Ci sono almeno 3 ragioni che mi hanno indotto ad inaugurare il nostro Gruppo di discussione 2014/15 con il tema della guerra (l’unico che non era stato suggerito dal gruppo precedente). La prima è di tipo locale e contingente: qui a Rescaldina, per volontà di alcune associazioni e della nuova amministrazione comunale, si sta riflettendo sul tema della pace, attraverso un itinerario di incontri e di iniziative che proseguirà anche nelle prossime settimane. Solo che la parola-chiave di questa sera non è “pace”, ma “guerra”. La scelta non è casuale. Veniamo quindi alla seconda ragione, di tipo globale: è evidente come la guerra sia ancora l’orizzonte generale delle relazioni internazionali, la modalità attraverso cui, in ultima analisi, la politica gestisce i conflitti (dal Mediterraneo al Medio Oriente, dall’Ucraina ad altri scenari più periferici e, spesso, oscurati dai media). Infine, questo incontro è per me l’occasione di fare il punto sul rapporto tra filosofia e guerra, dato che proprio 30 anni fa, nell’incontrare la filosofia, cominciavo a riflettere sulle dinamiche militariste e sull’antimilitarismo come teoria e prassi di ampio respiro.
Vi è una sorta di primazia, di “priorità ontologica” della guerra nei confronti della pace – quasi che la pace sia residuale e suddita dell’altra, quel che rimane quando i conflitti si placano – ma è un placarsi solo momentaneo, brevi parentesi di stagnazione in un oceano tumultuoso.
Questa originarietà della guerra è testimoniata da più fonti e secondo diverse prospettive: ce lo dice il senso comune, l’”immemorialità” della guerra (un po’ come la morte, il dolore, la malattia, la finitezza umana – tutte categorie antropologiche primordiali, antiche, che subiamo e sulle quali non abbiamo potere).
Ce lo dice la storia – una lunga sequela di battaglie e conflitti la cui cronologia è essenzialmente segnata dalla guerra, sia in termini temporali (la guerra dei trent’anni o, addirittura, dei cent’anni), sia, più di recente, in termini spaziali: la guerra, nel Novecento, invade l’intero spazio terrestre e diventa mondiale. Dopo la guerra fredda, i nuovi scenari post-11 settembre alludono sempre più spesso ad una guerra globale. A proposito poi del rapporto tra storia e guerra, Hegel scrive una verità che è sotto gli occhi di tutti: “senza le guerre la storia registra solo pagine bianche”.
Ce lo dice la scienza – in particolare la biologia, per lo meno dopo Darwin, che non a caso conclude la sua opera più importante, L’origine delle specie, con la seguente osservazione: “Così dalla guerra della natura, dalla carestia e dalla morte, direttamente deriva il più alto risultato che si possa concepire, cioè la produzione degli animali superiori. Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita”.
Ce lo dicono la psicologia e la psicoanalisi (il principio di morte, il carattere innato dell’aggressività, il lato oscuro della natura umana, ecc.).
Ce lo dicono persino le religioni, specie le monoteiste, storicamente guerrafondaie (basti pensare a Jahvé, dio degli eserciti).
Ce lo dice, infine, la filosofia.
I primi filosofi greci – dei veri e proprio cosmologi ed osservatori della natura – rilevano che l’universo e la natura sono retti da leggi ferree ad alto tasso di conflittualità: basti pensare ad Anassimandro (“poiché essi [gli enti, le cose, i viventi] pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”), ad Anassimene o ad Empedocle (per il quale i principi che governano i quattro elementi sono proprio odio e amore, una forza attrattiva e l’altra, opposta, di repulsione); lo stesso Pitagora fonda l’intero suo sistema su una serie di opposizioni antagonistiche (il pari e il dispari, la luce e le tenebre, il maschile e il femminile, ecc.).
Ma è Eraclito che assume la guerra – il pòlemos – come centro del proprio discorso filosofico: “Pòlemos – scrive in uno dei suoi più celebri aforismi – è padre di tutte le cose, di tutte re”; le cose, cioè, non possono esistere se non in conflitto, in contrapposizione tra di loro. Ogni cosa è “cosa” (o ente, o individuo) proprio perché si staglia come un’identità contro un’altra: la luce non può esistere se non contrapposta alle tenebre, il giorno alla notte, la vita alla morte, io ad un altro… la guerra alla pace. È questa una legge ferrea del cosmo, a parere di Eraclito, che però in un altro celebre frammento celebra il conflitto, se è vero che “dai discordi deriva l’armonia più bella”, un’armonia impossibile qualora tutto fosse pacificato.
Tale mentalità originaria attraversa la filosofia lungo i millenni., giungendo fino a noi. I maggiori filosofi e pensatori dell’Ottocento, tanto per fare un esempio, sono imbevuti di questa mentalità conflittuale e polemologica: Hegel, Marx, Darwin, Schopenhauer, Nietzsche, persino Freud. Nel Manifesto del partito comunista Marx ed Engels fanno del conflitto la chiave di volta della storia: “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi”. Schopenhauer (ma anche Nietzsche, sulle sue tracce) ritiene la guerra in natura, come avevano fatto i primi greci, la chiave per comprendere la vera essenza del mondo (il mondo come volontà, quello che sta dietro all’apparente sensatezza con cui ce lo rappresentiamo tramite la ragione): “Nella natura vediamo dunque dappertutto lotta, conflitto e alternarsi di vittorie”.
Vi sono due atteggiamenti possibili nei confronti di questa mentalità: una di accettazione fatalistica, l’altra di reazione, di rivolta.
La prima è perfettamente testimoniata da un’acquaforte di Goya, tratta dai celebri Disastri della guerra, ed intitolata Tristi presentimenti di ciò che deve accadere: vi vediamo rappresentato un uomo inginocchiato, lacero, con le braccia aperte in segno di resa e con il volto che esprime un’angoscia infinita, gli occhi torti verso il cielo, ad invocare chissà quale divinità, mentre tutt’attorno l’oscurità e le tenebre sembrano volerlo attanagliare fin quasi a inghiottirlo. Non c’è dubbio che Goya voglia rappresentare, non solo e non tanto il presentimento della tempesta in arrivo, quanto l’inevitabilità, la necessità dolorosa del suo prossimo abbattersi: è quel deve accadere a segnare la tragica cifra del destino umano, che vede il singolo come un burattino manovrato da forze storiche e sociali che lo sovrastano, senza che gli si possa rivoltare contro. L’individuo appare così incapace di governare o modificare quelle strutture che pure egli ha contribuito a costruire: la guerra, che è massima espressione della potenza cieca e crudele che muove la storia, si manifesta con la stessa ineluttabilità di una grande catastrofe naturale, imprevedibile e incontrollabile.
L’altra possibile reazione è molto ben rappresentata da un romanzo dello scrittore sudafricano Coetzee, La vita e il tempo di Michael K., dove viene drammaticamente descritto il dilemma tra strutture e individuo, tra necessità della guerra e fuga da tale necessità. Michael K. però non rappresenta una figura cosciente, un saggio che sceglie con cognizione di causa, quanto piuttosto l’innocente, anzi si potrebbe dire l’idiota in fuga dalla storia. Egli non capisce nulla di quel che gli accade intorno, ma ha un innato istinto a defilarsi ogni volta che può farlo da gabbie identitarie, prigioni e filo spinato
Sono però entrambe reazioni individuali, e dunque limitate.
L’unica opposizione insieme concreta e possibile all’ineluttabilità della guerra non può che essere di tipo collettivo, sociale. Che però, almeno fino ad oggi, non ha prodotto risultati apprezzabili. Il ‘900 – secolo lungo delle guerre – è stato il banco di prova di svariati tentativi di risolvere una volta per tutte i conflitti, stabilendo società “pacificate” ed omologate, che hanno prodotto maggiori disastri di quelli che avrebbero voluto guarire. Il “totalitarismo” è proprio stata una risposta ipercollettiva e antiindividualistica al caos politico, una soluzione radicale che avrebbe voluto annullare, almeno nelle sue intenzioni ideologiche, una volta per tutte i conflitti, pacificando dall’alto le società, con i risultati terrificanti che ben conosciamo.
L’unica soluzione possibile che intravvedo – una soluzione persino più utopica di quella del comunismo di Marx – è una radicale uscita dal “ghénos” (letteralmente “genere”, termine che indica “genesi”, “nascita”, ciò in cui ci si viene a trovare fin dalle origini), ovvero da tutte le strutture e gabbie identitarie: nazione, classe, chiesa, partito, etnia, razza, genere, popolo, ecc. – tutte costruzioni che fomentano la guerra, la alimentano alla base.
Una via d’uscita che si serva della categoria spinozista di “moltitudine” – una visione della socialità, cioè, che non è né individualistica né totalitaria. E che, dunque, non si sa bene cosa sia… dato che prevede un gioco equilibristico, al limite dell’impossibilità, tra pulsioni individuali e riconoscimento sociale.
Posso solo rappresentarmela come l’assunzione più radicale possibile del punto di vista etico ed ontologico di Spinoza: ogni essere vivente, umano e non, ha un diritto assoluto all’esistenza che lo fa uscire da ogni gerarchia di valore (e che dunque nega alla radice la superiorità di cui, ad esempio, parla Darwin). Il rapporto tra gli esseri non è verticale ma orizzontale – tutti sul medesimo piano. Mi viene quindi da pensare che la soluzione al permanente stato di guerra degli umani non possa che passare attraverso una tregua ed una pacificazione con l’animalità e con la natura più in generale.
La più convincente espressione di questa pace è quella dello “sdraiarsi tra gli animali” evocato da Elias Canetti: “Bisogna sdraiarsi per terra fra gli animali per essere salvati”, frase da lui utilizzata per illustrare la kafkiana angoscia della posizione eretta (si veda a tal proposito la raccolta di brevi scritti animalisti Un po’ di compassione, edita da Adelphi nel 2007).
Io ho provato a renderla ancor più plastica, attraverso l’immagine dello stare sdraiati su un fianco (non supini) al livello dei fili d’erba: in un campo erboso e fiorito, sentendosi una tra le innumerevoli forme di vita che lo popolano, anzi, propriamente non “una” accanto o giustapposta, ma “con” – con-essere: e allora il calore del sole è tutt’uno con la pelle, le gambe sprofondano nel terreno, il respiro si confonde con il vento, lo sguardo si muove su un piano spaziale orizzontale che non è però frutto di astrazione: un’immagine fin troppo poetica che al momento non saprei, però, tradurre in un progetto etico o politico. Ma non vedo altre strade per lasciare definitivamente la guerra alle nostre spalle.
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Per approfondimenti, si vedano, in questo stesso blog, le seguenti pagine:
sulle cosmologie della guerra
sull’uscita dal ghénos
sull’animalità
sull’antimilitarismo
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Interessanti gli ulteriori elementi di riflessione emersi nel corso dell’ampio dibattito seguito alla mia breve relazione:
-mutamenti nella concezione della guerra – si veda ad esempio la guerra “astratta” con il superamento del corpo a corpo e l’apparente metafisicità della guerra, il suo rapporto strutturale con la tecnica e il progresso tecnologico, la mobilitazione totale novecentesca, ecc.
-pratiche della nonviolenza (da Gandhi alle pratiche del perdono in Sudafrica, argomento che potremmo riprendere nell’incontro di gennaio)
-distinzione tra guerra e conflitto (presente già in Esiodo, che distingue tra una éris – contesa – dura e crudele, non amata dagli umani ma che talvolta si rende necessaria; ed una contesa buona, che pur producendo conflitto e competizione, attraverso la molla dell’emulazione e del gareggiare, e dunque una sorta di sublimazione della violenza, produce progresso);
-concezione orientale (taoismo, buddismo, ecc. – vi è una minore conflittualità nelle mentalità orientali?)
-fondamenti materiali della guerra, che sono ovviamente imprescindibili: Malthus, risorse naturali, demografia, distribuzione della ricchezza, ingiustizia sociale, ecc.
-conflittualità interiore: il pòlemos che è in noi, fin nella psiche e nel linguaggio
-importanza della critica: carattere strutturalmente polemico della discussione (e della filosofia stessa, che fin dalle origini si svolge in una forma tipicamente agonistica, nel dialogo orale che espone i migliori argomenti, battendosi pubblicamente contro quelli degli altri competitori). La filosofia come tormento interiore, ben lontano dall’agognata pace…
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Vi sono riconoscente della vitale riflessione su questo argomento. E’ anche per la mia ricerca di uomo di teatro il motore della ricerca più appassionante, e drammaticamente utile alla comprensione dei paradossi dell’umano agire, dell’orrore. Se avete testi che si possono trasformare in evento teatrale, o già pensati per la scena,informatemi, sono interessato a leggerli e ragionare una possibile forma di spettacolarizzazione del tema. Il grottesco e il surreale di questo argomento è stato fonte di ispirazione per scrivere “Rifiuti Umani”. Un tentativo di mettere sullo stesso piano la guerra, la cacca, Dio, l’amore. Cambiando l’ordine dei fattori… Grazie. Armando.
Si può essere idealisti generosi o cinici egoisti. Alla fine un sano, saggio realismo può aiutare ad effettuare la scelta migliore che potrebbe anche non essere la pace.
Gastone