Il tema di stasera rappresenta una vera e propria summa delle tematiche sull’alterità/diversità, quasi una sintesi ideale del percorso fatto quest’anno: il freak – lo “scherzo di natura”, il mostro – rappresenta per antonomasia il più altro tra gli altri, l’alieno che raccoglie in sé le paure più ancestrali. Come vedremo, il vero freak abita nelle zone dell’interiorità, prima che nell’esteriorità del corpo mostruoso (e mostrato/esibito/rappresentato).
Partiamo da tre termini e dalla loro definizione:
Monstrum (dal latino moneo, monere – avvertimento, segno divino)
portento, prodigio, miracolo, cosa incredibile, meravigliosa
ma anche atto mostruoso (nefandezza), essere mostruoso
– ambivalenza del significato, con una successiva caratterizzazione di tipo morale che tende a sovrapporre se non a identificare la stranezza/mostruosità/deformità al male: dal kalòs kagathòs greco (ciò che è bello è anche buono) al rovesciamento cristiano: il brutto e il deforme che puzzano di zolfo, di diabolico, di maligno.
Freak – termine inglese traducibile con capriccio, bizzarria, anomalia, scherzo (di natura), mostruosità, fenomeno, associato prima ai freak show (gli spettacoli in voga nell’800-900 nei quali venivano esibite creature straordinarie, deformi, bizzarre, mostruose – non solo umane: i cosiddetti “fenomeni da baraccone”), e a partire dagli anni ’60 al movimento contestatario e anticonformista americano (da cui “frichettone”).
Forma (da Aristotele in poi): categorizzare e riportare ad un’essenza definita (e ad un ordine predeterminato) ciò che altrimenti rimarrebbe informe, indeterminato (e dunque incontrollato): è, potremmo dire, un’ossessione della filosofia e della razionalità occidentale quella per la stabilità delle forme, la categorizzazione, la collocazione di ogni cosa o vivente all’interno di una struttura organizzata, una tassonomia, un ordine logico.
Come allora spiegare ciò che sfugge a questo ordine, all’ortopedia della forma, alla norma?
Nasce inevitabilmente una lunga e collaterale fenomenologia dell’abnorme, del deforme, dell’informe, del non-conforme, del “mostruoso” – fenomeni che però, come vedremo, mantengono nel tempo la caratteristica di atterrire e, insieme, di attrarre morbosamente.
Ve n’è corposissima testimonianza nella mitologia, ricca dei segnali (prodigiosi) del divino: in tutte le culture e in tutte le mitologie esistono i “mostri”.
Ma i mostri non sono solo immaginari o fantastici – sono innanzitutto paure che popolano il nostro inconscio, e che hanno a che fare proprio con la dialettica tra forma e deformità, paura che l’insolito e l’incerto producono nella mente e nelle società “conformi”. Ecco, allora, i freaks: in epoca moderna (e in particolare tra ‘800 e ‘900) si diffondono in Europa e negli Stati Uniti i freak show, nelle fiere, nei circhi, nei musei, veri e proprio cataloghi dell’orrore e della meraviglia, con l’esibizione della deformità, della mostruosità, o semplicemente della stranezza: quasi che le paure possano essere catarticamente superate attraverso una loro esibizione/rappresentazione.
Pare quasi di rivedere, sotto altra forma, il tragico esibito (come già aveva teorizzato Aristotele) che purifica l’animo dalle passioni tristi, e lo eleva rassicurandolo, riportandolo alla “norma” e alla tranquillità. La deformità sta oltre la linea di sicurezza – come ci ricorda Lucrezio con la sua riflessione sul godimento indotto dalla lontananza dai pericoli, o come accade nell’esperienza estetica del sublime: fenomeni naturali che ci atterriscono, ma che possiamo contemplare con agio e in totale sicurezza, da lontano. L’orrore non riguarda noi, ma l’altro.
I freaks – come sostiene Fiedler nel fondamentale saggio ad essi dedicato – materializzano in sé le paure ancestrali più antiche (ma in taluni casi anche i desideri più inconfessabili). E ve n’è un vero e proprio catalogo, esibito prima nelle corti europee poi nei popolari freak show (per arrivare, come vedremo, all’odierno immaginario delle arti visive):
-l’angoscia per le proporzioni (nani e giganti): quale bambino o adolescente non ha fatto tale esperienza di inadeguatezza?
-l’incertezza sessuale e l’ermafroditismo (il mito dell’androgino) – temi oltretutto attualissimi;
-il rapporto mobile con l’animalità (l’uomo elefante o la donna mulo – la “donna più brutta del mondo”): uomini primitivi, selvaggi, tatuati, donne barbute, ecc. con riferimento alla metamorfosi umano-animale, presente in tutte le culture (sarebbe interessante connettere tutto ciò all’attuale diffusione di piercing e tattoo, un tempo esibiti come stranezze tribali);
-l’individualità e il doppio (i gemelli siamesi).
Il mondo dei freaks rappresenta perfettamente questa ansia umana per la configurazione della norma e il sacro terrore per l’inadeguatezza e la non adesione alle forme prestabilite, ai confini, alle determinazioni: ogni freak (ma anche ogni creatura mostruosa immaginaria, come vampiri, zombi, alieni) mette in discussione le linee di demarcazione, i limiti, i confini tra vita e morte, tra i generi sessuali, tra umani e animali, fino a minare dalle fondamenta l’identità individuale.
Naturalmente proprio nella stessa epoca della diffusione dei freak show, corre parallelamente il tentativo di medicalizzare le mostruosità: un caso esemplare è The elephant man, storia molto ben raccontata da David Lynch nel suo film del 1980, sulla base delle testimonianze del dottor Treves. In questo caso celebre risalente all’epoca vittoriana, che scosse ed interessò molto l’opinione pubblica inglese, abbiamo una mescolanza di pietà e disgusto, attrazione e ripugnanza, atteggiamento scientifico e morbosità tipici dei fenomeni da baraccone.
Il povero John Merrick (che in realtà si chiamava Joseph) si barcamena in modo contraddittorio tra queste diverse, quando non opposte, pulsioni sociali e psicologiche, alla ricerca di un equilibrio, e di una propria forma di “normalizzazione”: ne è esemplare proprio la morte, avvenuta molto probabilmente a causa del suo desiderio di dormire come qualsiasi umano “normale”, supino e non in verticale, sorretto dai molti cuscini ad evitargli il soffocamento.
Si cerca insomma di normalizzare la mostruosità attraverso una “tassonomia” di tipo scientifico, sovrapponendo la scienza alle antiche categorie mitologiche o teratologiche. Attraverso l’eziologia, la ricerca delle cause (che tanto ossessionava gli studiosi di tali fenomeni, specie a partire dal Rinascimento) il mostro, il deforme, l’informe potrà essere messo sotto controllo medico-scientifico: curato, normalizzato, persino eliminato.
Rilevo tuttavia in ciò un’insufficienza di fondo: ci si dimentica spesso che la condizione umana è proprio l’esposizione radicale alla fragilità, alla possibilità della deformazione, all’imperfezione: anzi, il vero destino umano è proprio quello di attraversare una forma del tutto provvisoria (e cangiante: un’identità, dunque, più immaginaria che reale) destinata a declinare nell’informe. Siamo esposti alla contingenza, non solo al destino inevitabile della morte, e dunque alla distruzione finale della forma, ma anche alla malattia, ai colpi della sorte o al caso, alla possibilità, cioè, che la nostra forma venga deformata in qualsiasi momento.
Non esiste, insomma, condizione perfetta, normale, ideale, in assoluto. Siamo essenzialmente metamorfici, e la “norma”, la “forma” sono soltanto costruzioni difensive, un prodotto della nostra mente ossessionata dall’identità – e i corpi dei freaks sono memento e testimonianza della fragile condizione umana.
Come dice Diane Arbus, la grande fotografa di freaks e di diversi le cui immagini aprono questo post: «Molte persone vivono nel timore che possano subire qualche esperienza traumatica. I freaks sono nati con il loro trauma. Hanno già superato il loro test, nella vita. Sono degli aristocratici».
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Terminiamo avvicinandoci di più alla nostra epoca, epoca di grande ri-mitizzazione attraverso l’arte e il cinema: dopo le corti, le fiere, i circhi, persino i musei (ma anche l’uso scientifico dei corpi freak, ricercatissimi e contesi dagli studiosi) vi è oggi una macchina produttrice di immaginario freak davvero potente ed inesauribile, attiva prima nel cinema (fin dagli anni ’20), poi passando attraverso la cultura pop, hippy (freak appunto), con i suoi linguaggi giovanili (tra cui quelli del fumetto), fino ad arrivare più di recente alle serie TV (mi pare che X-files ne sia stata l’antesignana; Freaks di Ted Browning e l’horror degli anni ’30 per il cinema; mentre i fumetti della Marvel, con i suoi supereroi e mutanti, ha senz’altro influenzato più d’una generazione).
È insomma l’arte stessa ad essere un perenne fluire di forme, e a rendere accettabile ciò che altrimenti non lo sarebbe: l’arte rende tollerabile la fragilità della vita – la “storia della bruttezza” di Eco ne è, a tal proposito, un catalogo straordinario. Oltre a rendere relativi (ma anche autonomi l’uno rispetto all’altro) sia i concetti di bellezza che di bruttezza (che lo sono soprattutto in relazione al tempo e alle diverse culture), ci dice come la rappresentazione del mostruoso, del deforme, del grottesco sia una vera e propria cura di umiltà estetica: l’arte trasfigura anche la bruttezza, la rende tollerabile, fruibile, persino attraente – al di là dell’elemento morboso che pur sempre esiste, e che forse è spiegabile con un’inconscia pulsione di morte, una atavica paura per il necessario ed inevitabile ritorno all’indeterminatezza originaria, al caos informe evocato da Anassimandro, ciò da cui ogni forma proviene e cui è destinata a tornare.
(Tralasciamo qui il discorso, che pure sarebbe interessante affrontare, dell’uso strumentale dell’immaginario mostruoso – una vera e propria gallina dalle uova d’oro, visti i titoli che affollano i cinema multisala, la morbosità televisiva e le immagini che scorrono in rete).
L’arte appare comunque in grado di evitare rigide gerarchizzazioni o giudizi morali, di salvare e contemplare l’inesauribile varietà delle forme, anche le più altre e diverse: in tal senso l’estetica si fa etica (un’etica paradossalmente immorale), proprio nella sua capacità di abbracciare percettivamente e sensibilmente la realtà nella sua infinita multiformità – là dove la ragione, la scienza, la medicina, con tutti i loro strumenti tassonomici e catalografici, non sono capaci di afferrare il mistero del diverso, dell’alterità, del mostruoso, e devono così arrendersi di fronte all’impossibilità di una comprensione totale.
Ne è testimonianza straordinaria, con la quale chiudo, il film di Werner Herzog L’enigma di Kaspar Hauser. Nel finale, dopo avere eseguito l’autopsia ed avere dissezionato il cervello (abnorme) del povero sauvage parzialmente civilizzato, l’anziano scrivano-testimone (ed eco dei vari osservatori ufficiali dell’enigma) si dichiara soddisfatto per come la vicenda si è chiusa, e per come ha potuto compilare il suo protocollo e verbale: abbiamo dato una spiegazione razionale a ciò che sembrava non averne, abbiamo finalmente risolto l’enigma di Kaspar Hauser. Possiamo così tornare alla normale vita di tutti i giorni.
Ma l’enigma rimane del tutto insoluto: Kaspar Hauser resta una meteora, un alieno, un’alterità assoluta il cui significato – ammesso ci sia – continuerà a sfuggirci.