La Genesi e il perturbante

Sea Lions at Puerto Egas in James Bay, The Galapagos from Genesis,  2004

Proprio mentre stavo ammirando il fulgido lavoro di Sebastião Salgado intitolato Genesi – il progetto durato un decennio di catalogare fotograficamente (ma sarebbe meglio dire, nel suo caso, trasfigurare poeticamente) i luoghi naturali ed antropologici più lontani, irraggiungibili e pressoché incontaminati del pianeta – mi capita tra le mani un romanzo di Georges Simenon di cui non conoscevo l’esistenza, appena ripubblicato da Adelphi, ed intitolato Hôtel del ritorno alla natura (peccato che non lo conoscessi, visto che su questo tema ci avevo fatto la tesi). Il prolifico autore belga-francese lo aveva scritto a Tahiti negli anni ’30 (guarda caso, un luogo mitizzato proprio dalla cultura francese, da Diderot a Gauguin), prendendo spunto da un inquietante fatto di cronaca avvenuto in un altro luogo leggendario, quelle isole Galàpagos dove Darwin aveva trovato non pochi spunti per la sua rivoluzionaria teoria.
Nel catalogo di Genesi vi è un capitolo dedicato proprio alle Galàpagos, isole che ci vengono ritratte se non come un luogo paradisiaco senz’altro come una riserva naturale straordinaria, dove la terra, il mare, il fuoco, i venti si incontrano e danno luogo a sculture mirabolanti, e migliaia di specie animali convivono in pace (una pace che certo non esclude la legge ferrea dell’eterotrofia).
Ed è proprio su questo stato apparentemente paradisiaco ed incontaminato che Simenon aveva puntato il dito e l’attenzione – irridendo al mito secolare che attorno al ritorno alla natura, alle origini, all’età dell’oro (o come si preferisca denominare questo ricorrente moto nostalgico) aveva irretito non pochi intellettuali, pensatori, borghesi, nobili, avventurieri, giovani utopisti.
In realtà l’isola che ci viene restituita dalle descrizioni di Simenon è tutt’altro che paradisiaca: piuttosto straniante direi, ben poco rassicurante ed anzi lugubre e più vicina all’inferno di quanto non lo sia al paradiso. E non si tratta soltanto dei (pochissimi) umani che la abitano e delle loro intricate vicende esistenziali e psicopatologiche (che tra l’altro smentiscono platealmente fin dall’attacco del romanzo la semplicità e la naturalezza cui è, evidentemente, impossibile tornare), ma è la natura stessa a farsi inquietante – anche se, com’è ovvio, si tratta pur sempre di una natura trasfigurata e osservata da occhi umani.
Questa contaminazione tra “sfondo naturale” e visione umana è un elemento ricorrente della letteratura, e questo romanzo di Simenon non fa eccezione, senonché si tinge di una strana cupezza che contrasta in modo alquanto significativo con le trasparenze dell’aria, del mare e con la bellezza che in un luogo così incontaminato ci si attenderebbe di contemplare: così l’acqua diventa di un “rosa artificiale da sorbetto”; la laguna, che pure “s’iridava di tutte le tinte dei coralli, dal rosso intenso al verde smeraldo” rinvia ad un orizzonte che mai “era sembrato così lontano. Era realmente in un altro mondo, un mondo ignaro della terra, incupito da quel sole ancora incandescente”; la nettezza del cielo è “implacabile”; “gli alberi fiammeggiavano nel crepuscolo… gli oggetti assumevano posture inumane: parevano rigidi, precisati, acuiti da un giorno venuto da altrove e non dal nostro sole, come se la terra si fosse raffreddata all’improvviso, come se, fuggendo dalla sua orbita rassicurante, si fosse introdotta in un nuovo sistema di pianeti” – la descrizione perfetta di una radicale sensazione di straniamento: Das Unheimliche, il perturbante freudiano, lo spaesamento allo stato puro!
Insomma, non è affatto detto che l’auspicato ritorno alla genesi, alla fonte originaria del nostro stesso essere, alla “terra” (questione che pure è in cima alle questioni, in termini ecosofici e di sopravvivenza del globo e, oserei dire, di preservazione dell’essere) si traduca automaticamente in una pacificazione delle tempeste e delle angosce umane.
Le edeniche trasparenze cui ci sospingono la visione e l’accorato appello di Salgado sono così (almeno in parte) oscurate dal dubbio umbratile di Simenon: siamo forse destinati ad essere dei senzaluogo e senzaterra sradicati ed infelici – in cima ad un grattacielo o aggrappati ad un faraglione roccioso, ma egualmente scossi dai venti e dalle intemperie?

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

1 commento su “La Genesi e il perturbante”

  1. Non riesco più a leggere romanzi, da diverso tempo. Fortuna mia che le tue note sono indicative come sempre, ma non si incastrano tra le maglie troppo strette della recensione. Fa venir voglia di leggere questo post, anche se in un periodo travagliato come questo, ci si abbandonerebbe forse a qualcosa di più leggero.
    P.S.
    Ho letto da poco due piccole pubblicazioni di Byung Chul Han che consigliavi poco tempo fa, le ho trovate molto interessanti, a tratti quasi illuminanti. Di queste, rispetto a quanto ho scritto sopra, cercherò di fare buon uso.

    “il piacere immediato che non ammette alcuna deviazione immaginativa e narrativa, è pornografico”

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