Primo fuoco: Marx, ovvero lo spettro di uno spettro

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Parlare di Karl Marx è forse una delle cose più complicate in ambito filosofico, proprio perché la sua opera non può essere ridotta a quella di un comune filosofo. Non è come parlare di Aristotele o di Cartesio, che, per quanto appassionanti possano essere, difficilmente surriscaldano gli animi e accendono la discussione, fino a produrre schiere di partigiani o avversari, affetti talvolta da incontenibile fanatismo. Il barbone di Marx fa ancora tremare i polsi a un bel po’ di persone…
Lui stesso ci avverte di questa problematicità, in un celebre passo di un breve scritto su Feuerbach (filosofo di cui parleremo a dicembre, a proposito della religione):

“I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo.”

– rovesciando così quasi un dogma del suo maestro filosofo più importante, ovvero Hegel, che aveva invece della filosofia una visione molto più “contemplativa” (nonostante il concetto di “spirito” non fosse poi così distante dalla futura categoria marxiana di lavoro o attività):

“La filosofia giunge sempre troppo tardi… la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo.”

Marx eccede dunque il suo stesso pensiero, poiché inestricabilmente associato da una parte ad una visione essenzialmente pratica, di messa in opera della teoria, e dall’altra ad un’intera fase storico-politica e rivoluzionaria, durata grosso modo un secolo e mezzo, che ancora non si è del tutto esaurita. Questo fa di lui il filosofo per eccellenza della trasformazione, mettendone così il pensiero rischiosamente in gioco. Ed è proprio uno degli elementi forti del marxismo – ovvero la sua pretesa scientificità – a rivelarsi quantomai problematica, se è vero che al socialismo scientifico (qualifica che lo distinguerebbe dai socialismi utopistici, sentimentali e inconcludenti della prima metà dell’800) finisce per sovrapporsi una visione deterministica della storia. Svelatene cioè le leggi, è possibile prevedere (se non predeterminare in maniera rigorosa) quale sarà l’esito dell’accadere storico.
Sembrerebbe quindi esservi una frizione interna al pensiero di Marx tra determinismo (necessità dell’avvento del comunismo) e utopia. Marx pare volersi sempre smarcare da posizioni utopistiche (la III parte del Manifesto, è esplicitamente dedicata a questo tema); d’altro canto proprio il suo materialismo storico, e cioè una concezione anti-naturalistica della storia (e della natura umana) smentirebbe questa concezione deterministica: diversamente dovremmo pensare a lui come a uno stregone o a un profeta, un ciarlatano o un delirante visionario. Ma Marx è un filosofo rigoroso, un analista ed un critico della storia e dell’economia, della politica e dell’antropologia – non prescinde mai dallo studio attento e dall’analisi della società, premessa indispensabile per indicarne la trasformabilità.
Proprio questa osservazione rigorosa lo porta a considerare il mondo umano come un mondo in perenne movimento, essenzialmente storico (fatto dagli umani, non da divinità o entità strane ed astratte) e dunque modificabile (come vedremo, dopo Marx e Darwin – quest’ultimo molto ammirato da Marx – cadono gli ultimi idoli dell’eternità naturale: la natura, le specie, la stessa natura umana non sono fisse ed eterne, ma in perenne trasformazione).

Ma di che tipo di trasformazione stiamo parlando?
Ne ricaviamo un’idea piuttosto precisa in questo breve testo – il Manifesto del partito comunista – scritto nel 1848 insieme all’amico Engels su incarico della Lega dei comunisti – forse il più noto e letto (anche perché Il Capitale è decisamente più impegnativo, per mole e livello analitico), che si apre e si chiude con due frasi celeberrime:

“Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo”
“Proletari di tutti i paesi – unitevi!”

Il Manifesto si apre annunciando dunque la spettralità del comunismo.
Quasi due secoli dopo ci troviamo di fronte allo spettro di uno spettro. Fondamentalmente al radicale fallimento di un progetto, e però alla sua presenza fantasmatica, che aleggia sopra le macerie delle società “comuniste” (o degli ideali che al comunismo si richiamavano), se è vero che la parola “giustizia sociale” vuol significare ancora qualcosa.
Ma non solo il comunismo è quantomai fantasmatico, i proletari (o i soggetti che sotto questo nome possono essere oggi ricompresi) non sono mai stati così disuniti.

***

Ma torniamo alla prima parte del Manifesto. Inevitabilmente è proprio ciò che Marx ed Engels colgono (e per certi aspetti ammirano) della società borghese, che mette chiaramente in luce questo elemento di movimento perpetuo, e dunque di perenne trasformazione e trasformabilità:

“Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le altre”.

Ecco dunque che nel Manifesto, con una mirabile capacità di visione globale e di sintesi, Marx ed Engels indicano proprio gli elementi essenziali di questa perenne trasformazione:

-rivoluzionamento continuo della produzione (sempre nuove merci, sempre nuove tecniche)
-incertezza e fluttuare di tutte le cose
-disincanto generalizzato (il mondo non è né poetico né sentimentale, ed è dunque inutile rappresentarlo così)
-globalizzazione e cosmopolitismo: il Manifesto è forse il primo testo che riconosce il fenomeno inarrestabile della globalizzazione capitalistica
-produzione insieme materiale e spirituale: una visione, uno stile, una Weltanschaaung, che si vanno diffondendo in lungo e in largo sul pianeta

Ma insieme a questa potenza Marx indica anche i limiti e la pericolosità che le sono insiti:
-il macchinismo
-il militarismo produttivo
-la mercificazione
-lo sfruttamento (anche dei bambini)
-il livellamento e l’abbrutimento
-la precarizzazione

La borghesia è come lo stregone che evoca per incanto le potenze sotterranee, ma che non è più in grado di controllare.
La figura dell’apprendista-stregone (da Goethe a Walt Disney) è qui evidente. Ma l’immagine più fedele a questo testo è forse quella letteraria del Signore degli anelli, e di Saruman, il grande capitalista-imprenditore al servizio di Sauron, che dalle viscere della terra trae nuove creature e nuovi eserciti, e che desertifica il suolo e la natura per creare una nuova industria e un nuovo ordine di cose.

Il capitale, quindi, viene chiaramente indicato da Marx come potenza massima dell’attività umana finora comparsa sulla terra – ma nello stesso tempo come potenza che deve essere sociale, non individuale o personale – bene comune, proprio perché comune è in se stesso il sistema produttivo.
È questo il senso vero e profondo di quella che viene indicata come “abolizione della proprietà privata” (al di là delle banalizzazioni che si sono fatte di questo slogan).
Ecco dunque come quella potenza produce, insieme alla ricchezza per pochi le catene per la maggior parte degli uomini – per le moltitudini:
-libertà – è solo libertà di produrre, vendere, comprare (e di vendersi)
-la “persona” è il borghese, che si autorappresenta nella figura di “uomo universale”
-la riduzione della storia a natura, a legge eterna e immodificabile – l’ideologia ipocrita della borghesia, che considera tutto “storico” e dunque rivoluzionabile ma non se stessa e le leggi del capitale.

Questa potenza, però – ed è qui la grande intuizione del Manifesto – è ciò che produce anche la propria negazione: il borghese produce il proletario, che non ha nulla da perdere se non le proprie catene.
Ecco quindi che il comunismo – che non è un’idea, ma la comprensione del movimento storico già in atto – è proprio il movimento che abolisce la proprietà, l’ideologia borghese, ma non lo fa in modo teorico. La forza del comunismo – a parere di Marx e di Engels – sta proprio nel suo essere iscritto nella carne e nel sangue dei proletari, di chi lavora, di chi è sfruttato. È lì, attraverso una inevitabile presa di coscienza, che non potrà non avvenire il passaggio successivo, che non è – si badi bene – la distruzione della potenza capitalistica. Nient’affatto! Marx non vuole socializzare la povertà, Marx vuole socializzare la ricchezza.
Una delle poche definizioni di “comunismo” la troviamo proprio in una pagina del Manifesto, nella parte conclusiva della seconda parte: “un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti”.

Ora se noi analizzassimo e presentificassimo, parola per parola, questa frase, otterremmo una visione che non ha nulla di museale o di spettrale, anzi!

-Associazione: rete, comunità, ciò che costituisce lo spazio del bene comune
-libertà: espressione di sé, attività
-sviluppo: crescita in termini qualitativi, non solo (ed anzi, sempre meno) quantitativi
-ciascuno, ovvero non massa omologata ma
-tutti: moltitudine, insieme di diversi
-condizione: traducibile in limiti sociali, regole, fondamento comune – reciprocità di società e individuo (che oggi potremmo estendere all’intero ecumene, alla natura e alle altre specie).

E non mi pare che tutto questo possa essere gettato nel dimenticatoio della storia.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

10 pensieri riguardo “Primo fuoco: Marx, ovvero lo spettro di uno spettro”

  1. Sintetizzo un pensiero debole.

    Sia Schopenauer che Nietzsche predicavano l’insensatezza della Storia. Partivano dal presupposto che l’uomo integrale era sostanzialmente caos emotivo, corpo che vuole essere. Quindi, erano convinti che la mente che concettualizzava il bene e la giustizia, connotava l’uomo in misura assai marginale. Questo perché la follia che abita l’uomo a stento viene con-tenuta dall’ io razionale (Freud).

    Sia Hegel che Marx, al contrario, erano inguaribili idealisti (utopisti) e pensavano, a torto, che l’uomo era padrone della sua mente e che la Storia era incastonata in un percorso dialettico che avrebbe condotto l’umanità, per il primo a plasmare il reale con assoluta razionalità, per il secondo a ri-organizzare il sociale secondo i canoni di un assoluta eguaglianza.

    Conclusione: se l’uomo “concreto”, come sembra, è fondamentalmente volontà di potenza allora ne discende che il barbuto Marx e il professor Hegel si trastullavano con un manichino teorico, sconosciuto al mondo degli umani.

    L’Umanità si è evoluta ? Si, ma solo tecnicamente. Oggi è il sistema tecnocratico mondiale a gestire il Capitale anonimo e transnazionale. L’uomo-massa non può materialmente progettare nulla e la sua vita dipende dalle strutture tecniche e dalla “pura” fortuna.

  2. Non son d’accordo nell’assegnare a Marx una svolta rispetto ad Hegel. Questo è il paradigma che si continua ad esercitare dell’opposizione di pensiero tra il maestro e l’alievo. Ma che Marx dica appunto che la filosofia ha ad oggi interpretato il mondo e bisogna che ora lo trasformi, non è affatto una negazione di quanto da Aristotele ad Hegel si afferma dell’agire, anzi. La volontà di prassi è l’essenza della metafisica e Marx in questo non si discosta di nulla da Aristotele. Intendo dire infatti che Marx da metafisico vuole la trasformazione, ma questo non nega la volontà di trasformazione del mondo operata dallo Hegel. Il movimento e la potenza sono appunto caratteri della metafisica.

  3. Interessante la posizione espressa da Sergio, ma vediamo di confutarla. Egli dice che sia Schopenauer che Nietzsche predicano l’insensatezza della Storia partendo dal presupposto che l’uomo è volontà di essere: ma questa è proprio della sensatezza della storia, cioè del voler essere un inizio e una fine, la storia appunto. Ora, definire la follia è contenerla, anche quando si vorrebbe estrinsecarla. Questa è la metafisica di Nietzsche e di Schopenauer.

  4. Voglio a questo punto significare i tratti comuni sia di Hegel e Marx, sia di Schopenauer e Nietzsche con i primi due, la loro metafisica. La loro volontà di sapere l’essere.

  5. Può non esserci stata alcuna svolta teoretica o metafisica, nello snodo Hegel-Marx. Però – magari enfatizzo – per la prima volta la filosofia è apparsa per quella che è: faccenda che riguarda tutti e tutte, non solo scuole ed accademie. La filosofia è cosa troppo seria, cioè, perché non se ne occupino tutti gli umani che fanno la storia.
    Che poi la storia da loro fatta sia una schifezza, beh, questa è un’altra storia…

  6. Che la volontà disegni l’essere, questa è il modo in cui si esprime quello, ma la volontà, qualsiasi essa sia, è parte del tutto. Che le parti si neghino conviene loro, in quanto ogni altro da esse differisce per quella porzione dell’esistenza che è l’esser loro stesse. Voglio esser chiaro. Se io guardo il mondo, quello è escluso, anche se compresente, dal mio io. Così è per ogni coscienza. Ma ogni coscienza ,è in questo, ciò che lo differenzia. Se sono io a guardare il mondo quello è senza io, se sei tu a guardare il mondo quello è senza tu. I due mondi che si costituiscono sono per necessità differenti, poiché il mondo senza io è differente dal mondo senza tu, il mondo senza io ha tu, il mondo senza tu ha l’io.

  7. Ci siamo accavallati, non avevo letto la tua. Sulla serietà della filosofia sono d’accordo con te, ci vuole serietà per guardare dentro le cose, ma tutti hanno questa serietà? Anche la serietà è una volontà.

  8. Altrimenti anche la serietà è una volontà. In questa volontà di distribuzione dell’essere, volontà non differente a quella cristiana, si mostra il tramonto del marxismo e della sua metafisica. Esser convinti che il proprio mondo, quello senza l’io, sia modello dell’essere, questo volere è la vera volontà d’interpretazione del mondo. Ma questa volontà non è nulla , nulla è il suo contenuto, quando questa vuol diventare anche quella, cioè quando il mondo senza io vuole indentificarsi al mondo senza tu.

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