Avevamo parlato due anni fa dell’arte. Ora è il turno della bellezza, cui inevitabilmente questa rinvia. Ma se l’arte è il fronte oggettivo, visibile, espressivo del mondo estetico, la bellezza ne è lo sfuggente lato soggettivo, legato al gusto e al piacere individuali.
Arte (e natura) si stagliano – sterminati e muti – di fronte a noi, laddove è il sentimento della bellezza in noi a scuoterci. Ma donde viene questo sentimento? Come si è formato? Cos’è?
È questa la domanda – che possiamo volgere anche nella forma classica, e un po’ abusata, del bello in sé o bello per noi: è bello perché ci piace o è bello perché lo è in se stesso?
Già la formulazione di questa domanda richiede un chiarimento terminologico tra piacere e bellezza, ma ci torneremo tra poco.
Cominciamo col dire che i filosofi hanno risposto in modi diversi al quesito, e che solo da un paio di secoli e mezzo è nata quella disciplina filosofica denominata Estetica, che si occupa di bellezza, di gusto, di arte in maniera sistematica, cercando di fare ordine e chiarezza in questo campo, sia a livello percettivo che formale.
Naturalmente la discussione filosofica sul bello nasce già con la filosofia, in Grecia: Platone, ad esempio, se n’è occupato in alcuni celebri dialoghi.
Avevamo già parlato del Simposio e della sua concezione del bello (legata all’éros) come ascesa dalla sensibilità alla spiritualità: motivo per cui in Platone (e nella tradizione da lui inaugurata) si può parlare di un bello oggettivo, ideale, in sé, che prescinde dunque dal piacere o dalla sensibilità – che ne è anzi, per certi aspetti, quasi una negazione.
L’idea del bello è il modello universale, la forma eterna di cui le cose belle partecipano, essendo destinate tuttavia a passare e a morire. Tale idea viene a coincidere nella filosofia platonica con l’idea di bene – dando così compimento a quella tipica espressione greca che lega il bello al buono, kalos kai agathos: idea secondo cui la bellezza è virtuosa e chi possiede virtù non può non essere bello.
Sarà Immanuel Kant, di cui parleremo stasera, a rovesciare questa prospettiva, conferendo alla bellezza, al gusto e all’estetica una caratterizzazione soggettiva, legata al sentimento piuttosto che alla ragione o al mondo delle idee. Che però non significa, come vedremo, arbitraria.
C’è un primo testo nel quale Kant si occupa di queste faccende, un testo “giovanile” (anche se in verità è già un quarantenne quando lo scrive), ovvero le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, opera che però più che un trattato filosofico di estetica, pare quasi un divertissement letterario, a metà tra la psicologia, la descrizione di costume e l’antropologia – anche se già qui si trovano alcuni concetti chiave della sua estetica matura (quella della Critica del giudizio): in particolare la fondamentale distinzione tra bello e sublime, e la priorità del sentimento sull’intelletto – ma poi lo scritto prende tutt’altra strada, dilungandosi in una raffinata (talvolta convenzionale e un po’ scontata) analisi dei caratteri umani in relazione al sentimento del bello (con tanto disquisizioni su differenze di di sesso e di nazione – una parte dello scritto piuttosto indigesta, ma che va tuttavia storicizzata). A testimoniare in ogni caso l’implicazione pratica, antropologica, etica che il gusto e la bellezza hanno nella vita umana: tale concezione può essere riassunta nella formula che lega il “sentimento della bellezza” a quello della dignità della natura umana – una vastità del sentire che ricomprende ogni altro umano, se non ogni altro ente e vivente (benevolenza e rispetto universali).
Ma è nella Critica del giudizio – opera matura e terza delle Critiche che formano il sistema compiuto della filosofia kantiana – che troviamo chiariti i concetti chiave della visione del bello. Intendo qui richiamarli brevemente, senza però entrare nella complessa relazione che essi hanno con le altre due Critiche.
1) disinteresse del giudizio estetico: il piacere del bello è scevro di ogni interesse, laddove il piacere del piacevole no; così come il buono è utile, laddove il bello è a rigore inutile;
2) il piacevole ha a che fare con la sensazione, il bello col sentimento: il bello, diversamente dal piacevole e dal buono, è esclusivo degli umani, ed è l’unico ad essere libero e disinteressato;
3) forza e necessità (sentimentale non logica) del bello: chi giudica bello qualcosa pretende che lo sia come se la bellezza appartenesse all’oggetto giudicato. Un’universalità soggettiva, senza concetto: ma vi è sempre la possibilità di comunicare universalmente tale stato d’animo;
4) libero gioco delle facoltà conoscitive (fantasia ed intelletto) non costrette ad una conoscenza oggettiva – così Kant sintetizza: è bello ciò che piace universalmente senza concetto;
5) fondamentale la distinzione tra scopo e finalità: il bello non ha scopo, e l’esperienza estetica ha a che fare con la finalità formale, priva di sapere o di intenzione pratica, ma colma di contemplazione: si contempla ciò che – in natura – ha il fine in se stesso, non è determinato da una volontà esterna, non deve servire a qualcosa, o esservi piegato. L’esperienza del bello è così pura contemplazione;
6) viene ribadita e sistematizzata la distinzione tra bello e sublime: bello è ciò che ha misura e forme determinate, armonia, compitezza, laddove sublime è lo smisurato, il meraviglioso, il terrificante – un prato in fiore contro l’eruzione di un vulcano o una tempesta marina, una sonata di Corelli contro la sesta sinfonia di Mahler;
7) concludendo: Kant definisce il Giudizio (la facoltà del gusto e del bello) come l’elemento in grado di mediare e unificare ciò che altrimenti rimarrebbe scisso: l’intelletto e la ragione (la conoscenza e la morale) e, addirittura, la possibilità di trovare nella natura una sintesi unitaria, un unico fine (che non è oggettivo o conoscibile, ma solo un nostro modo – piuttosto piacevole e rassicurante – di intenderla: Kant dice “come se si trattasse di un caso felice e favorevole al nostro scopo, noi proviamo un sentimento di piacere (propriamente, di liberazione da un bisogno)”.
Come dire che la bellezza risplende in un mondo altrimenti ripetitivo, meccanico, forse addirittura insensato o, sul lato strettamente umano, fin troppo impigliato nell’agire pratico, nei doveri della vita, nella fatica e nel dolore dell’esistenza. La bellezza è ciò che posso sperare che sia: un mondo in armonia, non in sé, ma per noi – come se…
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Concludo con due brevi testi: il primo raccoglie i miei consigli di “quotidiana dose modica di bellezza”; il secondo un celebre aforisma di Plotino, filosofo neoplatonico del III secolo d.C.
Dose modica di bellezza
Innanzitutto passeggiando. Una camminata, anche breve, non deve mancare mai; la vista degli alberi, delle loro forme e colori cangianti; pochi attimi di sole, quando c’è, un sole generoso che dispensa i suoi raggi obliqui anche dalle curvature invernali, sempre più corte; talvolta la fortuna di un tramonto, spezzato dalla linea frastagliata dell’orizzonte e intarsiato dall’intrico dei rami; uno sguardo, una stretta di mano, un bacio, un abbraccio, un soffio sul collo; il buongiorno a uno sconosciuto; il movimento di una sinfonia calcato bene dentro le orecchie; alcuni versi del poeta preferito del momento; la pagina di un romanzo; un pensiero, a volte sfarzoso a volte striminzito… è sufficiente una dose modica di una qualunque di queste cose. Ma ogni giorno ci deve essere, non deve mancare mai. Prima che si compia, breve o lungo che sia, perché potrebbe non tornare.
Il poeta austriaco Georg Trakl diceva in una sua poesia che amo spesso citare “è preparato un bene e un male“. Ogni giorno è così. Non posso granché prevenire il male, posso solo sperare di non incapparvi o sforzarmi di non commetterlo. Ma certo è nel mio potere inocularmi un frammento di bellezza – prima che tutto precipiti nel nulla.
***
L’occhio non vedrebbe mai il sole
se non fosse simile al sole
né l’anima vedrebbe il Bello
se non fosse bella.
a tal proposito, riferendomi ai tuoi consigli di quotidiana dose modica di bellezza, aggiungerei in finale un terzo breve testo appartenente al gran “camminatore” Thoreau tratto da Walden:
Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, vivere mi è troppo caro; né volevo praticare la rassegnazione, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere in profondità e succhiare tutto il midollo della vita…
è splendida vero?
ciao 🙂
sì! 🙂
per chi ama Plotino – non bisogna , vedendo le bellezze dei corpi,precipitarsi ad esse , ma si deve, sapendo che sono IMMAGINI, ORME e OMBRE , fuggire verso quello di cui queste sono immagini-