Se c’è un’espressione che detesto è la vita continua.
Ti è successo questo, ti è successo quest’altro – ma la vita continua.
Ti è morto un genitore, un figlio/a, un amico/a, un compagno/a (valgono anche gli animali) – eppure la vita continua. Ci sarà sempre qualcuno che userà questa espressione trita, banale e stupidamente tautologica – volta forse a nascondere da una parte l’imbarazzo e l’incapacità di dire cose sensate di fronte ai lutti o alle tragedie, e dall’altra il sospetto che sempre alligna nella mente di chi la dice che quella vita che si vuole così continua e lineare sia in realtà un abisso di orrori.
Una vita come tante – A Little Life nell’edizione americana originale – romanzo della scrittrice di origini hawaiane Hanya Yanagihara, sembra quasi voler rispondere, e ci mette oltre mille pagine per farlo, alla banalità di quell’espressione – perché la vita non continua.
A dispetto della sua mole fluviale, potremmo ridurre l’intreccio narrativo a due semplici e però essenziali domande: la prima – che cos’è il male? – è inscritta nel destino toccato in sorte a Jude, l’infelice protagonista (ma chi è felice?), ovvero il male come indebolimento dell’altro, diminuzione sistematica della sua potenza vitale – quasi a dimostrare che nella vita di ogni umano c’è sempre un genio maligno che ha la funzione di inoculargli sottopelle un siero, con la precisa funzione anti-spinoziana di indurgli passioni tristi e inibirgli passioni liete. Progettare l’infelicità dell’altro – come ebbe a suggerire il filosofo amico dei lupi Mark Rowlands.
L’altra domanda – cui il romanzo risponde in maniera negativa – è se una vita possa essere “riparata”. Una volta che il siero ha avuto effetto e si è sparso lungo i meandri della psiche, ha invaso le stanze dell’anima, ha incrinato l’equilibrio affettivo, ha devastato la capacità di relazionarsi agli altri, difficilmente sarà possibile trovare l’antidoto. Il male, la contingenza e le circostanze della vita che causano la “rottura” delle persone sono spesso implacabili. Jude è uno di questi individui ontologicamente minati e incapaci di autoripararsi – e, ancor più, di accettare la possibilità che sia una qualunque cura a poterli aggiustare, tanto più che ciò che viene rotto in lui, fin dall’infanzia, è la capacità di fidarsi dell’altro e non solo di amare ma, forse ancor peggio, di ricevere amore; la sua paideia è stato un cumulo di abusi e di orrori, di sistematica e prolungata violenza pedofila, di prostituzione, di reclusione, una vera e propria riduzione in schiavitù: come può mai essere riparato tutto ciò? quale riscatto, quale resurrezione, quale salvezza è mai possibile? Ancor più del corpo è stata infranta l’anima di Jude – il cui destino appare segnato, nonostante la brillante ed insperata carriera di avvocato, il denaro, la posizione sociale.
Vero è che – al di là di medici o psichiatri – ci possono provare le relazioni, l’amore, gli amici – e di fatti Una vita come tante non è solo il canto tragico dell’impossibilità vitale – della sua perenne dis-continuità – ma anche la celebrazione delle varie forme di amore agli inizi del nuovo millennio, quella filiale-genitoriale (non necessariamente biologica), quella amicale, quella (pur difficilissima) dell’eros, soprattutto dell’omoerotismo – per non parlare delle forme più insondabili e difficili, come quella che lega Willem, l’attore assurto a stella del cinema, alla memoria del fratello disabile, una delle anse più commoventi del fiume narrativo. O anche l’amore (fraterno e però insondabile e senza sbocchi) tra i due eterni amici, tra Willem e Jude. Ma siamo comunque, per stessa ammissione dell’autrice, in una zona post-umana (post-moderna? postuma?) dell’amore, dove tutto sembra dover essere ricostruito alla luce di una antropologia devastata dalla modernità e del tutto incerta nei suoi nuovi profili soggettivi, visto che si reggono essenzialmente sulla forma dell’ego più narcisista ed autoreferenziale (e vuota) che sia mai comparsa nella storia umana.
L’amore è un mistero. La vita è un mistero. La sorte di ogni individuo è un mistero. Ma non si dica mai che la vita continua.