Migranti di tutti i paesi, unitevi!

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La “questione migranti” (e/o profughi) revoca in dubbio in maniera radicale il senso stesso della comunità politica (sia essa europea, nazionale o transnazionale). Non solo: revoca ognuna delle questioni – politiche, sociali, economiche, antropologiche, etiche, simboliche.
Proverò ad allinearle per sommi capi, in un quadro sintetico e non certo esaustivo. Una sorta di promemoria, di memorandum (o meglio, di contromemorandum).
È però necessaria una premessa volta a sgombrare il campo da un equivoco linguistico (la lingua, com’è noto, non è mai neutra). Distinguere tra profughi e migranti, come se solo i primi fossero investiti da un’emergenza umanitaria, è del tutto insensato: ogni migrante è un pro-fugo, un umano, cioè, che cerca scampo, in fuga da una situazione che percepisce come pericolosa se non mortale per sé e i propri cari – siano esse guerra, scarsità di cibo, avversità climatiche, mancanza di libertà/possibilità. Gli umani sono animali costituenti la propria possibilità di vita – è questo il senso profondo del concetto aristotelico di zôon politikòn – e ogni qualvolta tale possibilità viene chiusa o negata, essi hanno necessità vitale di riappropriarsene – in qualunque altro luogo e modo.
La situazione del profugo è quella di chi si trova a gesticolare nel vuoto, e che non è più in grado di afferrare (e di affermare) un senso della propria esistenza. Ecco perché, come tenterò di mostrare, la questione profughi-migranti è anche etico-ontologica, riguarda cioè l’esistenza generica della specie alle sue radici.
D’altro canto è vero che ci sono migranti che non sono affatto profughi – ma questo vale solo per chi abita sul lato fortunato delle terre emerse: chi si sposta più o meno comodamente con la propria laurea specialistica rilasciata a Oxford o Harvard, oppure chi fa il pendolare tra Londra, Milano e Palermo, per quanto spinto da necessità migratorie, non è certo equiparabile a chi vive in un campo libanese, libico, palestinese o turco. Ma ripartiamo dalla madre di tutte le questioni, ovvero la geopolitica.

1. La guerra si continua a profilare come il fondamento di tutte le cose: non continuazione della politica con altri mezzi, come pretendeva Von Clausewitz, ma essenza della politica, e però suo snaturamento profondo (se è vero che la pòlis nasce proprio con lo scopo di gestire la conflittualità e respingerla fuori le mura – ma è fuori le mura che essa poi sempre si ripresenta). D’altro canto la guerra non risolve alcun conflitto, anzi essa tende ad esacerbare rancori e ad eternizzare l’inimicizia rendendola endemica. La lunga (e non ancora terminata) Guerra dei trent’anni mediorientale, fomentata e gestita in primo luogo dagli statunitensi, sta lì a dimostrarlo.

2. E veniamo più strettamente alla questione geopolitica. A onta delle unificazioni post-belliche (l’Europa ne è un esempio) e della retorica pacifista, i rapporti tra le nazioni continuano ad essere caratterizzati dalla logica di potenza e a rispondere a coaguli di interessi socio-economici (tra l’altro alle tendenze unificatrici si accompagnano sempre, dialetticamente, tendenze disgregatrici funzionali ad interessi: basti pensare all’ex-Jugoslavia, all’ex-Unione Sovietica o a tutto l’arco delle nazioni arabe). Borghesie nazionali, corporazioni, coalizioni varie – cui si aggiunge, da qualche decennio, la potentissima finanza internazionale – spingono per affermare i propri interessi, senza mai escludere in tutto ciò l’uso delle armi, spesso per interposti soggetti. Con dinamiche che vanno, però, meglio analizzate: i soggetti principali da lungo tempo non sono più gli stati-nazione, ma è certo che questi rimangono in ultima istanza coaguli di potenza imprescindibili, che ci fanno pensare che la loro funzione non si è ancora esaurita nella cosiddetta epoca post-moderna (una posteriorità che non è ancora chiaro a quali nuovi scenari alluda, ammesso che alluda davvero a qualcosa). Anche la tesi “imperiale” di Toni Negri mostra qui la propria debolezza.

3. A tal proposito, quel che accade dal Marocco all’Afghanistan (e oltre), in tutto l’arco del mondo arabo-islamico, è un processo di scomposizione-ricomposizione (di là da venire quest’ultima) dei vecchi modelli occidentali eteroimposti, eterodiretti o semplicemente nati per mimesi sociopolitica – in assenza però di sbocchi chiari o di modelli alternativi. Ecco perché l’integralismo religioso (che è solo uno degli attori in campo), nelle sue varie forme, ha gioco facile ad infilarsi in ogni conflitto: la vacuità politica richiama altre modalità di organizzazione sociale (prepolitiche o forse persino postpolitiche). D’altro canto il tentativo globale e transnazionale di al-Qaeda essendo fallito, nuove chance si sono aperte per modelli più territoriali, che però non tengono conto dei vecchi confini nazionali, tentando semmai di innestarsi entro discrimini dottrinari più antichi (sciiti, sunniti, salafiti, ecc.).
Tolti Egitto, Turchia e Iran, tutto il resto (Arabia Saudita compresa, per quanto essa goda dello statuto speciale di cuore dell’Islam) appare investito da tempeste ben poco controllabili, il cui esito è ad oggi imprevedibile. La storia non è mai una scienza esatta, ma è probabile che assisteremo – nonostante la riottosità americana e la rissosità europea – ad una neospartizione delle varie zone di influenza in cui la Russia (che evidentemente ambisce a ridisegnare i propri vecchi confini imperiali) avrà un ruolo cruciale.

4. Inevitabilmente masse di popolazioni colpite da queste tempeste geopolitiche (non solo in quell’arco, ma anche lungo l’asse che va dal Sudan al corno d’Africa) si sposta, fugge, cerca scampo, come farebbe qualunque vivente sul pianeta colpito da ciò che ne mina l’esistenza.
È, da questo punto di vista, loro imprescrittibile “diritto di natura” farlo: visto che, spesso a sproposito, si evoca la “natura” come luogo di provenienza di caratteri specifici dell’umano, troverei ben più pertinente farlo in un caso che riguarda la vita o la morte – la possibilità o l’impossibilità di esistenza. Qui le logiche politico-sociali vengono scavalcate da un diritto ben più originario e radicale che attiene al diritto assoluto all’esistenza: ogni individuo, ogni vivente, in quanto affacciatosi alla sfera dell’essere, ha un diritto incomprimibile ad essere e a poter-essere. Nessun confine, stato, nazione, perimetro, bandiera, de-finizione, ideologia, razza, etnia, ghénos può mettere in discussione questo diritto. Ciascuno di quei punti di vista parziali (legati ad una delimitazione e ad un diritto locale) può ignorare quel diritto universale, far finta che non ci sia, tentare di reprimerlo con la forza – ma l’individualità, la nuda vita che sta dietro ad ogni confine, continuerà a reclamarlo e ad urlare (pur senza voce) il suo puro ed assoluto diritto ad esistere.

5. Ne consegue che, come “in natura”, devono esistere non-luoghi, spazi non soggetti alla definizione statuale (una vera e propria contraddizione in termini, dato che dovrebbero essere in ultima analisi gli stati a negare i confini e ad istituire dei non-confini) entro i quali l’umanità in fuga deve poter essere accolta. Anzi, a rigore non si tratta di accoglienza (essendo chi accoglie sempre in una posizione ambigua e verticale rispetto all’accolto), ma di nudo e semplice diritto all’esistenza entro un territorio che non sia assoggettato ad alcun codice identitario, salvo quello della generica umanità. I cosiddetti “corridoi umanitari” potrebbero essere un primo passo verso l’istituzione di questa nazione-non nazione degli umani in fuga.

6. Vi sono poi da analizzare i corposissimi interessi demografico-economici, legati alla divisione internazionale del lavoro. Mai dimenticarsi delle basi materiali dei conflitti. Masse di proletariato (ma anche di borghesia, come nel caso siriano) in fuga, sono appetibili per le esangui popolazioni europee, specie in prospettiva. Senonché vi è in Europa un’assoluta disomogeneità che ogni crisi (si veda il caso greco) mette inevitabilmente in primo piano: mentre è chiaro come la Germania – cuore dell’Europa – abbia interesse ad integrare nel proprio tessuto socioeconomico milioni di migranti nell’arco di alcuni anni, paesi marginali (come quelli dell’Est/Sud Europa) o poco propensi a minare i propri standard ed equilibri sociodemografici (in particolare il Nord Europa) non intendono affatto seguire tali politiche.
Si scontrano qui d’altro canto politiche di lungo e di breve periodo (con un occhio, spesso miope, alle pance dei propri elettori), che tendono a mettere in discussione il senso stesso della comunità europea (nonché quello delle comunità nazionali).
Gli slogan del tipo “aiutiamoli a casa loro” non sono soltanto odiosi, ma del tutto insensati – non essendoci più, a rigore, alcuna “casa” che non sia il pianeta – sia che lo si guardi con gli occhi del capitale, sia che lo si guardi con quello delle utopie cosmopolitiche.
Senonché il capitale (nonostante le ricorrenti crisi sistemiche) riesce bene o male a gestire la dialettica locale/globale ai fini della propria valorizzazione – laddove le politiche antagoniste internazionaliste si limitano a balbettare vuoti ed inefficaci slogan. L’antirazzismo e l’antimilitarismo sono sacrosanti, ma inutili se non producono, sul lungo periodo, un progetto politico-sociale alternativo. Ed è proprio in questo vulnus politico-progettuale (in questo deserto utopico seguito all’esaurimento delle rivoluzioni soprattutto comuniste, o comunque con progetti volti ad esaltare il bene comune contro le logiche individuali e narcisistiche) che fioriscono (o meglio, imputridiscono) ideologie identitarie etniche, sessiste, razziali, territoriali, con tutta la conseguente costellazione di piccole patrie, miti della purezza e consimili sciocchezze.

7. In tutto questo gioco globale non va dimenticato il peso crescente dell’elemento simbolico, che si lega facilmente ai fremiti emotivi e vagamente etici della social-opinione pubblica, e che però non è ancora chiaro quale reale impatto – quale potenza – abbia nel modificare le politiche in campo.
La fotografia di Aylan, il bambino curdo-siriano tragicamente morto sulle spiagge turche e onnirappresentato viralmente in tutti i media del pianeta, ha suscitato un inevitabile (ma non nuovo) dibattito sull’utilità e forza delle immagini scioccanti (e dunque dello shock e delle dinamiche emergenziali quali strategie sia del potere che dell’opinione pubblica o degli eventuali movimenti antagonisti): molti hanno in buona fede pensato che quell’icona terribile – nonostante fosse una delle migliaia di icone possibili – potesse davvero smuovere qualcosa. E per certi versi lo ha fatto: non è un caso che la Germania, che pure ha degli evidenti interessi economico-demografici, non ha potuto resistere oltre una certa misura ad un flusso immaginifico ed informativo che metteva in campo simboli sensibili circa il proprio tragico passato. Muri, filo spinato, campi di concentramento, esodi di profughi, treni blindati, marchiature alle frontiere… la misura etica, al di là del borghese interesse, era comunque colma. Ed Angela Merkel si è mossa di conseguenza. Tuttavia, l’impatto simbolico e la social-emotività (proprio perché emotivi e non strutturati in una dimensione di azione politica continuativa) durano il tempo di un clic. Producono sì effetti, che però si rivelano fragili e di corto respiro.

8. Le conclusioni sono sempre le medesime (dal 1789, dal 1917 o dal 1968 in poi): la necessità di un ritorno politico, e però di grande respiro. Una politica, certo, permeata di eticità, che non si limiti cioè soltanto a “sciogliere” i nodi e “ritessere” i fili sociali – in buona sostanza a creare possibilità di convivenza tra diversi, che è poi lo scopo originario con il quale la pòlis nasce – ma che faccia tutto questo in una dimensione fortemente filosofica. Etico-ontologica (per usare un’espressione forte), secondo quanto dicevo sopra. È entro questo territorio ideale che tutte le questioni vanno ripensate – e, ovviamente, coniugate in una dimensione pratica. Il filo (teorico) da riprendere è quello che va da Spinoza a Marx; mentre quello pratico se non può più riferirsi alle esperienze dei partiti comunisti, non può certo affidarsi al movimentismo dei social network (inane ed inefficace), ma nemmeno alla frastagliata e moltitudinaria marcia di tutti gli indignati del mondo (l’indignazione è cosa buona e giusta, ma non è sufficiente a trasformare il mondo). La rete offre strumenti, ma il contenuto non sta lì. La moltitudine è meglio dei partiti organizzati verticalmente, ma ha un andamento inevitabilmente carsico. Il problema – lo sappiamo bene da Seattle in poi – è che i contenuti non trovano più le loro adeguate forme espressive.
Nel frattempo, i potenti di turno governano le emergenze riproducendole ed eternizzandole.
È proprio la logica scioccante ed emergenziale, che fa leva sulla paura (del futuro e di ogni alterità) l’unica reale ed efficace modalità attraverso cui riescono a farsi legittimare da masse sempre più riluttanti e disilluse. Il potere non è mai stato così nudo in questo suo nutrirsi (e diffondere) sempre nuove fobie.
Ma se non si riprende il filo dell’azione politica – entro moltitudini reali, in carne ed ossa – saranno la guerra, il nichilismo e la disgregazione sociale ad averla vinta.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

8 pensieri riguardo “Migranti di tutti i paesi, unitevi!”

  1. Intervento estremamente interessante. a corollario di quanto condivisibilmente affermato mi pare opportuno far notare che il manifestarsi di posizione ideologiche integraliste non è altro che la conseguenza del riempimento dei vuoti ideologici lasciati dalle dottrine politiche sistemiche che la storia ha visto collassare (ci si riferica in particolare al comunismo). Là dove la barbarie occidentalizzante (e analogamente quella del comunismo imperiale) ha sterilizzato (tramite i ben noti fenomeni coloniali) la diversità culturale di amplissime porzioni del globo (oggi diremmo l’intero globo), il venir meno di certi vuoti simulacri (si pensi al teologia del “mercato” o a quella del “potere al popolo”) ha lasciato inevitabilmente spazio, prestandovi il fianco, a qualsiasi conato ideolgico avesse la parvenza della “salvezza”. In questo senso, l’impossibilità di elaborare alternative alla dicotima stato nazionale – globalizzazione, nasce dalla pressochè totale mancanze di un dibattito critico che non sia quello tra soggetti fortementi legati e dipendenti da sistemi che paradossalmente si contesta. Cosi l’intellettuale di sinistra che propone il ritorno alla vita frugale indossando un maglione di lana merinos e presentandosi al proprio intervistatore in un qualche lussioso superattico romano sa di sconfitta. Non credo che la rivoluzione possa più scaturire da questo occidente opulento e corrotto e nemmeno da un super califfo di stampo nazi-religioso. Piuttosto a questo occidente non resterà che prendere spunto, tramite i suoi infiniti terminali,da qualche comunità socialmente più evoluta (si pensi al Chiapas) e sperare che faccia propri i suoi valori, rinunciando per sempre a quella deriva materialista che non pare avere fine.

  2. @Md

    “Le conclusioni sono sempre le medesime…: la necessità di un ritorno politico… e però di grande respiro. Una politica … che faccia tutto questo in una dimensione fortemente filosofica .. etico-ontologica. È entro questo territorio ideale che tutte le questioni vanno ripensate … ”

    Questa è una tesi hegeliana “in sè” che non potrà mai diventare un “per sè” perchè nessuno, dico nessuno su questo pianeta sarebbe in grado di calarla nella realtà e portarla a sintesi.
    Il mondo degli umani è essenzialmente caos, disordine strutturale che il pensiero idealistico cerca disperatamente, da sempre, di rendere apollineo. Ogni tentativo, come le proposte sopra citate, di placare l’angoscia, progettando un “nuovo mondo”, sarà sempre destinato al fallimento. L’evidente mancanza di senso della vita degli umani produce nelle anime nobili uno scoramento che solo l’utopia, oppio dei popoli, riesce a lenire.
    Domani è un altro giorno, ma mai, dico mai, potrà essere migliore di tutti quelli (infiniti) che lo hanno preceduto.

  3. @Sergio
    Tesi hegeliana contro tesi nietzscheana – sempre tesi sono. Probabilmente ciò che l’umano (e più in generale l’essere) è sfugge ad ogni tesi. Così come, certamente, sfugge ad ogni sintesi organica – ed è bene che sia così. Non voglio un “nuovo mondo” né tantomeno un “uomo nuovo”, che (lo abbiamo visto) portanto solo disastri. Però nemmeno la distopia dell’angoscia e dell’insensatezza mi convincono (forse che sono due facce della medesima medaglia?).
    Mi accontento di una mite orizzontalità spinozista. Che però potrebbe diventare incendiaria.

  4. @Md

    … tutte le questioni vanno ripensate … ”

    Si, ma per farne ché ? Il pensiero (in sè) non produce fatti ma è estremamente consolante per chi lo pratica (mi accontento di una mite orizzontalità spinozista). Prospettarsi (auspicare ?) un ipotesi incendiaria, disarticolata rispetto alla realtà, non è altro che un vano ricadere nell’utopia.
    Coordinare l’azione di miliardi di persone, mediamente pre-disposte ad ascoltare solo favole infantili, ti sembra qualcosa di fattibile?
    Qui non si tratta di accettare melanconicamente la distopia (dell’angoscia e dell’insensatezza), ma di reggere realisticamente l’urto deprimente di una progettualità impotente, guardando negli occhi il feto deforme (genere homo) che la natura (matrigna) ha partorito.
    E’ evidente che lo spettacolo non “convince”, perchè la speranza in qualcosa di meglio (che ci tenga vivi) è dura a morire.
    Morta la spernza, non ci sono “tesi” da salvare. Comunque ci resta molto, anche se solo a livello individuale: la dignità “spinoziana” (l’onestà intellettuale di rimanere “fedeli alla terra”) e il colore struggente che tinge l’orizzonte al tramonto del sole. Tutto questo da svegli. Proibito sognare.

  5. Può darsi che dalla necessità (incombente scomparsa della specie) rinasca virtù. Non sappiamo che cosa ci riserva il futuro, è il bello dell’avere (ma anche del non avere) speranza.
    Da ultimo, penso si possa fare ancora qualcosa che non sia solo riducibile al livello individuale, e che vada oltre la condivisione sui social. Essi sì davvero inani.
    Tengo però fermo il pensiero. Sia esso meridiano o dell’occaso.

  6. @Md

    “Tengo però fermo il pensiero. Sia esso meridiano o dell’occaso.”

    Concordo. Aggiungo anche che una limitata intersoggettività dei valori nel cortile di casa può certamente superare la dimensione individuale e produrre frutti gratificanti.
    A volte, però, ti confesso che, osservando il gatto, “anima semplicetta che sa nulla”, che sui tetti si lecca i baffi, soddisfatto per il lauto pasto che gli ho procurato, una certa invidia mi sorge spontanea ….

  7. “ma di reggere realisticamente l’urto deprimente di una progettualità impotente, guardando negli occhi il feto deforme (genere homo) che la natura (matrigna) ha partorito.”

    Ma tre di queste deformità siamo noi, Sergio, md, io.

    Chissà che, venute meno le asperità materiali che hanno oppresso gli umani lungo la loro evoluzione, non, per dir così, comincino a crescere?

    In fondo, se venissero meno l’impulso a controllare gli altri (nei capibranco) quello all’obbedienza ipnotica (nei membribranco), ed orgoglio e vanità — padre e madre dell’ignoranza (perché il motivo per cui la gente la puoi solo ingannare attraverso le tecniche di suggestione e non insegnargli nulla sinceramente è che, per imparare coscienti di farlo, devono ammettere di non sapere — il che gli è reso impossibile dalla loro natura profonda).

    Cosa fa la “gente”?
    Passa la vita a dire “è terribile” “non ha senso” “è idiota”. Ma quando dice “non ho capito”?

    Ah, dimenticavo: e poi c’è l’invidia.

    Qualsiasi cosa si scriva cercando di pensare, anche su Internet, si deve sopportare il greggebranco che bercia “non ha senso!” “pretenzioso!” “ridicolo!” perché, beh, è come degli esseri impastati con orgoglio e vanità devono difendersi da ciò che non capiscono, ma temono potrebbe pur tuttavia avere un significato.

    Phew.

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