«I più, ciascuno dei quali non è un uomo di valore, possono tuttavia, riunendosi, essere migliori dei pochi. […] Infatti, essendo molti, ognuno ha la sua parte di virtù e di saggezza, sicché con la loro unione dalla moltitudine (plethos) si ottiene una sorta di uomo unico con molti piedi, molte mani e capace di percepire molte cose, e lo stesso accade anche per i costumi e l’intelligenza (dianoia)» [Aristotele, Politica]
[plethos: moltitudine, folla, masse, la maggior parte; in assonanza con populus, plus, polis – tutte parole derivanti dalla radice indoeuropea par- o pal- che esprime il concetto di riunire, mettere insieme]
Questa tesi aristotelica sull’unità dei molti – che potrebbe essere avvicinata alla interpretazione moltitudinaria del suo intelletto attivo, così come verrà riletta da Averroè come potenza collettiva dell’intelligenza umana, una sorta di mente sovraindividuale che può anche essere avvicinata al concetto marxiano di general intellect – ci riporta ai fondamenti della concezione politica, sia greca sia ripresa poi dalla modernità: l’unificazione dei molti risolverebbe il problema del conflitto naturale (la guerra di tutti contro tutti), soprattutto se è in grado di istituire uno stato coeso sorretto da un popolo-corpo unico, secondo la visione di Hobbes, che consolida ed anzi moltiplica la propria potenza di sviluppo, quasi si trattasse di un organismo biologico dotato di molte mani, braccia, gambe e di molte menti.
Ma prima di occuparci del presente, dobbiamo sostare un momento sul dibattito che nel ‘600 sorge proprio su questo punto, sulla distinzione cioè tra questi due concetti, non sovrapponibili, di popolo e moltitudine (se ne sono occupati diversi filosofi della politica italiani, tra cui Paolo Virno e Toni Negri).
La differenza apparirebbe chiaramente nelle due concezioni di contratto sociale e di fondazione dello stato in Hobbes e in Spinoza. È Hobbes a chiarire bene questa differenza, quando ritiene che la moltitudine sia un rigurgito dello stato di natura da evitare come la peste, e che l’unico modo per risolverne la conflittualità latente è fonderla e livellarla in un unico corpo compatto e coeso. Un vero e proprio corpo mistico cui viene dato il nome di popolo.
La moltitudine, invece, mantiene in Spinoza una propria autonomia rispetto al potere, anche perché per lui il diritto si fonda sulla forza individuale, sulla potenza che ciascuna forma di vita è in grado di esercitare, e dunque in ogni stato, sia esso monarchico, aristocratico o democratico, i molti esercitano sempre un condizionamento, una forma di resistenza che non si lascia assorbire integralmente da forme centrali di unificazione o di integrale assoggettamento.
Spinoza esclude infatti forme politiche che si reggono sulla violenza e sulla costrizione, o nelle quali i sudditi siano inerti, passivi, guidati come pecore – questo “può essere detto più correttamente solitudine anziché Stato”, dichiara nel suo Trattato politico.
Probabilmente questa dialettica tra popolo e moltitudine può spiegare molti passaggi della storia moderna – comprese le degenerazioni degli stati-nazione, le guerre mondiali e la nascita dei regimi totalitari: quell’immagine di Aristotele con cui abbiamo aperto, ci parla anche della possibilità che l’unificazione dei molti (specie di grandi masse) possa generare delle creature terrificanti.
È dunque sul concetto di popolo, e sull’alternativa moltitudine, che ragioneremo ora nell’epoca del cosiddetto “popolo della rete” e dei nuovi populismi che si affacciano sulla scena politica, con caratteristiche radicalmente diverse dal passato.
Premetto subito che occorrerà prima di tutto chiarire l’uso dei termini e dei concetti – gran parte della confusione politica odierna deriva, oltre che dal disagio reale e dal malessere sociale, anche dall’uso distorto delle categorie e dalla retorica dei nuovi sofisti e uomini di potere. Quando ad esempio si parla di popolo oggi, non si sa bene a quale entità ci si riferisce: le masse (o le classi) popolari di un tempo? Il popolo della sinistra? Il popolo della nazione? Il popolo della rete? La gente? I cittadini? (e i non-cittadini che fine fanno?) I consumatori? O non piuttosto le masse anonime costituite da innumerevoli atomi sociali?
L’epoca nella quale viviamo sta riscrivendo radicalmente i luoghi comuni, gli spazi della politica: ci troviamo in un paesaggio completamente diverso rispetto a quello del Novecento (che era maturato a partire da processi che derivavano dall’Illuminismo e dalla nascita del capitalismo industriale): non esistono più partiti di massa, così come non esistono più il lavoro fordista, le fabbriche, i luoghi classici dell’aggregazione sociale. C’erano le ideologie, la destra e la sinistra, le tradizioni politiche (socialista, comunista, liberale, democratico-cristiana…), le sezioni di partito, le case del popolo, le chiese, i sindacati…
Dunque, quando una forza politica fa riferimento al “popolo” – e compie inevitabilmente un gesto “populista” – a chi, a cosa si riferisce? A quali gruppi sociali, a quali contesti, a quale modello di comunità? E quale scopo persegue?
(Personalmente ritengo ormai che la questione del “populismo” – dare cioè del populista agli avversari politici – sia piuttosto stucchevole: in ogni discorso politico nelle società di massa è presente un certo grado di retorica populista).
Le analisi sociologiche ci dicono che ci troviamo di fronte a società fortemente disgregate, atomizzate, privatizzate: il “populismo digitale” di cui parla ad esempio Alessandro Dal Lago nel testo omonimo, che fa ampio riferimento al fenomeno italiano del MoVimento Cinquestelle, ovvero a quello che si sta rivelando un vero e proprio laboratorio politico per l’intero Occidente, possiede grosso modo la seguente configurazione: utenti della rete e dei social network, che si formano un’opinione in questo contesto e che delegano alla rete ogni spazio politico (pubblico); e dunque lo spazio della politica che si va sempre più riducendo al gesto di un click (potenzialmente potrebbe diventare il prossimo meccanismo di voto, così come pronosticato dal romanzo di David Eggers Il cerchio).
Cittadini che dunque sono essenzialmente privati in tutte le dimensioni materiali della loro vita (sempre più ridotte all’unica dimensione del consumo) e che confinano alla rete-contenitore generale la dimensione politica, svuotando al contempo tutti i contenitori tradizionali.
Naturalmente il populista più bravo sarà colui che è in grado di intercettare il “mood” del popolo della rete, i suoi umori (più spesso malumori) – è Marco Revelli a far riferimento al termine mood nel suo saggio Populismo 2.0. Ieri era Berlusconi con i telespettatori, oggi è Grillo con i digitatori. O Trump, che comunica direttamente col suo popolo tramite Twitter.
Qui occorre però ragionare anche sui rovesciamenti politico-elettorali – e sugli shock che si sono generati in Occidente a partire dal 2016: la Brexit, l’elezione di Trump, e ora il risultato di queste elezioni politiche italiane, disegnano uno scenario politico-sociale (e forse antropologico) totalmente irriconoscibile: le classi “popolari” abbandonano in massa i partiti di sinistra, e chiedono più nazionalismo, più sovranismo, più sicurezza.
L’onda lunga della globalizzazione neoliberista, con i suoi processi di deindustralizzazione, delocalizzazione, e soprattutto di precarizzazione del lavoro, ha generato delle potenti reazioni immunitarie. La sollevazione che ampie parti di “popolo” (e di borghesia) esprimono contro lo Stato nazionale e il residuo spazio della politica (sempre più succubi delle politiche monetarie e finanziarie dell’economia globale), è una reazione avversa e contraria, immunitaria, di paura e di chiusura.
Con un paradosso evidente: proprio lo strumento-principe della globalizzazione (la rete, per sua natura aperta), chiede antidoti e chiusure.
E veniamo all’ultimo passaggio di questo ragionamento, ovvero al cambio di paradigma antropologico cui stiamo assistendo in pochi decenni: l’automazione, la digitalizzazione, la “metafisica dello smartphone”, le potentissime stacks californiane, stanno radicalmente modificando i modi di produrre, consumare, vivere, comunicare – le esistenze sociali e politiche. E lo stanno facendo in direzione di moltitudini atomizzate.
Che è insieme un bene e un male. Potenzialmente pericoloso per l’incredibile potere che può essere esercitato da chi controlla la rete (trasparente in apparenza, ma opacissima nella determinazione algoritmica di che cosa sia vero e reale e desiderabile). Ma anche potenzialmente rivoluzionario, poiché – forse – vi è una moltitudine in campo, non più rinchiudibile nelle vecchie categorie, i ferri vecchi del “popolo”, dell’”etnia” o della “nazione” – nonostante le reazioni immunitarie di cui si parlava poco fa.
Al contempo però dobbiamo denunciare il pericolo di quella che il sociologo-filosofo Byung-Chul Han definisce psicopolitica, ovvero la capacità del potere 2.0 di intercettare il livello emotivo e prepolitico dei singoli, con una profilazione puntuale, quasi individualizzata, e di indirizzare e condizionare così i desideri di un popolo sempre più irretito e consumato.
La domanda si fa radicale: che ne è dello spazio della politica e della decisione? Torniamo alle paure di Hannah Arendt a proposito di una riduzione dell’antropologia umana a quella di produttori (anche se in prospettiva saranno le macchine a produrre per noi), e quindi oggi soprattutto di consumatori, fruitori di mondi e desideri prodotti e indotti da altri: sparizione, insomma, di quella “vita activa”, di quel modo di essere (zoon politikon) che ci caratterizza da alcuni millenni.
Ecco forse che la politica – che è sempre una forma di coscienza-conoscenza (come puoi decidere se non sai?) – si avvia ad essere più che altro una forma di desistenza-resistenza: evitare che le macchine – la tecnica, l’economia e tutto il connesso immaginario del’iperconsumo – ci annichiliscano. E ci facciano diventare dei lobotomizzati iperconnessi ad un mondo virtuale da tecnoincubo (sconnessi dalla materialità dell’esistenza e dalla natura), una vera e propria Matrix globale.