Allüberal und ewig
blauen licht die Fernen!
Ewig… ewig…
[Ho scritto buona parte di queste note – note finali su un plotiniano inconsapevole asceso alle azzurre trasparenze mahleriane – domenica 28 maggio, durante il viaggio in treno – l’ultimo viaggio – che mi portava al feretro di mio padre nella sua e nella mia terra. Ma i pensieri che in quelle dolenti ore mi sovvenivano alla mente erano più in generale il frutto di anni di rielaborazione del rapporto con lui e, soprattutto, della sua (e della mia) crescente consapevolezza del declino dell’esistenza, dell’apoptosi di ogni essere e della sua ineluttabilità]
L’ultima immagine che voglio ricordare di mio padre – che rappresenta quest’ultimo tratto del suo viaggio sulla terra e che insieme mi addolora e mi fa tenerezza fino allo struggimento – è il vederlo andare sulle sue gambe incerte verso la sala operatoria (a questo punto, e a posteriori, il suo patibolo) dove gli avrebbero asportato la laringe, insieme alla voce (e a un pezzo d’anima). Era la mattina del 6 marzo di quest’anno. Le volte successive che l’ho visto – quasi sempre allettato, sofferente e implorante a gesti la morte, fin dal suo risveglio nella sala di rianimazione del Policlinico di Messina – le vorrei rimuovere dalla mia memoria. Tutte quante. E siccome mi è stata risparmiata l’agonia degli ultimi giorni (e ringrazio gli dèi che sia stata breve) – per me lui è ancora lì, incerto e malfermo sulla soglia, che dirige smarrito lo sguardo verso di me, che accanto a mia madre cerco di rassicurarlo, e poi va dritto verso il suo destino.
Sto scrivendo queste note sul treno. I voli tutti esauriti. C’è il ponte imminente – lungo o breve, a seconda di come lo si colloca nella settimana – del 2 giugno, festa della (povera) Repubblica. Fa molto caldo, è un anticipo d’estate, la gente attorno a me ha assunto quell’aria un po’ frivola e vacanziera che tanto stride col mio stato d’animo – è strano portarsi la morte dentro mentre tutti sono così allegri e spensierati. Analizzo tutto questo a partire dall’immagine ossessiva della soglia.
Che cosa pensava mio padre in quel momento? Tutto quel che ha provato dopo è molto chiaro, anche troppo (e visto che lui era lucidissimo, nonostante i suoi 88 anni, era molto chiaro anche a lui). Quel suo puntare in qualche occasione il suo dito su di me come concausa della sua nuova (insopportabile) condizione – una nuova forma di vita nella quale non si riconosceva, troppo biochemiomeccanica per avere senso ai suoi occhi – quel dito puntato è una spina nella mia carne che non mi leverò più.
Ed è il motivo per cui maledico questo stato moralistico, subdolamente cattolico, che impedisce l’unica scelta giusta e razionale e profondamente etica in questi casi: l’eutanasia. Lo ridico forte e a chiare lettere: l’eutanasia! Mio padre, pur senza voce, l’avrebbe urlato a gran voce. Datemi la buona morte! Lui sarebbe stato un sacrosanto caso di richiedente diritto di morte – di buona morte, lo ripeto – contro tutte le (spesso interessate) pressioni sociosanitarie (e, ahimé, anche familiari). Siate pietosi con me, come io lo sono stato con voi. Altrimenti, che gli dèi vi maledicano! (ma lui, questo, non lo avrebbe nemmeno pensato).
La rabbia di mio padre, però, c’era in quei giorni. Eccome se c’era, ed era indirizzata anche a me. Lui che con me è sempre stato per lo più tenero e indulgente e fiero perché ero “quello che aveva studiato”, e lo avevo fatto anche per lui, per riscattare le millenarie ingiustizie e subalternità del “popolo di vinti” di cui faceva parte. Ma di questo parlerò un’altra volta. Ora torno alla sua rabbia.
Rabbia che si è poi sciolta in un misto di nausea e rassegnazione – e di desolata amarezza, in attesa di varcare l’altra soglia, quella definitiva.
Maledettamente cosciente, fino agli ultimi istanti – fin quando cioè gli organi hanno cominciato a cedere, uno dopo l’altro, cuore, polmoni, reni, fegato… in un marasma che Sua Maestà la medicina (che pure lo aveva salvato molte volte e tenuto in vita fin qui) non ha potuto arrestare. Proprio perché così lucido (e “dissociato” come ebbe a dire l’infermiera che usò il termine a caso, senza sapere di averci preso: dissociazione della mente dal corpo), non poteva accettare la sua nuova condizione.
“Veleno” aveva chiesto a mia madre, non più cibo o bevande che lo avrebbero “tirato su” – per lo meno dal letto.
Perché non ha potuto mordere il respiro e finire, come avrebbe voluto Diogene di Sinope? Perché, mi chiedo?
Di nuovo la soglia. È lì, ancora.
Dove? Dov’è ora mio padre? (non la sua anima, quella sta qui, tra questi grafemi e nella mia testa – non altrove).
Dov’è la sua figura, la sua forma, il suo essere – che ne è di lui?
Plotino rappresenta post-platonicamente e pre-cristianamente l’ascesa ai cieli dell’Uno (che non si sa bene cosa sia visto che è essenzialmente un non-essere o un oltre-essere più che un essere) come una forma estrema di solitudine – una “fuga di solo a solo”, dopo aver lasciato ogni spoglia mortale (e poco importa che ne parli come forma estatica di conoscenza extrarazionale, si tratta comunque di un’ascesa mistica che comporta l’abbandono del corpo e della vita materiale – un’assurda ed impossibile quasi-morte in vita).
Mahler, in una delle più alte manifestazioni vocali e sinfoniche mai comparse, rappresenta l’Addio – Der Abschied – in forma di struggente solitudine, e di elevazione alle azzurre trasparenze dell’infinito:
Dove vado? Vado, a vagare sui monti.
Cerco pace al mio cuore solitario.
Vado via, torno in patria, il mio sito.
Mai più di lì mi muoverò per andare lontano.
Tace il mio cuore e attende con ansia
la sua ora!
La cara terra dovunque
fiorisce in primavera e verdeggia
sempre di nuovo. Dovunque, eternamente
d’azzurro s’illuminano i lontani orizzonti!
Eternamente… eternamente…
Mio padre muore poco prima delle 9.30 del mattino. È domenica e sto correndo nei boschi col cuore in frantumi, mentre succede. Mio fratello, che fortunatamente si trova accanto al suo ultimo respiro – nei pressi della soglia – mi chiama: io vorrei essere là, ma il primo mezzo che può portarmi in Sicilia partirà solo a sera, non prima delle 19.00. Avevo in programma l’ascolto di Das Lied von der Erde di Mahler nel pomeriggio di quello stesso giorno in cui mio padre è morto. Non ho avuto un solo attimo di esitazione, quando mi son reso conto dell’incredibile e fatale contingenza (Mahler incombe da sempre sulla mia vita, specie nei momenti più difficili, e so che morirò con la sua ombra nerazzurra su di me): non poteva esserci una veglia funebre più appropriata dell’Addio, la tragica e dolente parte conclusiva di quel canto sinfonico della terra, che è soprattutto il desiderio di separarsene. Il musicologo Quirino Principe ne tira spietate somme, per lui il télos di quest’opera è «convincere chi ascolta che la disperazione è il nostro ineluttabile approdo. Gli angeli che salgono queste alture sono angeli neri».
In lacrime ho ascoltato quell’Ewig finale ripetuto fino alla dissoluzione di ogni cosa – la Gelassenheit che però è serenità priva di speranza, il medesimo abbandono dell’Adagio con cui si chiude anche la Nona Sinfonia, dopo che Mahler aveva perduto nell’estate del 1907 Maria Anna, la figlia di quattro anni, e il suo cuore stava per cedere definitivamente…
Tutto ciò si sta facendo fin troppo lacrimevole, e non è certo nello stile di Saverio. Quando una volta gli chiesi se avesse paura della morte, mi rispose senza tentennare: no! perché dovrebbe farmi paura?
Un’altra volta mi disse che desiderava una morte “secca” – non capii se, al di là dell’immediatezza, c’era qualcos’altro cui intendeva alludere con quell’aggettivo. D’altro canto la morte viene rappresentata con una figura segaligna e ossuta che impugna la falce che darà un colpo secco. Ancora Mahler, nella Tragica volle rappresentare la secchezza del colpo fatale con un colpo di martello – un enorme martello di legno, il cui suono, comunque, non riuscì a soddisfarlo.
Ad ogni modo, è certo che papà è tornato alla patria, al sito, al luogo originario, all’uno – e a tutte le consimili amenità metafisiche. Non più terra – azzurra trasparenza.
Papà, ora, è oltre la soglia.
Se n’è andato in punta di piedi. Così com’è vissuto per quasi 90 anni. Fossero di più gli umani così leggeri, che percorrono con un passo così lieve la terra!
Se penso, però, a quanto sia stata grave l’esistenza sul suo capo. A quanto lavoro, sfruttamento, ingiustizie, torti subiti.
Quando sento parlare (magari a vanvera) di “lotta di classe” penso a mio padre.
Quando sento qualcuno lamentarsi (magari per cazzate) penso a mio padre.
Quando sento dire immani sciocchezze sui migranti, penso a mio padre.
Quando non sento dire nulla di sensato su tutto ciò – ecco, penso a mio padre. E sorrido, amaramente, con lui.
Penso a lui bambino-pastore. A lui che s’arrangia nella Sicilia degli anni ’50. A lui che s’inurba, che emigra, che si industrializza negli anni ’60 – tra fonderie e cantieri.
A lui che ritorna alla terra.
Ora la terra gli sarà leggera. E gli ulivi gli faranno ombra.
Impressiona, stupisce, atterrisce, affascina (un fascino colmo di sacro terrore) l’ananke greca, la necessità naturale, il sigillo implacabile, il decreto inesorabile degli dèi contro l’impotenza umana (da cui mia madre è stata travolta), quel senso assoluto di ineluttabilità. L’ananke: l’essere in trappola che ha segnato ogni singolo passaggio, la catena stoica del cane legato al carro che avanza – e che non accetto, che vorrei spezzare, ma che so razionalmente di non poter nemmeno scalfire.
Io non posso nulla di fronte alla morte – che è anche un io non potrò nulla di fronte alla mia morte. La morte è già scritta sulla fronte della vita – a caratteri d’oro bruciato.
Mi immagino mio padre più che da solo a solo, distante e un po’ beffardo, sottilmente ironico come solo lui sapeva essere, che contempla l’inanità di ogni cosa dalle azzurre trasparenze del nulla. Plotino credeva fosse possibile elevarsi all’Uno e al senso ultimo delle cose in vita, con una fuga post-terrena, una sistematica opera di sottrazione, spoliazione, eliminazione. Ma la liberazione dalle catene del corpo è piuttosto la liberazione dalle pratiche che vorrebbero imbalsamare il corpo oltre ogni ragionevole misura. La dismisura è la cifra della nostra epoca.
Mio padre desiderava l’unico e vero pharmakon – il “veleno” che chiedeva a mia madre – che altro non erano che “i balsami dell’Ibla e le madide rugiade di Tessaglia” come ebbe a cantare la più grande poeta mai esistita sulla faccia di questa Terra d’abbandono.
Una morte epicurea?
Oh, quanto ci ho riflettuto e ho provato ad immaginarla, prefigurarla, pensarla, rappresentarla, anticiparla.
Una bella coppa di vino mentre il corpo cede alle piacevolezze di un bagno caldo.
Il passaggio insensibile dalla vita alla morte – che è indifferentemente quello dalla morte alla vita, cioè dal nulla all’essere e viceversa: quando si è si è e non si può non essere, mentre quando non si è non si sa che cosa sia la vita, il dolore, la morte – non si sa nulla. Se sei vivo non senti la morte, se sei morto non senti nulla. Come un improbabile switch metafisico. Clic! E scivoli dall’uno stato all’altro senza nemmeno rendertene conto.
Il problema è che manca sempre il protagonista di questo passaggio, non gli si può chiedere nulla proprio in forza di quel commutare, saltare da uno stato all’altro. O – o. Disgiunzione irrelata.
So però che mio padre desiderava un’insensibilizzazione maggiore e ben più concreta – una liberazione generale da tutti i dispositivi biochemiomeccanici che lo tenevano incatenato alla vita (ben più del cane stoico), in vita a tutti i costi. Ormai da troppo tempo.
Forse la sua morte epicurea ideale sarebbe stata quella che prevedeva di gettare ogni farmaco, ogni strumento, ogni siringa, ogni macchina, ogni cannula, ogni esame, ogni prelievo, ogni visita, ogni medico, ogni ricetta, ogni prescrizione, ogni stanza d’ospedale, ogni flebo, ogni lettino… e poi sdraiarsi nella vasca e bere un bicchiere di vino da accompagnare ad una melanzana fritta e una mezza granita di limone che gli lenisse l’arsura nella gola… semplicemente non esserci più, oscillare da uno stato all’altro, con la leggerezza con cui era vissuto. Esserci. Poi non esserci. Un battito. Nessun battito. Un respiro. Nessun respiro. Vita. Morte. Semplicemente.
Era la vita ad essersi fatta ormai pesante, smisurata, eccessiva – un marasma incontrollabile; e così la morte è venuta leggera come un soffio, una piccola smorfia sulle labbra (così mi hanno riferito i miei e i suoi cari) – muta e definitiva. Gliel’ho trovata, distesa, sulle labbra gelide ma rasserenate. Gelassenheit!
Intrico vitale semplificato: o vita o morte.
Meglio la morte – diceva sempre più spesso. E aveva ragione.
Una “morte secca”, appunto. Un taglio veloce di falce. Un taglio a tutti i fili, specie a quelli innaturali.
E i miei fili?
I fili che mi legavano a te?
Sono andato nel bosco. Ho urlato fino a ferirmi le corde vocali. Un unico urlo, anch’esso secco (fatelo qualche volta, è nelle facoltà umane, e fa più bene di farsi di qualunque sostanza, fisica o metafisica).
Voglio bere fino all’ultima goccia questo calice di dolore.
Ma non tutto d’un fiato. A piccoli sorsi interrotti.
E poi ritrovarmi. Solo.
Da solo a solo.
Ma non tu e l’Uno di Plotino (una delle tante sciocchezze metafisiche filate nei secoli – anche se molto elegante).
Tu ed io.
So che non ti rivedrò mai più, perché non è nelle mie, nelle nostre facoltà. A meno che non lo si voglia immaginare a tutti i costi (altre sciocchezze metafisiche che parlano di oltremondi e di fantasiose resurrezioni).
La mia immaginazione è più semplice e dimessa.
Voglio solo immaginare che tu stai ancora sulla battigia, dove di buon mattino amavo portarti.
La soglia non è quella della sala operatoria. Né quella dell’agonia e della morte.
La soglia è l’acqua marina, azzurra e trasparente come il cielo delle Eolie.
Sfiora lievemente i tuoi piedi.
E tu non arranchi più.
Muovi i passi con l’antico vigore, tra me e l’azzurro. Tra il cielo e il mare.
E io e te e i tuoi passi e il cielo e il mare siamo tutt’uno. Un uno con la minuscola, però.
Da solo a solo.
Ewig, ewig…
Caro Md,
sentite condoglianze!
Si è concluso un ciclo per un mortale che ha fatto onore alla sua terra.Eterno ritorno dell’uguale, senza telos ma di trama finissima. La Sicilia, antica per storia e cultura, formidabile per sapienza ti ha generato e ti ha chiamato ad assolvere il compito ineludibile di rimanerle fedele. E tu questo hai fatto, diventando te stesso, cioè la tua terra, che parla al mondo tramite il tuo Blog e racconta il senso profondo dell’appartenenza ai valori immortali dell’humanitas universale.
Tutto questo grazie a tuo Padre, che non ho conosciuto, ma a cui rivolgo un saluto riconoscente.
grazie caro Sergio!
e che belle parole!