A ben pensarci la storia della filosofia è leggibile (anche) come una lunga, estenuata e mai terminata riflessione sul concetto di limite. Premesso che il limite è ciò che sempre ci definisce (la corporeità, i sensi, la pelle, il tempo, la morte, la quantità di cose che sappiamo o possediamo, il potere, e l’annessa illusione di superare tutti questi limiti fisico-naturali o spirituali), i filosofi non hanno fatto altro che ragionare su questa linea immaginaria che da una parte ci imprigiona e seppellisce in un corpo e dall’altra ci fa credere di poterne forzare le implacabili catene.
Quasi che ogni filosofia altro non sia stata che una riflessione attorno a quella linea – e del resto già la meta-fisica, fin nel nome (pur originato in maniera contingente), che cos’è se non l’immane sforzo di forzare i limiti della percezione, per vedere che cosa si nasconde dietro o che cosa c’è oltre?
Così, Anassimandro fissa ab origine l’elemento essenziale di questa filosofia del limite: altro non siamo che la determinazione che esce da e ritorna all’indeterminato, linee e forme che si affrancano dall’abisso del nulla per un breve momento, destinate a sfrangiarsi in un subitaneo ritorno nel caos dell’informe e del senza-limite.
In Parmenide il limite è duplice: il confine che segna la strada della verità e quella della falsità, ma, ancor più interessante, è la linea che demarca la sfera dell’essere – posto che ciò che è concluso è ben più perfetto di ciò che rimane aperto e indeterminato.
Eraclito fa della misura e della dismisura uno dei cuori pulsanti della sua filosofia – lo smisurato, il senza limite essendo qualcosa di terrorizzante, un fuoco che divampa e che ci consuma, salvato solo dalla composizione armonica degli opposti – equilibrio peraltro instabile.
Platone dissemina di limiti (e di forzature di quei limiti) la sua allegoria più celebre – cos’è la caverna se non una netta demarcazione tra il dentro e il fuori, la luce e le tenebre, la doxa e la verità, la follia e la ragione (su quest’ultimo crinale si potrebbero avere seri dubbi). Ma cos’è soprattutto la dialettica, se non l’arte di delineare, resecare e ricucire i rapporti tra tutte le cose?
Aristotele: terra e cielo, movimenti lineari e movimenti circolari. Ma soprattutto l’enorme Begierde conoscitiva, la mania classificatoria: stabilire confini e demarcazioni in ogni dove, etichettare ogni ente, collocarlo entro una precisa struttura gerarchica.
Il Medioevo filosofico – che pure è ben più arzigogolato e mosso – lo costringerei tutto quanto, per comodità, nella linea demarcatoria più classica, quella tra ciò che muta e ciò che non muta, tra le creature e il creatore intrasmutabile. Dio è il confine inaccessibile – e gli umani si danneranno tutte le volte che violeranno il proprio limite creaturale.
Bacone, per contro, è l’apologeta della violazione dei confini: stuprare la natura e superare ogni limite è la legge degli umani. L’ideologia del progresso si insedia stabilmente nel cuore della terra: non c’è limite che non potrà più essere sfondato.
Cartesio spacca in due sostanza e umani: di qua lo spirito di là la materia. Altro limite apparentemente invalicabile. Spinoza ricuce. E lo fa prendendo a prestito il linguaggio per antonomasia del limite, ovvero la dimostrazione geometrica. E concepisce la sostanza come un macroindividuo e ogni individuo come un aggregato di individui – ma tutti sul medesimo piano.
Leibniz imbozzola le monadi, che non hanno né porte né finestre. E, a sentire un certo filosofo francese, trova pieghe ovunque, sia nella materia che nello spirito. E che cos’è una piega se non un limite nascosto?
La filosofia di Kant è leggibile pressoché interamente come sistematica riflessione intorno al concetto di limite (Grenzbegriff): ordinare il mondo lo posso fare, dato che ho a disposizione potenti strumenti di determinabilità (spazio, tempo, categorie). Ordinare l’etica è un po’ più complicato – e di fatti mi concedo tutto il tempo possibile per raggiungere la santità, ovvero un tempo infinito, senza più limiti.
L’idealismo riparte da qui: tutta la filosofia di Fichte (ma pure quella di Schelling) è un ragionamento sulla reciproca limitazione di io e non-io. Come si determina un io, qual è il segreto dell’identità? E come può convivere in pace con una sterminata e illimitata distesa materiale che sempre lo fagocita?
Ma pure la Fenomenologia dello spirito di Hegel gioca sul continuo darsi forme e limiti e sul continuo metterli in discussione: lo spirito altro non è che un perenne autotrascendersi, porre limiti, creare forme per subito infrangerli e però depositarli-conservarli in sé (Aufhebung). Qui è il limite stesso ad automuoversi (verità che è divenire di se stessa). Pensare è trovare limiti fuori di sé per poi ingoiarli e digerirli – aver bisogno del negativo, motore di tutto il movimento conoscitivo e spirituale.
Non so dire se Marx – abbassando l’asticella idealistica in termini materialistici – sia più un apologeta del limite di quanto non sia un suo trasgressore. Di certo conserva molto del linguaggio dialettico hegeliano: la specie (e la comunità) supera sempre i limiti individuali, vittoria della vita sulla morte. D’altro canto ha forse trascurato o sottovalutato lo smisurato narcisismo e desiderio che da un individuo può scatenarsi, forzando i propri limiti materiali.
Ma mi fermo qui, il gioco filosofico del limite alla lunga può stancare e diventare stucchevole – oltre a mostrare con tutta evidenza i suoi limiti…
L’ha ribloggato su marisablog.
Storicamente, chi autolimita la propria curiosità riguardo al sapere, lo fa quasi sempre nel timore di un sopra-esistente (fisico o non), i medi ci mettono sempre in guardia sulla pericolosità degli strumenti stessi del pensare, più in generale sull’esercizio dell’intelligenza. Lo si ritiene spesso e già di per se uno sforzo tracotante, oltre limite, un tentativo infausto di raggiungere quella luce che è il sapere tutto, cioè Dio. Tant’è che l’angelo maledetto, quello scacciato e rinnegato, è colui che tenta di venirne in possesso (lucis-fero, il portatore di luce appunto intesa come metafora del sapere).
La mela è un altro simbolo simile, quasi sempre dipinta come aurea e lucente. La rappresentazione maliziosa di ciò che è giusto e bene in quanto esercizio giocoso del limite, come di un appetito, cosa già di per se stessa ritenuta sbagliata e malvagia. Per pii e i misericordiosi infatti, l’appetito è cosa di cui vergognarsi sempre, i benestanti e i preti in pubblico sono sempre grassi e inappetenti, in quanto molto abili a saziarsi in sedi privatissime.
Una volta trasfigurato l’interesse in appetito pernicioso lo si demonizza e bolla come cosa di cui liberarsi, questo ripete all’infinito la predica durante il varietà religioso, quello per il sapere poi è il peggiore di tutti gli appetiti, nel mondo alla rovescia si torna a dire ai giovani “che studi a fare, trovati un lavoro”. I giovani dal canto loro, sono già inseriti in giovane età nelle logiche di voti e interrogazioni, come cervelli disinnescati, non studiano quasi mai per interesse verso il sapere, ma quasi sempre per ricerca di profitto, tramite l’interrogazione impari la soggezione di stare al tuo posto e i voti sono una metafora del denaro, più voti più profitto.
Dopo la diffusione della stampa a caratteri mobili qualcosa comincia a sfuggire alle maglie del potere, l’intelligenza media si alza, ma se le pecore diventano troppo intelligenti, non saranno più pecore e per parafrasare Woody Allen “a me poi il latte chi me lo fa?”.
Questo prevede l’antico patto tra i sacerdoti religiosi e i potenti, questo marchia ancora oggi i cervelli che finiranno per essere ancora nuovi anche quando saranno vicini alla data di scadenza: voi usate dio per giustificare un limite che noi abbiamo deciso arbitrariamente, così noi non dobbiamo danneggiarli fisicamente, in questa maniera la produzione e l’accumulo al servizio di pochi, potranno continuare indisturbati fino alla distruzione completa dell’habitat umano.
Un destino solitario quello degli esploratori del limiti, sempre i più isolati e lontani da tutto, coloro che controllano i confini delle gabbie, devono apparire agli altri come ricurvi e meschini, tutti intenti a scoprir scappatoie, buchi o difetti nelle serrature.
Finiscono quasi sempre per mostrare che non vi era gabbia alcuna, ma quello che continuerà a stupirmi per tutta la vita è come questo possa determinare la loro definitiva condanna all’isolamento e all’ostracismo sociale, invece che alla fama e alla gloria (condanne forse più dolci).
Ma in fondo non si è sempre detto che la libertà ha un prezzo? Qualcuno più saggio di me ha aggiunto però che la “libertà è una e chi la provata non sarà mai più schiavo”.
Buon cammino
Erroraccio “la libertà è una e chi l’ha provata…”
Chiedo scusa