Intransigenza

Premesso che
1) sono molto rispettoso delle credenze e delle fedi di chicchessia
2) chiedo reciprocamente a chicchessia di esserlo del mio ateismo (anzi non-teismo) e del mio materialismo radicale
3) sono incline al relativismo piuttosto che all’antirelativismo
– non transigo tuttavia (e dunque su questo non sono per nulla relativista) sul principio illuministico, laico e libertario dell’assoluta neutralità statuale e politica per quanto concerne le suddette fedi e credenze (e ciò vale anche per le ideologie e le filosofie, naturalmente). Che dunque chicchessia può liberamente professare (se lo crede), ma senza imporle alle leggi e ai fondamenti dello Stato, né tantomeno agli altri cittadini. Su questo non transigo e sono disposto a fare le barricate: lo Stato deve rimanere non religioso, non etico, non morale, non teista, non ideologico. Senz’arte né parte. Senz’amore né sapore (nun avi né amuri né sapuri, dice il detto siciliano).
Poiché la globalizzazione impone convivenze e mescolanze forzose tra diversi, in assenza e però in attesa di future, sperabili ed utopiche armonie – molto meglio una società di cittadini che siano “stranieri morali” ma che non si facciano la guerra.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

12 pensieri riguardo “Intransigenza”

  1. Concordo su quanto hai scritto. L’unica perplessità riguarda la frase:
    “lo Stato deve rimanere ……., non etico, non morale, ” che cosa intendi, esattamente?
    Visto che lo Stato comunque siamo noi, una certa etica e una certa morale ci dovrebbero essere, anche per evitare che molti, come avvenuto e avviene, non continuino ad approfittarsene e ad essere tutt’altro che onesti nelle loro azioni, soprattutto amministratori e governanti che dovrebbero darci il buon esempio.

  2. @Neda: questo è in effetti un problema, e non credo sia risolvibile. Diciamo che dovrebbero esserci due possibili soluzioni: o una sintesi etica, o un’etica minima. Propenderei per quest’ultima soluzione perché ogni volta che lo stato si fa etico sorgono disastri. Tu dici “una certa morale” o “una certa etica”: appunto, “una certa”, posizionata nel tempo e nello spazio, che non è detto che sussuma tutti. Se poi si pensa ad un’etica (o ad uno stato) globale, risulta ancor più impossibile. Ecco perché, provvisoriamente, la soluzione degli “stranieri morali” del filosofo morale texano Engelhardt mi pare la meno sanguinosa. Dopo di che, ci sarebbe anche da pensare, in prospettiva, alla faccenda dell’estinzione dello stato, ma quella sì che è ancora un’utopia, anche perché richiederebbe cittadini del tutto autocoscienti ed autodeterminati.

  3. In verità c’è anche la questione del distinguere tra ciò che è eticamente rilevante in ambito pubblico e ciò che non lo è: se rubare (per lo meno alle casse pubbliche) lo è senz’altro, fare le corna lo è?

  4. Argomento molto interessante.
    Ieri mi era capitato di scrivere che della religione di chicchessia “non mi interessa un fico secco”: un’espressione davvero infelice, e oltretutto non vera. Perché in realtà mi interessa eccome, soprattutto cercare di comprendere l’origine e la funzione delle religioni, nonché la dimensione del sacro nella storia dell’umanità. E molto altro di cui adesso non mi vengono le parole, ad esempio dei rapporti fra stato, religioni e morali.
    Poco fa ho scritto quattro pensierini del sabato pomeriggio, che sottopongo alla vostra attenzione. Ovviamente non sono esperta, né giurista e niente del genere. Sarebbe interessante saperne di più, ascoltare o leggere chi ha studiato più a fondo queste questioni. Quindi, correggetemi se ho scritto delle sciocchezze. Intanto, secondo me:

    Lo stato non è tenuto a formulare espressamente una morale, bensì a legiferare con delle norme che sono esse stesso frutto della morale del tempo in cui si vive – con un certo scarto rispetto all’evoluzione della morale pubblica maggiormente condivisa al presente, cosa per cui le norme devono essere costantemente aggiornate e riviste. Perciò, è dalla struttura del corpo delle leggi che deduciamo lo stile della morale dominante, o che era dominante nel momento in cui è stata enunciata una certa legge, o un certo corpo di leggi.
    Quindi lo stato di diritto stabilisce non solo dei diritti, ma anche obblighi e divieti, i quali delimitano un campo entro cui si è liberi di esercitare i propri diritti.
    Da questo possiamo dedurre che la morale non può essere inculcata da leggi che non corrispondono al sentire comune – e in realtà, quando si cerca di farlo non funziona mai, nasce il malcontento popolare e la gente prima o poi rifiuta si ribella a delle leggi che ritiene ingiuste. A meno che sia totalmente sottomessa o impotente.
    Ma c’è anche il problema sollevato da Neda. Come mai tanta corruzione? Mi vien da pensare che la corruzione nasca da un fatto che si potrebbe definire schizofrenico: ossia quello di servire due padroni. Ad esempio: come amministratore servo lo stato, ma nello stesso tempo (e qualche volta anche di più) servo i miei interessi, ovvero la pecunia. Su questo aspetto faccio notare come, se da una parte è molto in voga la religione del dio danaro, d’altra parte è molto in disuso quella che potremmo definire religione civica – e lo stato ha fatto ben poco per diffonderla. Sempre se ritenete ammissibile l’idea o la possibilità di una religione civica.
    Del resto noi siamo cristiani – tutti siamo cristiani, anche gli atei e i non-atei, e per certi aspetti anche i musulmani e gli ebrei, visto che le tre religioni monoteistiche derivano dallo stesso ceppo.
    E siccome siamo cristiani, anche senza rendercene conto abbiamo dato più valore e importanza alla religione tramandata dai nostri padri che a quella “religione civica”, che conosciamo ben poco, perché non ci è stata trasmessa. E se non è stata trasmessa è perché non è stata coltivata. Quello che si pensa, e che evidentemente si è verificato nella pratica, è che la religione, ad esempio la nostra religione cattolica, sia la depositaria delle leggi morali, cosa per cui nelle scuole si è dato spazio all’educazione della religione cattolica, e, a quanto mi risulta, ben poco spazio all’educazione civica.
    Da una parte è anche vero che la religione, e per ora mi riferisco a quella cristiana, per secoli è stata depositaria delle leggi morali. Ma, dal momento in cui, la religione ha perso potere – o come diceva Nietzsche, Dio è morto – c’è stato un vuoto di potere in cui hanno potuto prendere il sopravvento altre morali, ad esempio quella del dio danaro, e dei consumi. E questo è un bel problema.
    Questo non significa che la morale, nemmeno la morale insita nella religione, possa essere inculcata dall’esterno se non esiste o non sorge per necessità in ogni cuore, se non vi si aderisce nell’intimo. La morale non può essere “posticcia”; ma nasce, si manifesta, si trasforma e si tramanda attraverso le pratiche di vita comuni.

  5. Lo Stato dovrebbe essere il garante dei diversi tipi moralità, che compongono gli individui che formano la società civile, ma nello stesso tempo dovrebbe creare le basi per fare in modo che il singolo si riconosca nello Stato, si senta appartenere ad un’entita superiore che tuteli la sua morale individuale, attraverso quello che è il principio di laicità. Questo principio però deve essere il presupposto per tutti gli altri, per tutte le leggi morali a cui aderiamo in base anche ai contesti in cui viviamo, le esperienze che facciamo. Lo Stato dovrebbe solo essere posto come il baluardo dei valori in cui l’individuo si riconosce ed il collante che lega questi diversi valori e ne garantisce il rispetto. Ogni azione dei cittadini,che riguardi la loro sfera religiosa, strettamente connessa quindi alla privata, dovrebbe essere per lo Stato neutrale, nei limiti imposti dalla legge. Una legge che dovrebbe tutelare la libera scelta del suo cittadino, guidandolo, per evitare che la morale di uno prevalga su tutti gli altri.
    Purtroppo ciò non è del tutto possibile, perchè siamo umani, e perchè la laicità segue le esigenze delle società,che adesso è in continuo movimento, alla continua ricerca di se stessa.
    Mi scuso se mi sono intromessa in questa conversazione, non ho le conoscenze filosofiche adeguate per addentrarmi in un dibattito di così alto spessore, quindi spero di non aver detto castronerie. Ho cercato comunque di esprimere il mio pensiero in merito.
    Saluti,
    Giulia del Centro Studi Laicità.

  6. Forse non sarà perfettamente attinente al post, ma è un po’ che mi gira in testa questo ragionamento. Si parla, sempre più spesso, forse per seguire una qualche vulgata radical-chic, di islam moderato, e perciò del concetto di tolleranza religiosa. Fermo restando che credo sia un ragionamento valevole per tutte e tre le religioni abramitiche, e che mi scuso per la scarsa preparazione a livello teologico, vorrei affrontare il ragionamento dal punto di vista logico. Non so’ se nel Corano sia espresso con parole esplicite, ma certamente per quel che riguarda la Bibbia (e quindi per Ebraismo e Cristianesimo), nel primo comandamento viene detto:
    “Non avrai altro Dio all’infuori di me”
    Ora secondo me qui sta il seme dell’intolleranza. Se io dicessi a un altro che può credere in un Dio diverso dal mio, ammetterei implicitamente (e anche esplicitamente) che Dio non è unico, ma ne esistono per lo meno due. Cioé, la tolleranza religiosa è compatibile solo con il politeismo, oppure dovrei ammettere di non essere un credente. E qui entra in ballo la questione della moderazione. Se io non dovessi seguire tutti i precetti dettati dal Dio in cui credo, potrei ancora considerarmi un credente? Applicato all’Islam, l’essere moderati non equivarrebbe al non essere musulmani? (Ovviamente vale anche per le altre religioni, specie monoteiste)

  7. Trovo molto interessanti e pertinenti le riflessioni di voi tutti/e.
    Che, pur nel premere degli eventi, richiedono – come hanno richiesto per secoli – tempi lunghi e modalità profonde ed ampie di elaborazione concettuale.
    Certo è che la questione riguarda in particolare la modernità, quando si vengono a costituire formazioni statuali estese e complesse, che – specie nell’epoca più recente – comportano spesso la convivenza di comunità eterogenee (il cosiddetto “multiculturalismo” osannato da alcuni, respinto da altri – direi inutilmente visto che si tratta comunque di un processo storico che parrebbe inarrestabile).
    Da Westfalia in poi, in particolare per quanto concerne la religione, il nodo riguarda proprio la convivenza – entro una comunità sempre più ampia e complessa – di diverse fedi, spesso incompatibili (il monoteismo, come rilevato da Luciano, ammette un’unica verità, ed entra inevitabilmente in conflitto con il principio di laicità/neutralità dello stato).
    D’altro canto è vero anche che la mia idea di stato minimo (per lo meno in campo etico/religioso, altro discorso invece credo debba essere fatto sullo stato sociale) è forse una chimera: in ogni legge, anche la più minuta, c’è forse una carica etica di qualche tipo.
    Forse dobbiamo tornare – tanto per cambiare – ai fondamentali: non credo ci si sia spostati poi di molto dal dibattito sei-settecentesco dei filosofi in ambito giuridico: giusnaturalisti, assertori della “religione civile” (interessante quanto dice in proposito rozmila, che mi ha fatto venire in mente l’ultima parte del Contratto sociale di Rousseau) – ma forse, ancor più, il modo in cui Kant pone infine la questione: se la “legge morale” (razionale) non è in me, difficilmente può stare fuori di me, in uno stato o nelle leggi.

  8. Storicamente ci si mette insieme e si fa gruppo e per delle necessità pratiche legate alla sopravvivenza, ma in mancanza di tecniche adeguate per sottomettere la natura questa si ribella spesso, (quantomeno si fa i fatti suoi incurante delle umane sorti) non rimane quindi che antropomorfizare le cose di cui si ha bisogno e cominciare a pregarle, quando addirittura non offrirgli qualche sacrificio, sperando che esse si plachino. Si fa un favore per riceve un favore più grande, ecco l’origine dello scambio disonesto.
    La religione inquina tutto sin dall’inizio, il teatrino però peggiora ulteriormente, nel momento stesso in cui i valori simbolici si spostano dalla religione alla religione del profitto, si corrompono cioè le premesse iniziali.
    La popolazione si divide in due, quelli che lavorano e quelli che lucrano sul lavoro degli altri, ed è storia molto più antica di quello che si pensi.

    http://blogdeltaser.blogspot.it/2013/08/amargi.html

    Ancora oggi l’oggetto di culto (prima il bastone, poi la croce, poi il libro, poi il pezzetto di carta o metallo e infine il medium tecnologico che lo contiene) come un totem viene caricato di significati simbolici e una volta agitato in faccia alle masse riesce ancora a sottometterle alla logica della sudditanza.
    Smettere di usare il petrolio ed emanciparsi quanto più possibile dal denaro tornando a una vita più autosufficiente legata a ritmi più naturali (senza per questo escludere la tecnica) significherebbe emanciparsi proprio da quei totem che ci rendono schiavi.
    Mi dispiace che suoni un po’ “complottista” ma il mondo è sempre stato governato da clan (intesi come famiglie allargate) e il collante di queste può essere una morale religiosa conveniente e distorta o la mancanza più assoluta di moralità stessa.
    Potrebbe essere che stiamo assistendo semplicemente a questo ancora oggi, quando vediamo bombe, attentati o guerre…una semplice guerra tra clan più piccoli che si schierano ignari dalla parte di clan più grossi facendone gli interessi in maniera più o meno consapevole.

    P.S. Non svuotiamo definitivamente la parola moralità di ogni significato positivo, è già agonizzante e quasi morta a forza di essere confusa con il suo alter ego cattivo, il moralismo.

    ciao

  9. Penso che intendesse dire che lo stato deve rappresentare l’insieme delle regole necessarie perché ciascuno di noi possa esprimere liberamente, ma senza invadere la libertà degli altri, le proprie vocazioni. L’etica, come tutte le altre categorie umane, deve appartenere alla società civile della quale lo stato, appunto, deve essere garante. E’ l’idea dello stato di diritto che, mi permetto di dire, dobbiamo difendere ad ogni costo.

  10. Le corna se le tiene o meno chi le vuole subire o non le vuole tollerare. Nel primo caso, lascia il suo partner, nel secondo caso, se lo coccola. L’importante è che non leda la libertà dell’altro (del partner, in questo caso). Ho “tradotto” quello che hai detto.

  11. Leggendo i vari commenti a questo scritto, nonché lo scritto stesso, mi sembra che l’autore dell’articolo sia quello che abbia le idee più chiare sullo stato di diritto e più coformi ad esso. Mi sembra, cioè, che egli abbia chiara in mente la differenza tra l’elemento qualitativo delle dinamiche contemporanee, consistente nella società civile, e quello quantitativo, consistente nello stato. Lo stato di diritto, in effetti, deve rappresentare sempre più il luogo in cui, attraverso delegati del popolo, si debbano discutere le varie posizioni etiche sviluppatesi in seno alla “quotidianità” ma non un luogo in cui si debbano cristallizzare determinate istanze. E’ fondamenale che questo venga salvaguardato perché solo in questo modo può essere tenuta in vita quella dialettica tra gli uomini che da sola garantisce lo sviluppo dell’uomo, così come avviene in una discussione privata tra poche persone. Non è un caso che le società più avanzate e sviluppate siano proprio quelle in cui maggiormente viene garantito questo principio democratico. Uno stato che recepisse solo una parte (quella maggioritaria) delle esigenze etico-morali del popolo scadrebbe in quella degenerativa forma di democrazia che è il populismo, nella quale, alla dialettica “cittadino-cittadino”, si sostituisce quella tra “burocrate-cittadino”.

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