Concetti-capestro

Elogio della dialettica_Magritte

Luciano Parinetto utilizzava spesso l’espressione “concetti-progetto” per designare quelle categorie o prospettive filosofiche che, anziché ingessare il discorso filosofico in un’autoreferenziale celebrazione accademica (o nella deificazione del reale-reale, che è poi l’astratto-astratto), aprono al futuro e alla trasformazione radicale dell’esistente. Prassi pensante e utopia concreta (non sterile utopismo).
Così come in filosofia esistono i concetti-progetto, esistono anche i concetti-capestro. Tutto, essere, nulla, realtà, verità, sostanza diventano spesso e volentieri, nelle mani e nelle menti maniaco-ossessive di certi ontologisti (ma anche in quelle riduzionistiche o semplificazionistiche di certi scientisti o realisti più del re), concetti che se da una parte si ammantano di solidità e luccicano ammiccanti promesse di risposte definitive alle domande più radicali, dall’altra rischiano spesso di diventare vecchi arnesi della fumisteria reazionaria.
Tutto, essere, nulla eccetera – che pure sono le parole essenziali evocate dai filosofi greci – continuano a metterci di fronte a quella strana/straniata/straniante sfera, che Kant aveva definito del noumeno, che volenti o nolenti finisce per naufragare nel territorio dell’inattingibilità. Il limite, cioè, oltre il quale la mente si smarrisce e si imbarca in direzione dei marosi della metafisica. Ed è proprio l’analisi kantiana del concetto di limite (che è forse il nucleo essenziale del pensiero di Kant) a descriverci con precisione questa inevitabile dialettica con naufragio finale.
Gli è che tali concetti-capestro sono nella nostra mente (che, per quanto lei ne sa e si sa, è finita anche se accetta malvolentieri tale finitezza), o, ad esser più precisi, si danno con la nostra mente. Dunque, è Kant stesso a doverlo ammettere, la genesi di tali concetti e delle relative teorie che su quelli vengono costituite, è pressoché ineliminabile: si tratta, nel suo tipico linguaggio gnoseologico, di dialettica trascendentale – cioè a dire, è la nostra medesima conformazione e configurazione mentale (che, alla visione biologico-scientista, appare quantomai diveniente e contingente) a condurci in quei territori così scivolosi.
Vista da un’altra prospettiva, è la medesima natura umana a porsi in una posizione di autotrascendimento (quell’essere antropoforo di cui parlava Kojéve): autoposizione che però deve fare i conti con gli “invalicabili presupposti di epochizzazione” – e così torniamo nuovamente al concetto di limite, o, meglio, al Grenzbegriff, concetto-limite di cui si parla nell’Analitica trascendentale, e all’invalicabilità che però la nostra mente non riesce, per sua trascendentale posizione, ad accettare. E proprio in questa parte della Critica kantiana rampollano tutti quei concetti-capestro da cui pare non esserci mai uscita, viziosi e circolari per loro natura come sono – le angoscianti anfibolìe (termine utilizzato dallo stesso Kant per evocare l’ambiguità, l’indecidibile esser presi tra due fuochi che caratterizzerà poi l’intera dialettica trascendentale): identità e diversità, concordanza e opposizione, interno ed esterno, materia e forma, e, ovviamente, finito e infinito, il limite di una pensabilità possibile dell’oggetto conoscibile e l’istanza che vorrebbe sfondarne i confini, sciamando fino ai… limiti estremi della pensabilità (ma che, daccapo, sarebbe contraddittorio assumere quali limiti pur estremi, col rischio così di perdersi in un cattivo infinito, come avrà poi a dire Hegel). Fin troppo ovvio, insomma, concludere che il limite è un concetto fatto apposta per essere superato e per smarrirsi in questo suo stesso perenne superamento (che è in verità un autosuperamento e un autosmarrimento).
Perché un’invalicabilità c’è davvero, se è vero che a porre il limite e il suo superamento e ad imbarcarsi nella ventura dei concetti-capestro e negli annessi marosi della metafisica sia daccapo quella mente, o meglio quel pensiero strano/straniato/straniante, che su tutto vuole ragionare e sragionare. Certo, la mente (io, la coscienza, il pensiero, il soggetto) non parrebbe essersi fatta da sola (invalicabile presupposto di epochizzazione), altro-da-lei l’ha determinata ad essere ciò che è e può pensare, ma questo altro-da-lei è comunque un suo pensato, anzi un pensato-pensante (ciò che darebbe ragione alla linea super-idealistica che da Hegel arriva fino a Gentile?). Preferisco lasciare in sospeso, e la corda penzolante.
Che è poi l’essenza, inconclusa ed inconcludente, della filosofia. Un capestro coscientemente scelto, cui ci si lega ed imprigiona vita natural durante.

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Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

29 pensieri riguardo “Concetti-capestro”

  1. @Marta: in realtà si tratta di un post che avevo cominciato a scrivere qualche anno fa, causato quasi sicuramente da una delle tante onde severiniane (o di severinismo) che periodicamente sommergono la Botte, ma che ormai mi lasciano del tutto indifferente (anche perché nella botte non ci dormo più, preferendo le stelle come tetto).
    Suppongo che la spinta a completarlo e a pubblicarlo abbia a che fare con le dissertazioni da te citate. Lascio poi a te (e a chi leggerà) di decidere se il fatto di averne scritto implichi liberazione o un nuovo inevitabile capestro o altro ancora.
    E tra questo “altro ancora” ci metterei anche: “noia” (genesi molto tipica della filosofia), ma anche “tristezza” e persino “dolore”, che, almeno per quanto mi concerne, so lenire soltanto con la scrittura.

  2. L’ironia e lo sberleffo dello scettico nei confronti del pensiero non nasce con Kant, che per altro , aveva trovato il suo di limite, non certo il limite, come d’altronde sottolinei. Da qui a definire che la filosofia nella sua essenza è in conclusa e inconcludente è un dir qualcosa di concluso o un dir inconcludente? Questa inconcludenza della filosofia come conclusione è un concetto-capestro, anzi è un concetto che non vuol essere concetto pur essendolo, è una contraddizione… E allora evviva la contraddizione, d’altronde la scrittura è il suo strumento più potente… 🙂 ( questo più per Marta che per Md, che so arreso alla genesi filosofica)

  3. Anche io, naturalmente, faccio le mie congratulazioni per la capacità espressiva e la produzione estetica che in esse, le parole, albergano sempre, quando a scriverle è Mario, l’unica cosa che di Mario si può criticare è la vocazione al nichilismo, camuffata di modestia: sono “molto”di più i tuoi lettori, infinitamente di più …

  4. grazie per i complimenti, ma temo che la “vocazione al nichilismo”, ammesso voglia dire qualcosa, sia più una faccenda dell’epoca che “mia”, e persino il buon Severino, checché (se) ne dica, ne è imbevuto fino al midollo, non potendo far altro da sessant’anni a questa parte che oscillare schizofrenicamente tra l’erranza, il sogno, la follia, l’errore del suo “io piccolo” e memoriale e il destino della Verità che però non si capisce bene se si autoindichi o se sia indicato da un qualche altro preteso “io grande” immensamente saggio che sa vedere oltre i limiti di tutti i piccoli kantiani di questa terra isolata (e desolata)…

  5. Voglio appunto significarvi, se il senso ha un significato, che il senso del significato “concetto” o non è capestro e allora si sa con senso cosa significhi concetto e cosa innanzitutto e con notevole significato cosa significhi “capestro”, anche se il buon Kant preferiva restare, per sua struttura, nel vago, quando si presentava “l’esser concetto” piuttosto che “l’esser vanga”, bontà sua, o “invece” che il senso del significato “concetto” è “capestro” e allora si sa con senso cosa significhi concetto e cosa innanzitutto, e con notevole significato, cosa significhi “capestro”, anche se il buon Kant preferiva restare, per sua struttura, nel vago, quando si presentava l'”esser concetto” piuttosto che l'”esser vanga”, sempre bontà sua. Insomma, per sapere se qualcosa non è qualcosa bisogna sapere e quel qualcosa e quel non è qualcosa, senza vaghezza alcuna, ma determinatamente, ancorché apertamente e capestramente. Sempre con simpatia per chi si strozza al proprio palo a cui è legato imprescindibilmente..

  6. Insomma, se l'”esser cosa” ha un senso, ancorché metastorico, storico, è grazie alla volontà che gli destiniamo un significato che, attraverso le grandi epoche, costruisce l’insieme dei fatti e dei misfatti che sono in quelle compresi. Se invece questo “essere” non ha alcun significato, né quello storico, come dice Severino nel suo Studi di filosofia della prassi , né quello metastorico, come afferma Marx implicitamente nel primo capitolo del primo libro del Capitale, allora Mario ha ragione… Allora conviene scriver poesie…

  7. Semplicemente Fiolosofiazzero, Severino è rigoroso nell’analisi del pensiero, e chi è abituato a omogeneizzati, la prima birra della vita può far schifo.Personalmente ho letto (studiato, perché Severino non permette la sola lettura, la sola lettura dei libri di Severino produce l’effetto filosofiazzero sul lettore) 30 suoi scritti, non tralasciandone i più importanti. Questo non significa molto, ma significa tanto nella conoscenza di quel discorso. Sarebbe come, per fare un tipico parallelo semantico, decidere che la teoria della relatività per l’umanità è un pericolo (che è lecito dirlo, ma sbagliato affermarlo sulla sola base dell’ignoranza) solo perché è ostica e complicata nella sua conoscenza. La differenza sta nel fatto che Einstein è un’autorità scientifica mentre Severino è un’autorità filosofica. Oggi domina la dimensione scientifica, ma ai filosofi il dominio importa per ciò che concerne il significato di “volontà”. Insomma non basta non conoscere una filosofia per negarla… Sarebbe come se lei, filosofiazzero, dicesse che la relatività generale è pericolosa, questo farà fatica a dirlo solo perché lei è un pusillanime, anche se non se ne rende bene conto, di quella pusillanimità che registra come indifferente ciò che la maggior parte del pensiero accetta solo come presupposto e indiscutibile e d’altra parte crede di poter discutere per ciò che non conosce che sulla base dell’ignoranza (magari degli altri che lo ascoltano. No, non si può negare ciò che non si conosce, significa si può negare solo quella parte che si nega, lei invece vorrebbe negare di essere un’ignorante di Severino, ma a me, come ad Einstein e Severino, questo atteggiamento fa solo ridere, molto…

  8. …sparare su Severino sarebbe (per dire una banalità) come sparare sulla Croce Rossa. O come sparare a un’ombra.
    Ha senso sparare a un’ombra? Sì, finché uno non capisce che è solo un’ombra, La teoria della relatività, lo riconosco, non è un bersaglio alla mia portata.

  9. …no, scusa la imbecillità del mio commento sopra, a me Severino non mi ha fatto nulla, sono io che sono insofferente verso quel tipo (severiniano, per esempio) di speculazioni. Non so che farci. Mi ripropongo, però, da ora, subito, di non volere più parlare di metafisica (che non mi riesce nemmeno) (il che non vuole dire che mi riescano altre cose, intendiamoci!).

  10. La fisica non può essere così come prospettata all’interno del pensiero occidentale, e di conseguenza ogni metafisica che la vuole controllare è un errore.

  11. Il Nulla della fisica intera è la generazione, o anche azione. Ogni fenomenologia e ogni pragmatismo o solo possibilismo ha mostrato indubitabilmente che non c’è, in campo fenomenologico, azione tra eventi contigui, l’azione è quindi una deduzione, ma è un errore prima di esser deduzione, non esiste, non appare, alcun libero arbitrio.

  12. Nel secondo postulato della termodinamica si dice che tutto si trasforma e nulla si crea né si distrugge: si predica il nulla, perché si dice che tutto si trasforma, ma se tutto si trasforma, all’Eraclito che sa bene prima di tutti che si può trasformare nel suo contrario, il niente (anche se non è Eraclito , ma Platone a parlare di niente, Eraclito propone il tema dei contrari) e il suo contrario sono l’oscillare tesso, e quando si dice tutto (significato positivo del nulla) e suo contrario( nulla momento) si dice appunto del nulla. La fisica non consente di rispondere con questa affermazione perché questa affermazione nega la fisica. Ma questo non è un problema di Severino, questo semmai è un problema per la fisica intera.

  13. Ho preferito parlare di contrario e non di “contraddittorio” perché più intuibile nel solco della storia della metafisica, ma oggi è fondamentale parlare di “contraddittorio”, in quanto tra l’uno e l’altro, parlare di contrario è parlaredi una particolare dimensione del semantico apofantico, dove il contraddittorio è l’universale.

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