Byung-Chul Han legge l’attuale società globale come pervasa dal mito della trasparenza.
Si attribuisce a questo termine, in genere, una caratteristica di positività: un potere trasparente, rapporti trasparenti tra le persone, maggiore trasparenza nell’agire pubblico dovrebbero in teoria giovare al buon funzionamento della società.
Salvo che, a ben vedere, La società della trasparenza (questo il titolo del suo recente saggio edito in Italia da nottetempo), proprio in quanto affetta da un eccesso di positività (tutto in evidenza, nulla in ombra, via ogni negativo) si trasforma in un dispositivo sociale quantomai oppressivo.
Han, com’è nel suo stile, abbozza molti argomenti senza approfondirli, esponendoceli in una serie di brevi capitoli per tesi e suggestioni. Sullo sfondo i concetti già esposti nel breve saggio La società della stanchezza (società della prestazione, iperpositività, autosfruttamento, ecc.).
Riprenderò qui alcuni riferimenti che potremmo definire “inquietanti” a proposito del concetto di trasparenza inteso come “far luce”, “illuminare”, “svelare”, significati tipici (se non archetipici) del pensiero filosofico da Platone in poi.
Si comincia proprio con Platone, con una breve analisi dell’allegoria della caverna (65-67), laddove la “metafora della luce” diventa un vero e proprio luogo comune del discorso filosofico – non è un caso che diventerà poi dominante con la ripresa in grande stile nella modernità, il cui apice è proprio l’epoca dei lumi, del rischiaramento. Qui però a parere di Han non si tratta solamente di una modalità conoscitiva, ma della contrapposizione di due stili di vita, un nuovo modo di intendere la socialità e le relazioni: da una parte una modalità scenico-teatrale, “narrativa” e umbratile, dall’altra l’istituzione di una forte gerarchia identitaria ed orientata. Dal sole – luce trascendente della verità – promanano ogni ordine e ogni discorso ontologico possibile.
Insieme a tale nuova forma di verità, però, è dato anche il suo opposto: il positivo e il negativo, il bene e il male, la luce e l’ombra, la verità e l’errore. Tale concezione si tramanda, pressoché immutata, di generazione in generazione filosofica, attraverso il medioevo e fino all’età della luce per eccellenza, l’illuminismo. Salvo sfociare, oggi, in una trasparenza senza luce, priva di trascendenza (64-67), in un flusso informativo positivizzato ed operazionale.
Se interpreto bene, quel che Han denuncia è proprio il venir meno di quella che per un paio di millenni era stata una precisa dialettica tra luce ed ombra, positivo e negativo. Il venir meno, in sostanza, di una società conflittuale e movimentata dal negativo (il negativo come “motore”, “vero elemento dialettico”, l’interna negatività delle determinazioni come “anima loro moventesi di per sé, il principio, in genere, di ogni vitalità naturale e spirituale”, di cui parla Hegel, forse il più grande apologeta della negatività in campo filosofico).
Ci troveremmo cioè appiattiti, livellati, omologati entro una società della trasparenza dove tutti vedono tutti (ma non tutto), tutti controllano tutti (ma non tutto, anzi pochissimo) e non c’è più alcuna opacità, privatezza, negatività, sottrazione allo sguardo altrui: l’immagine è quella da incubo di una costruzione panottica aprospettica (diversamente da quella prospettica del panopticon carcerario ideato da Bentham), una casa senza pareti e senza angoli, fatta di sole finestre – di sola trasparenza – dove tutto sia visibile ed esposto. Una vera e propria società pornografica, dove ciò che viene esposto ed esibito (e guardato voyeristicamente) non è tanto il corpo, quanto l’intimità, l’anima, l’emotività, tanto che vien da chiedersi, in prospettiva, quale sarebbe il contenuto di quell’intimità (o interiorità) in una società che ne mina le radici, mettendo in discussione la sua stessa possibilità ontologica (ne avevo parlato qui e qui).
Han cita poi Rousseau (71 e sgg.) che sia nelle Confessioni che nella sua mitologia reazionaria (si veda ad esempio La nuova Eloisa) della “città a portata di voce”, contribuisce a fondare a sua volta una idea pervasiva della trasparenza che toglie ogni velo, ogni maschera e che finisce per sottoporre ad un controllo totale ciascun membro della comunità. (Probabilmente oggi Rousseau sarebbe un fanatico fruitore di Facebook!)
I social media e il mondo dell’iperconnessione sono da una parte un sintomo, e dall’altra un acceleratore di questo modello sociale (che del resto la televisione aveva ampiamente anticipato), con l’aggravante di un’illusoria libertà, dove invece l’autoesposizione altro non è che un’altra forma dell’autosfruttamento: poiché ciò che viene esposto non è più un’anima, ma una merce – come viene opportunamente detto nel thrillerone La verità sul caso Harry Quebert: “In pratica, gli utenti di Facebook sono degli uomini-sandwich che lavorano gratis”.
Occorre dunque concludere questo ragionamento con un accenno alle preveggenti (e ben più robuste, rispetto a quelle di Han) analisi di Virno (e colleghi) a proposito della messa al lavoro del linguaggio e delle analisi marxiane sul general intellect: le linee dello sfruttamento passano oggi proprio da lì, ed ecco perché non esiste più un tempo di lavoro separato da un tempo “libero” e vitale”, ma un unico spaziotempo in cui ciascun utente connesso alla rete (la vera rete, cioè quella del vampiro capitalistico) produce/consuma/pubblicizza/diffonde ininterrottamente, giorno e notte, il verbo unico ed onnipotente del Capitale. Ciascun nodo connesso a tale rete (permanentemente e volente o nolente) contribuisce all’approfondimento della valorizzazione del Capitale, mettendo al servizio non più solo la forza-lavoro o l’intelligenza, ma ogni parte di sé, anche quella tradizionalmente “oscura” e nascosta: emotività, sessualità, sogni, desideri, chiacchiericcio quotidiano, tutto viene esposto (e, potenzialmente, reso utilizzabile e messo in vendita nella piazza-mercato virtuale).
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Una breve postilla su potere e trasparenza: dalla Glasnost sovietica, passando per il movimento No Global, ed arrivando – per riferirci al solo caso italiano – al movimento Cinquestelle, è stato riproposto con forza e a più riprese in questi ultimi decenni, specie dai movimenti di base, il problema del controllo del potere e della trasparenza dei suoi meccanismi decisionali. In realtà credo che qui Han pecchi di eccessiva semplificazione, opponendo in modo lineare trasparenza e fiducia: una società che non si affida più ai suoi governanti, chiede inevitabilmente che il potere esercitato diventi trasparente (79). Non so quanto possa essere realizzabile l’immagine di uno streaming permanente sulle imperscrutabili riunioni di un qualsiasi organo di governo o amministrativo – oltre al fatto che rischierebbero di essere mortalmente noiose e tutt’altro che spettacolari, dunque con ben poco appeal. Vero è che il potere perde fascino e seduzione proprio nel momento in cui diventa trasparente, esattamente come il corpo erotico cui viene tolto ogni velo e che diventa pornografico.
Liberarsi del potere, eliminare la segretezza e l’arcano del dominio seguendo la logica della trasparenza, non porta automaticamente alla libertà, genera piuttosto una pericolosissima dinamica di autoilluminazione che si tramuta facilmente in un illimitato autosfruttamento.
E le nuove macchine panottiche e globali, per le quali non esiste più alcun lato “esterno”, sono proprio i social media: “ciascuno – conclude Han – si consegna volontariamente allo sguardo panottico. Si collabora intenzionalmente al panottico digitale, svelando ed esponendo se stessi”. Tutti si è contemporaneamente ed illimitatamente vittime e carnefici di questo infernale sistema (auto)detentivo.
Insomma, ci siamo fottuti e reclusi da soli.
2 pensieri riguardo “Rousseau è su Facebook! (e ci guarda)”