Emily Dickinson è una poetessa incendiaria. Una cantrice, come poche altre, della bellezza dell’essere, delle cose e della natura, e – insieme – dell’incongruenza umana (e dell’abissalità divina) – condizione umana che però, dall’assurda soglia su cui si trova in bilico, è pur sempre in grado di evocare l’inferno e il paradiso, la vita e la morte, la comunanza assoluta e la disperata solitudine. Un canto totale per voce e sentimenti.
In questa poesia, definire l’ape “dissoluta di rugiade” e se stessa desiderante “qualche giorno di gala” (nell’originale – some gala day – suona meglio), colloca la Dickinson in un vertice emotivo, e pure filosofico, difficilmente raggiunto da altre voci e menti umane.
Da leggere e delibare piano, a voce alta…
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Portatemi il tramonto in una coppa,
numerate i flaconi del mattino,
contate la rugiada;
ditemi dove il mattino si spinge,
ditemi quando dorme il tessitore
che ordì l’azzurra vastità!
Descrivetemi quante son le note
dell’estasi del nuovo pettirosso
fra gli attoniti rami;
quanti viaggi fa la tartaruga,
e quanti calici deliba l’ape –
la dissoluta di rugiade!
E chi fece i piloni dell’arcobaleno
e chi conduce le docili sfere
con vincastri di tenero azzurro?
Quali dita intrecciarono stalattiti,
chi conta i chicchi della notte,
perché nessuno manchi?
Chi costruì questa casetta argillosa
e così forte chiuse le finestre
che il mio spirito nulla può distinguere?
E chi mi farà uscire qualche giorno di gala,
con ali per volare
più belle d’ogni fasto?
Confermo! Incendiaria e lapidaria!