Il volto e il corpo dell’altro – 3. Follia, (a)normalità, istituzioni totali, antipsichiatria

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“Io voglio entrare fuori”
(uno dei matti di Basaglia)

Diversi gli approcci e i discorsi possibili sulla follia, che è quanto di più sfuggente e storicamente determinato ci sia: di ordine psicologico, antropologico, sociologico, medico – ma anche, anzi direi prima di tutto filosofico. D’altro canto chi definisce dissennato qualcuno se non il pensatore in grado di argomentare? che cos’è la follia se non l’antagonista della ragione?
Eppure filosofia a follia sono legate fin dalle origini, ma in tutt’altro senso rispetto a quel che potrebbe sembrare “normale”. Anzi, è proprio quella normalità che viene messa in discussione, se è vero che il filosofo tende a scardinarla fin dalle fondamenta, per gettare una luce straniante sul mondo, sulle cose, sulla realtà.
Già nell’aneddoto di Talete – il “primo filosofo” – che mentre osserva gli astri cade in un pozzo, è iscritta la stranezza originaria del pensiero filosofico: la serva tracia lo prende in giro perché mentre guarda in su (altrove), egli non vede quel che ha davanti a sé. Il sapiente fin dalle origini non ha i piedi per terra, ma la mente tra le nuvole, e da lì – straniato – guarda il mondo.
Ma il rapporto tra follia e filosofia è ancora più evidente in Platone. Ce ne parla Giorgio Colli nel suo saggio La nascita della filosofia, che si apre con un paragrafo dal titolo eloquente: “La follia è la fonte della sapienza”. Si allude qui al rapporto tra Apollo, dio della divinazione, e la manìa di cui Platone parla a più riprese nelle sue opere. Così si legge ad esempio nel Fedro: «i più grandi fra i beni giungono a noi attraverso la follia, che è concessa per un dono divino…sia agli individui che alla comunità».
Anche nel più celebre testo della filosofia rinascimentale – L’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, che rielabora a modo suo la figura medievale della “Nave dei folli” – il folle è colui che ha il coraggio di dire la verità in faccia a tutti (si pensi alle figure dei pazzi di corte, dei giullari, ecc.).
Nietzsche fece esperienza diretta della follia, con il celebre “crollo mentale” del 1889 a Torino, quando, alla vista di un cavallo maltrattato, prese ad abbracciarlo e a piangere lacrime disperate, cadendo poi a terra in preda agli spasmi e al deliquio. Non è chiaro quali fossero le cause di questo crollo, né del decennale stato catatonico che ne sarebbe seguito (si fanno oggi molte ipotesi, tra cui una serie di malattie organiche, non ultima la sifilide) – alcuni continuano però a pensare (magari enfatizzando l’episodio) che si è trattato di un vero e proprio sbocco biografico-filosofico, dopo quasi un ventennio di furore mentale: Nietzsche si era proposto di filosofare con il martello e di abbattere le “verità filosofiche” degli ultimi due millenni. Era stato lui a scrivere: «Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te». Fanno molta impressione i ritratti fotografici dell’ultimo periodo della sua vita, così come i fotogrammi di una ripresa cinematografica in casa della sorella, che ci mostrano un uomo totalmente sprofondato in se stesso, quasi che quelle parole fossero una profezia, un destino annunciato.

Ma è nel Novecento che si comincia a guardare alla follia in un modo completamente diverso dal passato. Sull’onda delle scienze mediche e psicologiche, la follia diventa oggetto di studio rigoroso, positivistico – esattamente come se si studiasse una malattia fisica o somatica. Fondamentalmente l’approccio psichiatrico alla malattia mentale diventa un approccio di tipo organico.
E così – come per qualunque malattia – si tende ad oggettivare e a scindere la malattia dall’individuo: l’individuo viene fatto a pezzi (corpo, mente, organi, ecc.) e lo si cura a pezzi. Ma soprattutto rimane sullo sfondo, mentre in primo piano è la malattia in sé.
L’approccio positivistico prevede una condizione normale ed una condizione patologica: la guarigione è la rimozione dell’errore e dello squilibrio, insieme alla restaurazione della norma.
Se ciò è già problematico in ambito fisiologico ed organico (il medico e filosofo Georges Canguilhem critica questa scissione e riporta la condizione della malattia al soggetto: non esiste la malattia, esistono i malati) – tale approccio diventa pericolosissimo nell’ambito della sofferenza psichica, mentale, esistenziale.
Di nuovo si tende a scindere l’individuo in una parte organica ed una mentale, e ad estrarre la sofferenza catalogandola e curandola di conseguenza – in ultima analisi ad isolarla in un recinto fisico (il manicomio) o medico-farmacologico (il manicomio chimico diffuso).
Ma come si cura il disagio di vivere, il dolore, l’angoscia, la sofferenza psichica? Quale pharmakon è più idoneo?

La visione critica di una serie di sociologi, filosofi, antropologi è stata inevitabilmente una visione di insieme – sia rimettendo al centro l’individuo (e la sua irriducibilità ad una norma, ad uno schema prefissato), sia riconnettendolo all’ambito sociale e al mondo delle relazioni. La sofferenza psichica è sempre una sofferenza di tipo sociale, affettivo, emotivo, relazionale, e solo riportandola a questo ambito complesso può essere affrontata e “curata”.
Vi sono state nel secolo scorso grandi esperienze sia teoriche che pratiche che si muovono in tale direzione. Ne cito solo alcune, di sfuggita:
-Asylums di Goffman (con un approccio sociologico che contempla l’analisi delle “istituzioni totali”)
Storia della follia nell’età classica di Foucault (approccio storico, sociale, politico: il manicomio e la figura del folle come dispositivi di potere e di controllo sociale, ereditati dalla figura medievale del lebbroso)
-Ma vorrei soffermarmi soprattutto sull’esperienza italiana di Franco Basaglia.
Un’esperienza straordinaria perché mette insieme teoria e prassi come nessun altro ha saputo fare: Basaglia ha una salda formazione filosofica (conosce bene i maggiori filosofi del ‘900, ha letto gli esistenzialisti), oltre ovviamente a conoscenze di tipo medico, psicologico e psichiatrico.
Ma sono le esperienze di superamento e distruzione del manicomio come lager e dispositivo sociale repressivo – dunque il “lavoro sul campo” e di chiusura dei “campi” – a farne la più importante esperienza antipsichiatrica del ‘900.
Parlando di Basaglia occorre premettere che la sua titanica battaglia (a Gorizia, a Trieste e poi anche a Roma, in sede parlamentare per la legge 180 che porta il suo nome) ha innanzitutto operato per restituire dignità alle persone recluse nei manicomi: è stata soprattutto un’opera di riumanizzazione. I cosiddetti “matti” sono prima di tutto persone, e senza questa premessa ogni successivo intervento sarebbe vano.
Occorre quindi ripartire dal riconoscimento di un orrore della cosiddetta “civiltà”: ovvero dalla quantità di dolore e di sofferenza che è stata inflitta a persone già fragili e sofferenti. Il manicomio e le sue pratiche disumane (l’elettroshock, la contenzione, la spoliazione, ecc.) non sono state meno crudeli di quelle dei lager nazisti: il principio è il medesimo –  e del resto nei campi di sterminio i “malati mentali” avevano il loro triangolo nero, catalogati insieme agli “asociali”. Disumanizzare, indebolire, creare e riprodurre fragilità e sofferenza: ovvero, l’essenza del male. Occorre sempre ripartire da qui, quando si parla di psichiatria e manicomi – e occorre farlo ancora oggi perché quelle pratiche non sono affatto scomparse, ma anzi risorgono attraverso nuovi metodi, nuove forme di controllo sociale.

E qui veniamo all’ultimo capitolo – il libro di Piero Cipriano, La società dei devianti, edito proprio quest’anno da Eleuthera.
Il terzo di una trilogia, con un approccio chiaramente critico, antipsichiatrico, basagliano – da “psichiatra riluttante”. Cipriano riprende il cammino là dove Basaglia era giunto, tanto è vero che scrive: “i malati mentali sono quelli che, statisticamente, hanno fatto meno male al mondo, ricevendo in cambio il massimo del male dal mondo” – una premessa che si inquadra senz’altro nel lavoro basagliano di “liberazione”.
Nel suo libro si parla di DSM, la “bibbia degli psichiatri”, ovvero il tentativo riduzionistico di catalogare tutti i disturbi psichici attraverso l’occhio clinico e oggettivo dello psichiatra, senza alcuna teoria esplicativa alle spalle, ma con l’altro occhio ben puntato agli interessi farmaceutici: il caso della “quantità” di lutto “normale”, oltre il quale la tristezza diventa patologica, è piuttosto emblematico (da un anno a due mesi a due settimane, nelle successive edizioni del DSM succedutesi negli ultimi decenni).
Si parla di “devianti”: depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorte – una vera e propria “produzione sociale della devianza”
Si parla di “manicomio chimico” – e dell’uso spregiudicato degli psicofarmaci.
Si parla della battaglia di Cipriano – anch’egli impegnato “sul campo”, nei “manicomietti” del SSN – contro le fasce, l’abuso criminale del TSO e le nuove forme di contenzione manicomiale: il “manicomio diffuso” – con il crescente esercito di depressi mondiali (siamo ormai vicini al mezzo miliardo).

Si corre insomma il rischio di tornare ad un passato di reclusione e repressione, attraverso nuove forme apparentemente più “umane” e “democratiche”. Ma come andare in controtendenza?
Due le risposte possibili, direi ovvie quanto difficili:
-la rete sociale, la comunità, è l’ambito preliminare che occorre sempre avere presente. Finché esistono la povertà, le ingiustizie sociali, quartieri e segmenti sociali abbandonati a se stessi, nessuna “cura” del disagio mentale o della “follia” potrà essere risolutivo od efficace. Probabilmente occorre anche pensare a forme di accoglienza del disagio – premesso che non è vero che la follia o la malattia mentale non esistono (lo diceva Basaglia e lo ribadisce Cipriano), e che non ogni sofferenza può o deve essere curata/medicalizzata;
-l’ascolto e la narrazione di sé come forme di “psicoterapia”: ripercorrere identità e biografie, ricostruire vite frammentate, sintonizzarsi con le “anime in pena”,  riprendere in mano il filo (il senso) della propria vita. A tal proposito rinvio all’interessante conclusione dell’articolo di Stefano Coletta, dedicato alla Sofferenza nel mondo della tecnica e i limiti della terapia psicologica (è possibile leggerlo integralmente qui), che proprio alla letteratura (e alla scrittura) affida il compito di cura delle sofferenze psichiche, ben più delle tradizionali “terapie”: «La letteratura, proprio come in uno specchio in cui potersi riflettere, mostra all’uomo cosa sono i sentimenti e in quali forme essi si manifestano, innescando quell’ “effetto specchio” di cui parla la psicologia, in cui il soggetto, vedendosi riflesso nell’interazione con gli altri membri di un gruppo terapeutico, impara a conoscersi e a riconoscere i propri sentimenti ed emozioni, sviluppando quella che Foulkes chiama “risonanza”».
Del resto cos’altro è una vita umana, ben più di un io normato e normalizzato, se non l’identità plurale e diveniente che emerge proprio dalla narrazione di sé? L’anima è essenzialmente scrittura, e non vedo come possa essere spiegata o narrata dalla chimica e dalla tecnica.

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Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

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