La “questione animale” è probabilmente una delle grandi questioni filosofiche (se non la più importante) della contemporaneità. A ben pensarci è un tema che mette in causa lo statuto etico, antropologico, persino ontologico della nostra specie – i concetti di natura umana, scienza, vita, morte, compreso il crescente desiderio di immortalità: attraverso il nostro rapporto con gli animali e l’animalità definiamo quel che siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando.
Animale è concetto paradossale che evoca prossimità e separazione ad un tempo. Tutto il discorso sul rapporto umano/animale è, come vedremo, costellato di elementi paradossali.
Partiamo, come sempre, dalle parole, dai concetti: “animale” è parola astratta, se si vuole vuota, del tutto incapace di definire la moltitudine di forme viventi cui parrebbe alludere. Animale ed animalità si pongono in prima istanza come i concetti che discriminano l’essere umano da ciò che non lo è, sé dalle altre specie, sé dall’altro da sé: l’animale è il paradigma dell’alterità, l’altro per eccellenza. E su questa alterità è probabile che si siano storicamente costituite tutte le altre.
Ma l’animale è, in primo luogo, l’animale in noi: ciò da cui homo sapiens intende separarsi – natura, corpo, sensibilità. L’animalità è essenzialmente ciò da cui l’io – la forma propria dell’umano – si allontana progressivamente: io – l’umano – è mente, coscienza, spirito, ovvero tutto ciò che non è corpo e natura. Come ci suggerisce Cimatti, in questo processo di costituzione della nostra antropologia, del nostro modo di essere, addomesticamento dell’animale esterno e autoaddomesticamento del corpo (l’animale interno) corrono paralleli.
La macchina antropologica (o antropogenica) è esattamente il processo storico di separazione dall’animalità.
Ma entriamo più addentro in questa parola – animale – parola latina che indica ciò che è animato, semovente (a differenza di oggetti “inanimati”) e che condivide tale significato in prima istanza con la parola anima, costruita sul greco ànemos (vento) e che pare alludere al soffio vitale che caratterizza tutti i viventi – anche se ben presto il significato prevalente taglierà fuori via via tutte le specie, ad eccezione di una.
Nella tradizione filosofica (ma anche teologica) l’anima è ciò che discrimina gli umani dagli altri viventi (la parola latina è però animus, dal significato molto largo, che non allude solo alla ragione ma anche alla parte emotiva). Aristotele stabilisce una vera e propria gerarchia di “anime” che corrispondono a quella tra gli esseri dei due regni di viventi, con in cima ovviamente l’essere umano: l’anima nutritiva tipica dei vegetali, l’anima sensitiva tipica degli animali, e, infine, l’anima razionale, quella propria degli umani – in un progressivo crescere di facoltà, da quelle primarie (legate alla nascita e alla crescita naturali) a quelle simboliche. Gli umani partecipano di tutte e tre le anime, ma solo quella razionale li distingue da animali e vegetali e ne fa una specie a sé stante, del tutto particolare.
Sarà Cartesio a semplificare drasticamente questo quadro separando nettamente la corporeità (nella quale ingloba tutti i corpi viventi) dalla razionalità: da una parte ci sono macchine, meccanismi, automata, dall’altra esseri razionali dotati di volontà propria. In questo modo ci svela l’arcano che sta dietro a questa separazione/gerarchizzazione nella maniera più chiara: da una parte c’è il corpo (che caratterizza tutti i viventi, i quali partecipano della res extensa, ovvero della materia), dall’altra la mente, res cogitans, che è però tipica dei soli umani: questo vuol dire che la scissione non è solo tra umani e animali (e altri viventi), ma è lo stesso essere umano ad essere diviso in due, in una parte corporea e meccanica, e in una parte razionale – ed è la parte razionale a dover dominare e sottomettere l’altra.
Filosofi (e teologi) hanno sempre fatto a gara in questo GIOCO DELLA SEPARAZIONE tra umanità e animalità: l’umano, anzi, si costituisce essenzialmente come identità non-animale.
Il discrimine più celebre è, ovviamente, quello linguistico.
Il linguaggio (e tutto ciò che riguarda il mondo simbolico, del significato e dunque della produzione culturale e spirituale) è ciò che ci distinguerebbe nettamente ed irrimediabilmente dagli animali.
Peccato che: in questa operazione si fa un mucchio unico di qualcosa come (forse) 80 milioni di specie e di forme di vita, riducendole ad una misera categoria; e, soprattutto, si opera attraverso un inaggirabile pregiudizio antropocentrico.
Il filosofo americano Rowlands, che ha vissuto per dieci anni con un lupo, elenca le tradizionali tesi differenzialiste:
-la capacità di creare cultura allontanandoci (e proteggendoci) dalla natura
-la capacità di distinguere il bene dal male
-la ragione
-l’uso del linguaggio
-il libero arbitrio
-la capacità di amare
-la consapevolezza della morte
e poi tira una bella riga rossa e suggerisce la sua risposta:
«Io non accredito nessuna di queste tesi come la testimonianza di un profondo abisso tra noi e le altre creature. Loro fanno alcune cose che noi pensiamo non siano in grado di fare. E noi non siamo in grado di fare alcune cose che pensiamo di poter fare. Per il resto, be’, è soprattutto una questione di livello piuttosto che di genere. La nostra unicità sta invece, e semplicemente, nel fatto che noi ci raccontiamo tali storie e, soprattutto, possiamo davvero indurre noi stessi a crederci. Se volessi definire gli esseri umani con una frase, direi: gli uomini sono quegli animali che credono alle storie che raccontano su se stessi. In altri termini, gli esseri umani sono animali creduloni».
Si tratta quindi di mero ANTROPOCENTRISMO: nel discutere del nostro rapporto con gli altri viventi, ed in primis con le specie animali, pare inevitabile cadere nel pregiudizio antropocentrico, ovvero in quell’atteggiamento che mette al centro se stessi quali appartenenti ad una razza umana privilegiata, ricavando da una banale per quanto oggettiva constatazione di diversità, un giudizio di valore. Direi anzi che è tale pregiudizio ciò che ci costituisce essenzialmente: homo sapiens – grazie ai processi bioevolutivi che gli hanno concesso di deporre (per lo meno apparentemente e a suo dire) l’animalità, ovvero: encefalizzazione, neotenia, assenza di un ambiente privilegiato, facoltà di linguaggio – ha da sempre creduto di essere al centro del mondo (sia in termini fisici che simbolici): la terra al centro dell’universo, la specie al centro del creato (Adamo è colui che dà il nome a tutte le specie), vertice e perfezione della natura, addirittura fine ultimo.
Heidegger a tal proposito costruisce una ulteriore opposizione tra mondo e ambiente, sulla scorta di alcuni celebri studi zoologici della sua epoca: noi, diversamente dagli animali, non saremmo schiacciati o assorbiti dall’ambiente, ma al contrario ci poniamo in una condizione di “uscita dalla natura”, in quanto creatori di “mondo”: la pietra, allora, è priva di mondo, l’animale povero di mondo, mentre è solo degli umani avere un mondo, ovvero un ambiente cui non sono mai riducibili una volta per sempre. Tale differenza umano/animale ci riporta di nuovo a quella tra corpo e mente: l’essere umano è quell’animale che non è un corpo, ma che ha un corpo – come se si guardasse dall’esterno, da una posizione eccentrica. Similmente noi non aderiamo ad un ambiente, ma ne costruiamo uno, simbolico ed astratto: il mondo della cultura che si oppone a quello della natura.
Noi tuttavia sappiamo che le scienze (dall’astronomia alla biologia alle neuroscienze) hanno via via smontato questa presunzione di superiorità, confinando la specie umana al suo posto di specie tra le altre, dominata dalla contingenza. Ed anche la qualifica di “complessità” non può più indurci a ricavarne giudizi di valore – complesso non equivale certo a migliore.
Tuttavia la potenza mentale e tecnica – che si traduce in un esercizio di potenza materiale che preme sulle altre specie come nessun’altra specie ha mai fatto in passato, per quanto ne sappiamo – viene esercitata indipendentemente dal fatto che sia giustificata o meno da principi etici, religiosi, o filosofici così come succedeva un tempo. Si riduce oggi a mero esercizio di potere: gli umani possono e dunque agiscono, indipendentemente da qualunque istanza etica che non sia il loro illimitato incremento di potenza.
ETICA ED ANIMALISMO
Dagli anni ’70 in poi – innanzitutto con Peter Singer e Liberazione animale (celebre testo del 1975 che inaugura l’antispecismo) – cambia radicalmente (almeno in termini teorici) il modo di intendere il nostro rapporto con gli animali. Si fanno strada istanze critiche ambientaliste, animaliste, ecosofiche, antispeciste, sempre più diffuse. Si pensa che gli animali (come per le donne, i neri, gli omosessuali e le minoranze in genere) non debbano più essere discriminati sulla base di gerarchie e ideologie tradizionali, ma che anzi devono essere ricompresi entro una sfera etica più ampia e inclusiva. Nel caso di Singer si tratta di una tesi di stampo utilitaristico, che considera giuste quelle azioni volte ad aumentare il piacere e a far diminuire il dolore e la sofferenza – e gli animali, in quanto esseri senzienti, parteciperebbero al pari degli umani a tale condizione etica.
Tuttavia, se non si hanno ben presenti tutte le questioni analizzate sopra – ovvero l’antropocentrismo, il nostro rapporto dialettico con l’animalità, il rapporto mente/corpo, in sostanza la macchina antropogenica che ci ha fatto diventare quel che siamo – dubito che una vera e propria liberazione degli animali ci sarà. Se non si smonta quella macchina, il nostro rapporto con gli animali (e più in generale con la natura) continuerà e sarà sempre di più un distruttivo rapporto di nudo potere.
Ricavo alcuni esempi da due articoli usciti proprio in questi giorni su due prestigiose riviste, Le scienze e Internazionale.
-Nel primo caso c’è uno scienziato, un genetista, che ci parla del progetto di ricavare “Organi umani da corpi animali”. Egli ci descrive dettagliatamente la ricerca, ci espone le difficoltà e gli ostacoli da superare ed infine dedica un paragrafo all’ “equilibrio etico”: il lettore pensa, ah ecco, ora si porrà finalmente la questione dei limiti e della sofferenza animale… nient’affatto! La questione etica sollevata riguarda soltanto il rischio che si corre di produrre chimere, organismi ibridi umano-animali: dunque un ribadito, ostentato e crudele antropocentrismo che si disinteressa totalmente del dolore animale. Gli animali sono meri strumenti – macchine – al servizio non tanto della nostra sopravvivenza, ma della nostra perpetuazione al di là di ogni ragionevole limite.
-Due scelte etiche possibili – ed antitetiche – ci vengono invece proposte nell’articolo di Internazionale, sulla base di due ragionamenti molto diversi: il filosofo Gary Francione è un convinto abolizionista, ovvero sostiene che occorre superare l’addomesticamento, e dunque abolire drasticamente gli animali d’allevamento (tutti, nessuno escluso e compresi quelli di compagnia) – avendone cura, con un pietoso ed affettuoso congedo, ma evitando che si riproducano.
Una strada del tutto opposta viene proposta dal politologo canadese Will Kymlicka e da sua moglie Sue Donaldson, che immaginano una vera e proprio Zoopolis (titolo di un loro saggio) che intende invece estendere agli animali domestici i diritti di cittadinanza.
UNA MIA CONCLUSIONE
Non ho particolari conclusioni filosofiche da esporre – se non una prassi che prevede una progressiva uscita dallo sfruttamento animale in tutti i campi, alimentare, medico, ludico, affettivo, ecc. Ma credo che mai come in questo caso occorra partire da sé, dal proprio livello di coscienza.
Ma per poterlo fare nel modo più consapevole occorre modificare la mentalità profonda, il modo di considerare l’alterità – un modo che prevede che l’altro è in realtà un corpo come io sono corpo, un vivente come io sono vivente. E dunque l’immagine che ho in mente è quella suggerita da Canetti, in risposta alla suggestione kafkiana dell’angoscia umana da posizione eretta – occorre sdraiarsi in terra tra gli animali.
E forse il linguaggio per dirlo non è né quello filosofico, né quello etico o giuridico – ma quello dei poeti e dei bambini, se ancora ne restano.
Come dice Giuseppe O. Longo credo che tutti gli esseri umani nutrano nel loro profondo anche esigenze di armonia, di bellezza e di rispetto dell’alterità; indipendentemente dai loro attributi di razionalità. Diamo spazio a queste esigenze e ci troveremo in perfetta sintonia anche con gli animali, gli esseri inanimati e l’ambiente che condividiamo.
Caro Md,
tu dici:”L’animalità è essenzialmente ciò da cui l’io … si allontana progressivamente: io è ….. tutto ciò che non è corpo e natura.”
Mi domando: noi siamo passati, in due milioni di anni, vivendo nel mondo che è dato a tutti i viventi, dal proto-pensiero animale al pensiero-progetto e ai fonemi linguistici, snaturandoci? Queste qualità ovvero attributi aggiuntivi non sono forse il risultato della selezione “naturale”?
L’io è ragionevolmente una fioritura della Natura, che non è divina ma puramente fattuale.
L’eterno ritorno del dilemma del dottor Jekyll (l’io) che ripudia il signor Hyde (corpo, natura) e che occulta la sua origine perchè teme che possa risucchiarlo nell’abisso della propria conclamata animalità (leggi:violenza). Ogni giorno che il caso manda in terra assistiamo alle perversioni dell’io, ma continuiamo a divinizzarlo senza fondamento.
Buona giornata.