Non son solito attribuire dignità al lavoro in sé – per lo meno non al lavoro alienato della società del capitale. Rimango affezionato all’idea marxiana (e forse un poco romantica) che distingue tra Arbeit e Tätigkeit, lavoro come costrizione contro libera attività. Che poi questa non si sia mai realizzata in passato, men che meno oggi e non si realizzerà mai in futuro, fa un po’ parte di quella dimensione utopico-filosofica che faceva dire al Rousseau sognatore, a proposito del suo genuino uomo naturale, che poco importava che non fosse mai esistito, anzi meglio ancora.
Fatta questa premessa vagamente teoretica, mentre vedevo l’ultimo film di Ken Loach ho pensato che non soltanto il sol dell’avvenire atteso dai lavoratori ha cessato di splendere da molto tempo, ma che non se ne vede all’orizzonte il benché minimo segno di risorgenza. Nemmeno un debole raggio. Nulla, o quasi. Daniel Blake – il protagonista di una fin troppo consueta storia di burocrazia nell’epoca della flessibilità alias precarietà – s’ammala, non può lavorare e rischia di perdere tutto – anche la dignità residua: quel pronome personale del titolo e quel nome cui tutta la sua vita finisce per ridursi. Ecco, probabilmente il fatto che si sia riposta nel “lavoro” (qualsiasi lavoro, anche il lavoro più noioso, ripetitivo, umiliante – per non dire “di merda”) una residua dignità annullata la quale si cessa di esistere (a meno che non si abbiano soldi, potere e visibilità), qualifica l’attuale compagine sociale come un’oscenità antropologica. (Ad ogni modo a Daniel Blake, alienato o no, dignitoso o no, il suo lavoro di falegname piace, e non vede l’ora di tornare a farlo, pur con il cuore non del tutto rimarginato).
Però vien da dire: tutto da rifare, si torna al punto di partenza, quasi due secoli di lotte e di conquiste sociali buttate nel cesso. Certo il Welfare è apparentemente generoso, e Daniel Blake avrà a sua disposizione efficientissime agenzie, regole e procedure che dovrebbero in teoria sostenerlo. Senonché si trova di fronte a un sistema anonimo, kafkiano, un leviatano impersonale e austero (pur con le scintillanti innovazioni digitali) che finisce per divorarlo. Il vecchio padrone ha ora l’aspetto ultrarazionalizzato e weberiano di un funzionario imparziale, quantomai zelante e talvolta feroce. Fine delle classi, fine della solidarietà di classe, fine del sogno della fratellanza universale. C’è solo il sistema che deve funzionare, ad ogni costo.
Daniel Blake si ribella – scrive quel che gli rimane, un pronome ed un nome, sul muro – ma non serve, il suo è un gesto individuale e disperato, che può giusto comunicare simpatia a qualcuno che si trova nella sua stessa situazione, o a qualche passante curioso, ma che non è più in grado di generare lotte e prospettive collettive di vasta portata.
Quel che Daniel Blake non può sopportare, ancor più di ogni difficoltà materiale, è l’umiliazione. Un’idea, un progetto, un’idea (parafrasando Gaber) che in passato avevano conferito ai lavoratori (più che al lavoro in sé) una qualche forma di rilevanza e di riconoscimento sociale, dopo millenni di anonimo sfruttamento, ma che ora sembrano definitivamente perduti. E il sistema finisce per umiliare e stritolare chi non si rassegna, chi non accetta le sue rigide regole. Tu non sei un lavoratore, un produttore, un ideatore – sei solo una funzione sociale, una rotella del sistema. Punto. (A tal proposito, proprio in questi giorni di dibattito sulla costituzione, mi è venuta in mente quella sostanziale differenza con cui si apre – repubblica fondata sul lavoro, o repubblica dei lavoratori? – e che ovviamente non passò inosservata in seno alla Costituente).
Nessuna speranza dunque? Esito nichilistico?
Nient’affatto: c’è Katie, una donna con due bambini, in grave dissesto economico (e psicologico), al limite della denutrizione e della disperazione: il loro incontro casuale rappresenta un’ancora di salvezza, per loro e per tutti. Un semplice gesto di solidarietà, di vicinanza, di affetto – in ultima istanza un’antica forma di amore – che possono salvare il mondo. Forse non tutto è perduto.
Nel mondo anonimo, globalizzato della produzione massificata di beni spesso superflui galleggiano (palude antropologica) miliardi (forse due o tre) di uomini sfruttati, emerginati, senza volto e senza futuro.
Altri (forse due o tre miliardi) boccheggiano nella povertà e nell’indigenza, pesci fuor d’acqua senza lavoro e dignità. Cose tra le cose.
Gli altri, satolli,ma disperati, ballano ubriachi sulla tolda di questa nave Terra in rotta di collisione con il proprio destino di morte.
Forse qualcuno si salva, forse non tutto è perduto ma certamente per l’umanità siamo all’anno zero.
Lo scenario è dionisiaco, l’apollineo è una riserva indiana.