Epepe – dell’ungherese Ferenc Karinthy – è forse il più geniale romanzo sullo straniamento che io abbia mai letto (un altro, bellissimo, è senza dubbio Nulla, solo la notte di John Williams).
Dopo averlo finito – anzi direi febbrilmente consumato – ci rendiamo conto di conoscere a malapena il nome del suo protagonista, Budai, ma nessun nome delle cose, dei luoghi e delle persone che affollano il mondo (praticamente alieno) nel quale egli viene erroneamente catapultato (a causa di un fatale disguido aereo).
Sarebbe dovuto andare ad Helsinki (è l’unica coordinata geografica che ci è nota al principio della storia), ed invece finisce in questa metropoli allucinante dove affonda come nelle sabbie mobili (la metafora è dello stesso Karinthy).
Due i motivi forti del romanzo. Uno è senz’altro quello linguistico-comunicativo: il protagonista è un linguista che avrebbe dovuto partecipare ad un convegno internazionale e che invece dovrà paradossalmente misurarsi con una lingua della quale non riesce a scalfire nemmeno la superficie (soprattutto della lingua parlata, che pare perennemente cangiante e foneticamente incomprensibile; mentre la scrittura risulta ostica ed impenetrabile, con quei suoi segni un po’ runici un po’ cuneiformi, in realtà del tutto incatalogabili). Ogni volta che Budai tenta di scavalcarlo o di penetrarlo, il muro di suoni e di segni appare insormontabile e tetragono, e lo respinge con violenza.
Ma questo avviene soprattutto per l’altro motivo forte del romanzo – ovvero l’assurdità esistenziale, l’insensatezza (per lo meno così appare a noi, tramite l’occhio del povero protagonista) che pervade il paese straniero dove Budai si è perduto: una metropoli sconfinata, affollata di individui, che vivono caoticamente, al limite della tollerabilità demografica. Code ovunque, strade, locali, metropolitane, taxi sempre ingombri, di giorno e di notte, resse e risse, gente che sciama in ogni direzione, indaffarata, frettolosa, ostile; il risultato è quello di una vera e propria implosione spaziale e temporale, dove non esiste più né un luogo della comunicazione né tantomeno un luogo del silenzio dove si possa sostare e stare per conto proprio – ed è anzi la folla ad esasperare questo senso di solitudine di Budai, il quale viene sballottato da un luogo all’altro, da una coda all’altra, da una sconfitta all’altra, e nonostante gli innumerevoli tentativi di farsi ascoltare, di comunicare il suo problema (e crescente disagio), egli viene perennemente ignorato, schiacciato com’è da questa massa anonima.
Oltre che romanzo dello straniamento, Epepe è dunque anche romanzo pienamente novecentesco dell’alienazione, della reificazione, del disincantamento (ed integrale burocratizzazione) della società: kafkiano, lukacsiano, weberiano. Ma con qualcosa in più: il nostro eroe non si arrende mai, usa l’ingegno, resiste, nonostante la sua costante discesa all’inferno, e mentre le sue risorse razionali ed intellettuali (che pure utilizza a piene mani) lo conducono solo entro vicoli ciechi, vediamo sorgere nella sua psiche aspetti inusitati (che forse nemmeno lui conosceva, soprattutto nel suo lato passionale ed affettivo).
Non solo la rabbia crescente, la stizza, quel gesticolare nel vuoto che genera insieme all’angoscia anche momenti comici ed esilaranti (naturalmente nel lettore, che ha quasi l’impressione di vedere, in alcuni frangenti, scene di un cartone animato d’altri tempi, con l’omino che s’infuoca in volto, fuma di rabbia e pesta i piedi); vi è anche il rapporto simpatetico e quasi-amoroso con Epepe, la ragazza dell’ascensore dell’albergo che dà il titolo (come vedremo equivoco) al romanzo, e che rappresenta per Budai l’unico filo di comprensione e di comunicazione che gli venga casualmente teso. Nonostante, anche in questo caso, ci siano violente oscillazioni di comprensione e di significato, fin nel nome – Epepe – che viene evocato ogni volta con un suono diverso – Bebe, Edede, Tete, Epepep, Tjetjetje, Cece, Devebe: “ancora non era riuscito a chiarire l’esatto valore fonetico delle varie consonanti” -, a significare l’incomprensibilità del suono (di ogni suono e di ogni nome) agli orecchi persino di chi più di ogni altro dovrebbe saperlo cogliere. E già solo questo rende merito alla genialità narrativa di Karinthy, nel saper rappresentare – tramite la lingua – il suo stesso cortocircuito.
E di fatti il racconto è costruito in maniera tale che nel momento in cui si attacca con la lettura non si vuole o non si può più smettere: si è come avvinti da questo impazzimento semantico e sintattico (che però la sapienza della narrazione riesce ancora a governare), mentre si affonda inesorabilmente nelle sabbie mobili con il protagonista. Non si vede l’ora (ma talvolta si teme fortemente) di sapere come andrà a finire – nonostante la crescente angoscia, gli innumerevoli ma vani tentativi di ritrovarsi: di ritrovare il senso, il bandolo della matassa, la via per tornare a casa. Ma c’è ancora una casa da qualche parte? Talvolta è lo stesso Budai a dubitarne, e così il mondo da cui proviene – le consuetudini, i volti familiari, gli affetti – si fanno sfuocati e, anch’essi, lontani e straniati.
La conclusione della storia non può che essere pirotecnica – con il nostro indefesso Budai che, dopo essere caduto nella condizione più abietta di barbone e senzatetto, straniato dal suo stesso straniamento (una stanza d’albergo che, per qualche tempo, era comunque stato un fortilizio da cui partire per i quotidiani assalti contro l’impenetrabile sistema sociale), viene infine risucchiato da una improvvisa rivolta, una sollevazione popolare che sconquassa alcuni quartieri della città e che lo mette oltretutto in pericolo di vita (si pensi cosa può diventare una città in perenne marasma assalita da un surplus di marasma dovuto ad una rivolta!). E qui il nostro eroe, nonostante di nuovo non capisca un accidenti di quel che sta succedendo – chi si ribella contro chi e perché – sente smuoversi qualcosa nelle viscere, e partecipa, almeno con la sua emergente parte emotiva, agli accadimenti di questo strano popolo multietnico e babelico (a Budai viene talvolta il dubbio che nemmeno tra di loro si intendano): condividere lo fa sentire vivo, e quasi restituisce un senso all’insensato.
Ma la rivolta fallisce, e il nostro protagonista si trova punto e a capo. E però daccapo, al culmine della disperazione più nera, scorge un segno, qualcosa – quel che prima sembrava un lago immobile ora pare muoversi, e dunque è forse un fiume che… chissà, magari conduce al mare, altrove… – e noi lo lasciamo lì, appeso a quell’esile filo, senza sapere se si rivelerà l’ennesimo smacco.
Budai è vivo, e finché è vivo non mancherà di tentare di decifrare il caos, l’insensatezza, di dare un ordine a quel linguaggio, a quella moltitudine, a quel mondo del tutto scombinato e impossibile. Un ordine a ciò che, forse per sua natura, non è ordinabile.
L’ha ribloggato su Biblio.Blog Rescaldina.
Butta l’occhio: http://ilmiolibro.kataweb.it/recensione/catalogo/125926/luomo-che-rimase-senza-lingua/
Sì, è tratto dalla prefazione scritta per l’edizione Adelphi. Tra l’altro ho scoperto che in realtà il romanzo era stato già edito in Italia una quindicina di anni fa da Voland