fisiche, che ambiscono a costruire mondi stabili, armonici, ordinati, destinati all’eternità: la bellezza dei cieli contro la morte e il caos regnanti sulla terra. Sembra insomma che l’uscita dall’unità originaria della natura – che ha provocato angoscia, paura della morte, alienazione e ingiustizia – possa essere ricompensata da un ritorno fittizio e simbolico ad un’unità estetica ed intellettuale (già la parola greca symbolon allude a questo movimento di scissione/ricomposizione). Ne è valsa la pena? era necessaria quella rottura? – rimangono questioni aperte destinate probabilmente a rimanere senza risposta.

***

Per concludere esibirò alcune opere esemplari di questa tensione estetica verso l’immateriale, il simbolico, l’eterno – tutti esempi attinti dall’arte occidentale, ma che probabilmente potrebbero essere reperiti anche in altre civiltà e culture.

1. Il primo esempio è tratto dall’ultimo canto della Divina commedia di Dante (l’intera Commedia è leggibile come un processo di elevazione dal materiale all’immateriale, dal mortale al simbolico-eterno)

Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute
(Paradiso, canto XXXIII)

Qui Dante, tramite la preghiera che San Bernardo rivolge alla Madonna, compie il suo viaggio che dall’infima lacuna, dal luogo più basso dell’universo (la nostra vita peccaminosa, mortale ed imperfetta sulla terra), lo innalza alla perfezione di Dio – l’ultima salute.

2. Anche la conclusione del Faust di Goethe (che utilizza la simbologia cattolica per compiere un’opera essenzialmente classica e pagana), si muove nella medesima direzione:

Ogni cosa che passa
è solo una figura.
Quello che è inattingibile
qui diviene evidenza.
Quello che è indicibile
qui si è adempiuto.
L’eterno elemento femminile
ci trae verso l’alto.
(Goethe, Faust II, Chorus Mysticus)

Gustav Mahler, di cui tra poco parleremo, utilizza proprio le ultime pagine del Faust per dar voce alla seconda parte della sua Ottava Sinfonia, un grande inno alla creatività umana e spirituale, che si apre, non a caso, con il Veni creator spiritus, chiudendosi con il coro mistico di Goethe, i cui versi hanno il compito di trarci verso l’eterno elemento femminile (figura su cui si potrebbe discutere a lungo).

3. Un altro esempio interessante è il fitto intreccio estetico messo in scena nella Morte a Venezia: racconto di Thomas Mann, film di Luchino Visconti e Adagietto dalla quinta sinfonia di Mahler (su questo argomento rinvio ad un mio post di qualche tempo fa).

4. Dalle arti figurative ho scelto come esemplari le opere dell’ultimo Kandinsky, che rappresentano un esempio straordinario di creazione di nuove forme (biomorfismo sul quale rinvio ancora ad un mio precedente post).

5. Ed infine vi invito ad ascoltare l’ultimo movimento – un Lied – della Quarta sinfonia di Gustav Mahler: anche in questo caso vi è un ri-volgimento dello sguardo dal basso all’alto, dal materico al simbolico, dal mortale al divino (che è poi la tensione cosmica che scorre in tutte le opere di Mahler):

Noi godiamo le gioie celesti,
quel che giù in terra è gioia, ci è molesto;
di nessun mondano frastuono
s’ode qui in cielo il suono.
Tutto vive in pace dolcissima.
[…]
Nessuna musica giù in terra suona,
che stia qui con la nostra a paragone.
[…]
Le voci angeliche
scuotono i sensi dal gelo,
perché tutto alla gioia si desti!

(Mahler, La vita celestiale, Lied del IV movimento della Sinfonia nr. 4)

Il suono e la voce si chiudono qui in una pacata ed azzurra trasparenza, l’invito a partecipare della beatitudine e della gioia celesti – fosse solo per un attimo eterno quanto illusorio.

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Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

3 pensieri riguardo “Ottavo (ed ultimo) lunedì: arte e bellezza oltre le scissioni”

  1. Non mi pare che tutto questo renda giustizia alla realtà,né quindi alla bellezza che ne è rappresentazione. Il mondo delle idee come “perfezione” non ti pare un po’ superato? Schema necessario alla comprensione mentale, e quindi semplificazione ,modo per rendere visibile quella bellezza che è Vita ma che spesso,nei meandri troppo complessi della vita quotidiana, la nostra coscienza non riesce a rintracciare. Ci occorre che qualcosa sia abbastanza semplice,depurata…arte. Perché la bellezza tocca il cuore Prima che la testa: se devi spiegare a qualcuno un quadro o una musica Prima che esclami “bello!”,allora quell’opera non l’ha toccato.

  2. @Silvia: certo, l’arte e la bellezza non possono essere solo “spiegate”, né comprese razionalmente, ma: dico che è bello un tramonto perché lo è in sé, o perché magari ci sono infinite stratificazioni visive della bellezza (infinite rappresentazioni non solo pittoriche) che mi hanno “educato” in tal senso?

    Nulla può “rendere giustizia alla realtà”, ma l’unico strumento che abbiamo per decodificarla/organizzarla/comprenderla è quello filato dalla mente, che funziona per idee e concetti. Che questi poi siano a loro volta nella “realtà” o solo nella mia testa è questione vecchia come il mondo (o meglio, come la filosofia) – in ogni caso le idee stanno nella testa che sta nella realtà che è compresa dalla mente, ecc.ecc. Circolo vizioso o virtuoso?

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